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I DUE GEMELLI VENEZIANI | 153 |
SCENA VII.
Lelio e detti.
Lelio. (Ecco qui il mio fortunato rivale. Voglio vedere se colla dolcezza del mio pregare posso vincer l’amarezza del suo negare). (da sè)
Tonino. (Basta, colù me la pagherà). (da sè)
Lelio. M’inchino all’elevato, anzi altissimo invidiabil merito del più celebre eroe dell’Adriatico cielo.
Tonino. Servitor strepitosissimo della sua altitonante grandezza.
Lelio. Perdoni, se colla noiosa articolazione de’ miei accenti ardisco offendere il timpano de’ suoi orecchi.
Tonino. Regurgiti pure la tromba de’ suoi eloqui, che io lasserò toccarmi non solo el timpano, ma ancora el tamburo.
Lelio. Sappia ch’io sono delirante.
Tonino. Me ne son accorto alla prima.
Lelio. Amore cogli avvelenati suoi strali ferì l’impenetrabil mio core.
Tonino. Sarave poco ch’el v’avesse ferio el cuor: l’è che el v’ha ferio anca el cervello.
Lelio. Ah, signor Zanetto, voi che siete della famiglia de’ Bisognosi, soccorrete chi ha bisogno di voi.
Tonino. La gh’ha bisogno de mi? Mo per cossa?
Lelio. Perchè ardo d’amore.
Tonino. E mi l’ho da consolar?
Lelio. Voi solo avete da risanar la mia piaga.
Tonino. Aseo! de che paese xela, patron?
Lelio. Sono del paese degli sventurati, nato sotto il cielo de’ miseri ed allevato nel centro de’ disperati.
Tonino. E el morirà all’ospeal dei matti.
Lelio. Troncherò il filo del laberintico mio discorso colle forbici della brevità. Amo Beatrice, la desidero, la sospiro; so che da voi dipende, la chiedo in dono alla vostra più che massima, più che esemplarissima generosa pietà.
Tonino. Anca mi col cortelo della schiettezza taggierò el groppo della resposta. Beatrice xe mia, e cederò a tutti i tesori del