I due gemelli veneziani/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Strada. Da una parte la casa del Dottore, dall’altra osteria con insegna.
Arlecchino da viaggio, con un Facchino che porta
una valigia ed un ferraiuolo1.
Arlecchino. Finalmente semo arrivadi alla bella città di Verona, dove Cupido ha scoccà quella frezza che m’ha ferido el cor, senza che veda l’arco. Dove posso2 dir d’esser innamorà in una che non ho mai visto; dove ho da sposar una donna che no cognosso.
Facchino. Vorrei che ci sbrigassimo, perchè ho altri impegni, e voglio andarmi a guadagnare il pane.
Arlecchino. Mi no so dove mai sia allozado quell’alocco del mio patron. Dim, caro ti, cognosset ti el sior Zanetto Bisognosi?
Facchino. Non lo conosco, non so chi sia.
Arlecchino. Mo l’è el mio patron. L’è vegnù da Bergam a Verona per maridarse; lu l’ha da lor la patrona e mi ho da tor la serva, per mantegnir el capital in casa. Lu l’è vegnù avanti de mi: mi son qua colla roba: ma no so dove el sia allozado, e no so come far a trovarlo.
Facchino. Quando non sapete più di così, Verona è grande; durerete fatica a ritrovarlo.
Arlecchino. Fortuna, te ringrazio. Zitto, che l’è qua che el vien. Retiremose in disparte: ghe vôi far una burla: vôi veder se el me cognosse.
Facchino. È troppa libertà scherzar col padrone.
Arlecchino. Eh, tra lu e mi semo amici: andemo, che me vôi tor un poco de spasso.
Facchino. Ma spicciatevi, che non ho tempo da perdere.
Arlecchino. Va là, che te pagherò. (si ritirano)
SCENA II.
Tonino e detti, ritirati.
Tonino. Gran cossa che no possa saver gnente de Beatrice! Pussibile che la m’abbia impiantà, che la m’abbia tradio?
Arlecchino. (Intabarrato3 con caricatura passeggia avanti Tonino, da lui creduto Zanetto).
Tonino. (Coss’è sto negozio? Costù cossa vorlo dai fatti mii?) (da sé)
Arlecchino. (Torna a ripassare acanti a Tonino, con aria brusca e minaccevole.)
Tonino. (Ch’el fusse qualche sicario mandà a Verona da quello del schiaffo?) (da sé)
Arlecchino. (Ripassa, battendo i piedi.)
Tonino. Coss’è, sior, cossa voleu? Chi seu?
Arlecchino. (Oh che matto, nol me cognosse.) (da sè, ridendo)
Tonino. Anemo, digo, diseme cossa che volè da mi.
Arlecchino. (Fa qualche atto di bravura.)
Tonino. Adesso vederemo chi xe sto bravazzo. (metle mano alla spada)
Arlecchino. Alto, alto: fermeve: no me cognossì? (si scopre)
Tonino. Chi seu? Mi no ve cognosso.
Arlecchino. Come! no me cognossì?
Tonino. Sior no, no ve cognosso.
Arlecchino. (Stè a veder che l’aria della città l’ha fatto deventar matto). (da sè)
Tonino. Voleu dirme chi sè? cossa che volè?
Arlecchino. Diseme4: avi bevù? (ridendo)
Tonino. Manco confidenza, che ve taggio i garetoli5.
Arlecchino. Donca no me cognossì?
Tonino. Sior no, no ve cognosso.
Arlecchino. Adess me cognosserì6. Tolì sta roba: me cognossì ve7? (gli dà un baulelto con delle gioie)
Tonino. (Gran belle zogie! Coss’è sto negozio?) (da sè)
Arlecchino. E cussì? Me cognossìve?
Tonino. Sior no, no ve cognosso.
Arlecchino. No? Adess me cognosserì8. Tolì sti bezzi. Me cognossìve? (gli dà una borsa con denari)
Tonino. (Una borsa de bezzi?) (da sè) Sior no, no ve cognosso.
Arlecchino. Oh maledettissimo, no me cognossì? Tolì sta valise, e me cognosserì.
Tonino. Con tutta sta valise mi no ve cognosso.
Arlecchino. Siu matt9, o imbriago?
Tonino. Matto o imbriago sarè vu. Ste zogie e sti bezzi no la xe roba mia: son galantomo e no la voggio. Tiolè, e portela de chi la xe.
Arlecchino. Me maraveggio de vu: quella l’è roba vostra. Le zogie, i bezzi, la valise l’è quel che m’avi consegna da portarve, e mi fedelmente ve l’ho porta. Disim, dove seu allozà.
Tonino. In quell’osteria.
Arlecchino. Che porta la valise là drente?
Tonino. Sì, portela pur, za che volè cussì.
Arlecchino. Ma no me cognossì?
Tonino. No ve cognosso.
Arlecchino. Puh! Mamalucco maledetto. Vagh in te l’osteria. Porto in camera la valise, vegnirè a dormir, e quand averi digerida la cotta, me cognosserì. (prende la valigia e il tabarro10, ed entra nell’osteria)
SCENA III.
Tonino, poi Colombina.
Tonino. Questo el xe un bell’accidente. Un bauletto de zogie, una borsa de bezzi per qualchedun i saria a proposito: ma mi son un omo de onor, son un galantomo, e no voggio la roba de nissun. Colù xe un matto. Sa el cielo come ghe xe capità sto scrigno e sta borsa in te le man. Se no la tegniva mi, el l’averave dada a qualche baron. Mi custodirò l’un e l’altra: e se saverò chi abbia perso sta roba, ghe la restituirò con tutta pontualità.
Colombina. Serva, signor Zanetto.
Tonino. A mi?
Colombina. Sì, a lei. Non è lei11 il signor Zanetto Bisognosi?
Tonino. Son mi, per servirla. (Manco mal che la me cognosse per Zanetto). (da aè)
Colombina. Se si compiace, la mia padrona gli12 vorrebbe parlare.
Tonino. (Ho inteso. Solite avventure dei forestieri), (da sè) Volentiera: co no volè altro, ve servirò.
Colombina. Uh che belle gioje, che ha il signor Zanetto!
Tonino. (Ah ah, adesso capisso megio. Dal balcon l’ha visto le zogie, e la m’ha manda l’ambassada). (da sè13)
Colombina. Sicuro: m’immagino che saranno destinate per la signora Rosaura.
Tonino. Ghe xe la vostra patrona?
Colombina. La mia padrona, sì signore.
Tonino. (Se ve digo mi che le tende alle zogie: ma sta volta le l’ha fallada. Voggio però devertirme). (da sè) Pol esser anca de sì, segondo che la me anderà a genio.
Colombina. In questo poi, non fo per dire, ma è una bella giovine.
Tonino. (Brava! Come che la batte ben el canafioa!) (da sè) Ma, digo, come s’avemio da regolar?
Colombina. In che proposito?
Tonino. Circa alle moneeb.
Colombina. Eh, lei non ha bisogno di denari.
Tonino. (Eh sì, la tira alle zogie). (da sè) Donca la xe ricca la vostra patrona.
Colombina. Figuratevi, è figlia di un Dottore.
Tonino. La xe fia d’un Dottor!
Colombina. Oh sì, che non lo sapete.
Tonino. Ma el sior Dottor gh’è pericolo ch’el me diga gnente, sel me vede in casa?
Colombina. Anzi lo desidera, e sono venuta a chiamarvi d’ordine ancora di lui.
Tonino. (Bravi! Pare, fia e masserac, tutti de baiad. No vorave entrar in qualche impegno) (da sè) Sentì, fia mia, diseghe alla vostra patrona che vegnirò un’altra volta.
Colombina. No no, signore, desidera che venghiate subito; e se siete un uomo civile, non lasciate di compiacerla.
Tonino. Lassè, tanto che vaga qua a metter zo sto bauletto, e pò vegno.
Colombina. Oh quest’è bella! Anzi dovete venire colle gioje, se volete consolarla.
Tonino. (Eh za, l’ho dito. I vol le zogie. Ma sta volta no i fa gnente siguro. No le xe mie: e pò son cortesane. So el viver del mondo). (da sè, e chiude14 il bauletto)
SCENA IV.
Il Dottore di casa, e detti.
Colombina. Signor padrone, ecco qui il signor Zanetto. Io mi affatico a persuaderlo a venir in casa, ed egli non vuole.
Dottore. Eh via, signor Zanetto, vada in casa, che mia figlia l’aspetta.
Tonino. (Bravo, bravo, bravo). (da sé)
Dottore. Questa sua renitenza è un torto manifesto, che lei fa a quella buona ragazza.
Tonino. (Megio, megio, megio). (da sé)
Dottore. Vuole che venga lei15 sopra della strada?
Tonino. Oibò, più tosto anderò in casa.
Dottore. Oh via dunque, da bravo.
Tonino. Me dala licenza?
Dottore. Padrone di giorno, di notte, a tutte le ore.
Tonino. Sempre. Porta averta.
Dottore. Per il signor Zanetto porta spalancata.
Tonino. Ma per mi16 solo?
Dottore. Per lei solo, sicuramente.
Tonino. E per altri no certo?
Colombina. Se no fosse per qualche amico di casa.
Tonino. Eh za, se gh’intende. Vago.
Dottore. Sì, vada pure.
Tonino. E posso andar, star e tornar...17
Dottore. Quando ella vuole.
Tonino. Cavarme zoso18 e despogiarme...19
Dottore. Sicuramente.
Tonino. Magnar un boccon.
Dottore. Padronissimo.
Tonino. Ho inteso tutto. Sioria vostra. (va per entrare in casa)
Dottore. Signor Zanetto, una parola in grazia.
Tonino. (Stè a veder, ch’el vol la bonaman). (da sè) Comandè.
Dottore. Perdoni la confidenza. Cos’ha di bello in quel bauletto?
Tonino. (Ah ah, l’amigo ha lumàf le zogie). (da sè) Certe bagatelle. Certe zogiette.
Dottore. Buono, buono. Mia figlia sarà tutta contenta.
Tonino. (Oh che Dottor bon stomegog). (da sè) Basta, se l’averà giudizio, le sarà soe. (In tel comioh). (da sè)
Dottore. Veramente colle donne bisogna essere liberale.
Tonino. Compare, son20 galantomo. Non21 averè da dolerve de mi nè vu, nè vostra fia.
Dottore. Di ciò ne sono più che certo.
Colombina. Via, finitela, andate una volta. (a Tonino)
Tonino. Vago solo?
Dottore. Sì, con tutta libertà.
Tonino. Bravo. Cussì me piase. (Questo xe un pare de garbo. Lori tende alle zogie, e mi spero cavarme dai freschi con un per de lirazze). (da sè, ed entra in casa del Dottore)
SCENA V.
Dottore e Colombina.
Colombina. Mi pare che questo signor Zanetto sia poco innamorato della signora Rosaura.
Dottore. Ma perchè?
Colombina. Non vedete quanta fatica ci vuole a farlo andar in casa? Vago solo, sior sì, sioria vostra. Mi fa venire i dolori colici.
Dottore. Da una parte lo compatisco. Sai cosa gli ha fatto Rosaura?
Colombina. E che gli ha fatto?
Dottore. Gli ha dato un potentissimo schiaffo.
Colombina. Per qual cagione?
Dottore. Credo perchè egli volesse un poco stender le mani.
Colombina. In questo poi la signora Rosaura ha ragione. E voi ora, perdonatemi, avete fatto male a rimandarglielo in tempo ch’è sola.
Dottore. Eh, non è sola. Vi è il signor Pancrazio, che fa la guardia.
Colombina. Sia maledetto quel vostro signor Pancrazio.
Dottore. Cosa ti ha fatto, che lo maledisci?
Colombina. Io non lo posso vedere. Fa il bacchettone; ma poi...
Dottore. Ma che poi?
Colombina. Basta, mi ha detto certe cose.
Dottore. Cosa ti ha detto? Parla.
Colombina. Piace anche a lui allungar le mani.
Dottore. Chetati, bocca peccatrice. Non parlar così di quell’uomo, che è lo specchio dell’onoratezza e dell’onestà. Portagli rispetto e rendigli ubbidienza, come faresti a me medesimo. Egli è un uomo dabbene, e tu sei una ignorante, una maliziosa. (parte)
SCENA VI.
Colombina, poi Arlecchino.
Colombina. Dica quel che vuole il signor padrone, sostengo e sosterrò sempre che il signor Pancrazio è un uomo finto e un poco di buono.
Arlecchino. Dove diavol l’è andà sto matto? L’è un’ora che aspett, e nol ved a vegnir.
Colombina. Che morettino grazioso!
Arlecchino. Vôi domandar22 a sta ragazza, se la l’ha visto. Disim un pò23, bella putta, se no fallo, cognossì un cert sior Zanetto Bisognosi?
Colombina. Lo conosco sicuro.
Arlecchino. L’avi vist che l’era qua?
Colombina. L’ho veduto.
Arlecchino. Me faressi la carità de dirm dov che l’è andà?
Colombina. È andato in quella casa.
Arlecchino. Chi ghe sta mo in quella casa?
Colombina. La signora Rosaura, la sua sposa.
Arlecchino. La cognossela lei la siora24 Rosaura?
Colombina. La conosco benissimo.
Arlecchino. E la so cameriera la cognossela?
Colombina. Non volete che la conosca? Sono io.
Arlecchino. Come! ela... la siora... Colombina?
Colombina. lo sono Colombina.
Arlecchino. E mi sala chi son?
Colombina. E chi mai?
Arlecchino. Arlecchin Battocchio.
Colombina. Voi Arlecchino?
Arlecchino. Mi.
Colombina. Il mio sposo!
Arlecchino. La mia sposa!
Colombina. Oh carino!
Arlecchino. Oh bellina!
Colombina. Oh che piacere!
Arlecchino. Oh che consolazione!
Colombina. Quando siete arrivato?
Arlecchino. Fem una cossa; andem in cà, che discorreremo.
Colombina. Aspettate un momento, che dica una parola alla padrona, prima d’introdurvi in casa. Non so s’ella l’accorderà.
Arlecchino. Ho da parlar anca mi col me patron.
Colombina. Fermatevi qui, che subito torno.
Arlecchino. Mo sì25 molt bella! Mo26 son tutto contento.
Colombina. Eh via, mi burlate.
Arlecchino. Ve lo zuro da putto onorato.
Colombina. Mi vorrete bene?
Arlecchino. Sì, andè, no me fè più penar.
Colombina. Vado, vado. (È veramente grazioso). (da sè, ed entra in casa)
SCENA VII.
Arlecchino, Colombina di dentro, poi Zanetto.
Arlecchino. Fortuna, te rengrazio. Mo l’è molt bella! Mo l’è una gran bella cossa! Altro che Lugrezia Romana! Se Lugrezia Romana ha piass a Sesto, questa la saria capaze27 de dar soddisfazion anca al settimo.
Colombina. Arlecchino, venite, venite, che la padrona se ne contenta. (di dentro)
Arlecchino. Vegno, cara, vegno. (fa per entrare in casa, e Zanetto sulla parte opposta lo vede per di dietro.)
Zanetto. Oe28! Arlecchin, Arlecchin. (lo chiama)
Arlecchino. Sior. (si volta)
Zanetto. Quando?
Arlecchino. Come?
Zanetto. Ti qua?
Arlecchino. Vu qua?
Zanetto. Seguro.
Arlecchino. Ma no sé in casa?
Zanetto. Dove?
Arlecchino. Dell’amiga? (accenna la casa di Rosaura)
Zanetto. Oibò.
Arlecchino. (Donca culia m’ha burlà). (da sé)
Zanetto. Dov’è la roba?
Arlecchino. Oh bella! all’osteria29.
Zanetto. Dove?
Arlecchino. Che mamalucco! Là, alle do Torre30.
Zanetto. Gh’è tutto?
Arlecchino. Tutto.
Zanetto. I bezzi e le zogie?
Arlecchino. (Noi gh’ha gnente de memoria).(da sé) I bezzi e le zogie.
Zanetto. Andemo a veder.
Arlecchino. Andemo.
Zanetto. Gh’astui la chiave?
Arlecchino. De cossa?
Zanetto. Della camera.
Arlecchino. Mi no.
Zanetto. Mo ti lassi cussì i bezzi e le zogie?
Arlecchino. Ma dov’eli i bezzi e le zogie?
Zanetto. Dove xeli?
Arlecchino. Oh bella!
Zanetto. Oh bona!
Arlecchino. Ma no v’ho dà a vu i bezzi e le zogie?
Zanetto. Mi no gh’ho abùj gnente.
Arlecchino. (L’è matt in conscienza mia). (da sè)
Zanetto. Ma dov’eie le zogie de mio sior barba31? Le hastu portae?
Arlecchino. Le ho portae.
Zanetto. Ma32 dove xele?
Arlecchino. Caro vu, andemo drento, che debotto me scampa la pazenzia33).
Zanetto. Mo via, subito ti va in collera. Le sarà de su in camera.
Arlecchino. Le sarà de su in camera.
Zanetto. Mo va là, che ti xe un gran alocco! (entra nell’osteria)
Arlecchino. Ande là, che sè un gran omo de garbo! (entra anche lui34)
SCENA VIII.
Colombina sulla porta.
Arlecchino, dove siete? Oh questa è graziosa! Se n’è andato. Bell’amore che ha egli per me! Ma dove sarà andato? Basta, se vorrà, tornerà; e se non torna, a una ragazza come son io, non mancheranno mariti. (entra in casa)
SCENA IX.
Camera in casa del Dottore, con tavolino e sedie.
Tonino solo a sedere, poi Brighella.
Tonino. Xe un’ora che stago qua a far anticamera, e sta patrona no la se vede. No vorave che i m’avesse tolto per gonzo, e che i me volesse tegnir in reputazion la marcanzia, per farmela pagar cara. A Tonin no i ghe la ficca. Son venezian, son cortesan, e tanto basta. Anemo, o drento, o fora. Oe, gh’è nissun in casa35?
Brighella. Son qua a servirla. Cossa comandela?
Tonino. Chi seu vu, sior?
Brighella. Son servitor de casa.
Tonino. (Cancarazzo! Livrea?) (da sé) Diseme, amigo, la vostra patrona fala grazia36, o vaghio via?
Brighella. Adesso la vago subito a far vegnir. Perchè mi, sala, son servitor antico37 de casa, e anca bon servitor della fameggia Bisognosi.
Tonino. Me cognosseu mi?
Brighella. Ho cognossuo el so signor38 fradello. Un zovene veramente de garbo.
Tonino. Dove l’aveu cognossù39?
Brighella. A Venezia.
Tonino. Donca l’avere cognossù putelok.
Brighella. Anzi grando e grosso... Ma vien la patrona.
Tonino. No no, diseme. Come l’aveu cognossù a Venezia grando e grosso?
Brighella. La me perdona, bisogna che vada. Se parleremo meggio: all’onor de servirla. (parte)
SCENA X.
Tonino, poi Rosaura.
Tonino. Che diavolo dise costù? O che l’è matto, o che qualcossa ghe xe sotto.
Rosaura. Serva, signor Zanetto; compatisca se l’ho fatto aspettare.
Tonino. Eh gnente, patrona, me maraveggio. (Oh che tòcco! oh che babiol!) (da sè)
Rosaura. (Mi guarda a mezz’aria. Sarà in collera per lo schiaffo). (da sè)
Tonino. (Stago a Verona. No vago più via). (da sè)
Rosaura. Perdoni, se l’ho incomodata.
Tonino. Gnente, gnente, patrona; anzi me posso chiamar fortuna, che la m’abbia fatto degno dell’onor della so compagnia.
Rosaura. (Quest’insolito complimento mi fa creder ch’ei mi derida. Bisogna placarlo e secondar il suo umore). (da sè)
Tonino. (E pur all’aria la par modesta). (da sè)
Rosaura. È stato mio padre, che mi ha obbligata a farla40 venir in casa.
Tonino. E se no giera so sior pare, no la me chiamava?
Rosaura. Io certamente non avrei avuto tanto ardire.
Tonino. (Vardè quando i dise dei pari, che precipita le fie!) (da sè) Donca per mi no la gh’ha nissuna inclinazion?
Rosaura. Anzi ho tutta la stima per voi.
Tonino. Tutta so bontà. Possio sperar i effetti della so bona grazia?
Rosaura. Potete sperar tutto, se mio padre così dispone.
Tonino. (Poveretta! la me fa peccà. El pare41 ghe dà la spenta, e ela zoso). (da sè) Ma la prego, in grazia, no so se la me intenda. Come avemio da contegnirse?
Rosaura. Circa a che?
Tonino. Circa alla nostra corrispondenza?
Rosaura. Parlatene con mio padre.
Tonino. Ah, con lu se fa l’accordo: con lu se fa tutto.
Rosaura. Certo che sì.
Tonino. (Ah che Dottor cagadonao! ) (da sè) Ma intanto che lu vien, za che semo tra de nu, no poderessimo mo...
Rosaura. Che cosa?
Tonino. Devertirse un pochetto.
Rosaura. Ricordatevi dello schiaffo42.
Tonino. (Tiolè. Anca ella la sa del schiaffo, che ho dà a quel sior a Venezia). (da sè) Eh, che no me le arecordo più ste bagatelle.
Rosaura. Me le ricordo ben io.
Tonino. Eh ben, cossa gh’importa?
Rosaura. M’importa, perchè siete troppo ardito.
Tonino. Ma, cara ella, in te le occasion no bisogna farse star43.
Rosaura. Nelle occasioni conviene aver prudenza.
Tonino. Non so cossa dir, la gh’ha rason. No farò più. Me basta che la me voggia ben.
Rosaura. Di questo ne potete star sicuro.
Tonino. Ah! (sospira)
Rosaura. Sospirate? Perchè?
Tonino. Perchè gh’ho paura che la diga cussì a tutti.
Rosaura. Come a tutti? Mi meraviglio di voi.
Tonino. Gnente, gnente, la me compatissa44.
Rosaura. Che motivo avete di dir questo?
Tonino. Che dirò; siccome so vegnù a Verona in sta zorenada, cussì no me posso persuader, che subito la s’abbia innamora de mi.
Rosaura. Eppure, appena vi ho veduto, subito mi sono sentito scorrere un certo ghiaccio nel cuore, che quasi m’ha fatto tramortire.
Tonino. (Ghe credio, o no ghe credio? Ah, la xe donna, gh’è45 poco da fidarse). (da sè)
Rosaura. E voi, signor Zanetto, mi volete bene?
Tonino. Sè tanto bella, zentil e graziosa, che bisognerave esser de stucco a no volerve ben.
Rosaura. Che segno mi date del vostro amore?
Tonino. (Qua mo no so, se ghe voggia carezze o bezzi), (da sè) Tutto; comande.
Rosaura. Tocca a voi a dimostrarmi il vostro affetto.
Tonino. (Ho inteso. Veggio darghe una tastadinam ). (da sè) Se no fusse troppo ardir, gh’ho qua certe zogiette, dirave che la se servisse. (apre lo scrignetto, e le fa vedere le gioje)
Rosaura. Belle, belle davvero. Le avete destinate per me?
Tonino. Se la comanda, le sarà per ella.
Rosaura. Accetto con giubilo un dono così prezioso, e lo conserverò come primo pegno della vostra bontà.
Tonino. Basta, a so tempo descorreremo. (Oh che cara modestina! no la se farà ve miga pregar). (da sè)
Rosaura. Ma ditemi, non volete con altro segno assicurarmi della vostra fede?
Tonino. (Ah, la me voria despoggiar alla prima), (da sè) Son qua; gh’ho certi zecchini, se la li voi, ghe li darò anca quelli.
Rosaura. No no, questi li potrete dare a mio padre. Io non tengo denaro.
Tonino. (Sì ben, la fia traffegan, el46 pare tien cassa). (da sè) Farò come che la vol.
Rosaura. Ma però non vi disponete a darmi quello che vi domando.
Tonino. Che diavolo! Voria la camisa? Ghe la darò.
Rosaura. Eh, non voglio da voi ne la camicia, ne il giubbone. Voglio voi.
Tonino. Mi? Son qua tutto per ela.
Rosaura. Oggi si può concludere.
Tonino. Anca adesso, se la vol.
Rosaura. Io sono pronta.
Tonino. E mi prontissimo.
Rosaura. Mi volete dar la mano?
Tonino. La man, i pìo, e tutto quel che la vol.
Rosaura. Chiameremo due testimoni.
Tonino. Oibò. Da cossa far de do testimoni?
Rosaura. Perchè siano presenti.
Tonino. A cossa?
Rosaura. Al nostro matrimonio.
Tonino. Matrimonio? Punto e virgola.
Rosaura. Ma non dite che siete pronto?
Tonino. Son pronto, è vero: ma matrimonio, cussì subito...
Rosaura. Andate, andate, che vedo che mi burlate.
Tonino. (No la me despiase, e fursi fursi faria col tempo la capochieriap. Ma sta facilità de invidar la zente in casa, no me piase). (da sè)
Rosaura. Siete troppo volubile, signor Zanetto.
Tonino. Volubile? No xe vero. Anzi son l’esempio della costanza e della fedeltà. Ma sta sorte de cosse, la sa meggio de mi, le se fa con un poco de comodo. Se ghe pensa suso, e no se precipita una resoluzion de tanto rimarco.
Rosaura. E poi dite che non siete volubile. Ora volete far subito, non volete nè cerimonie, nè solennità; ed ora cercate il comodo, il pensamento ed il consiglio.
Tonino. Se ho dito de voler subito... me sarò inteso... basta... no vorave che l’andasse in collera.
Rosaura. No no, dite pure.
Tonino. Che se avesse podesto aver una finezza...
Rosaura. Prima del matrimonio non la sperate.
Tonino. No certo?
Rosaura. No sicuro.
Tonino. Ma, e le zogie?
Rosaura. Se me le date con questo fine, tenetele, ch’io non le voglio.
Tonino. Recusandole co sta bella virtù47, la le merita più che mai. La xe una zovene de garbo, e xe pecca che la gh’abbia un pare cussì scellerato.
Rosaura. Che ha fatto di male il mio genitore?
Tonino. Ghe par poco? Introdur un omo in casa de so fia co sta polegana48, e metterla in cimento de precipitar!
Rosaura. Ma egli l’ha fatto, perchè siate49 mio sposo.
Tonino. Me maraveggio, no xe vero gnente. No avemo mai parla de sta sorte de negozi.
Rosaura. Ma non ne avete trattato per lettera?
Tonino. Siora no, no xe vero gnente. El se l’insonia, el ghe lo dà da intender. El xe un poco de bon, perchè el sa che gh’ho un poco de bezzi, el m’ha tolto de mira, e el se serve della so bellezza per un disonesto profitto.
Rosaura. Signor Zanetto, voi parlate male.
Tonino. Pur troppo digo la verità. Ma la senta: vedo che ella merita tutto, e per la so bellezza e per la so onestà; no la se dubita gnente. La staga forte, la me voggia ben, e forsi col tempo la sarà mia mugger.
Rosaura. Io resto molto mortificata per un tal accidente. Senza la speranza che foste mio sposo, non avrei avuto il coraggio di mirarvi in faccia. Se mio padre m’inganna, il cielo glielo perdoni. Se voi mi schernite, siete troppo crudele. Pensateci bene, e in ogni caso rammentate ch’io vi amo, ma coll’amore più onesto e il più onorato del mondo. (parte)
SCENA XI.
Tonino, poi Brighella.
Tonino. Chi ha mai visto una fia più modesta de un pare più scellerato? Matrimonio? Tonin, forti in gambe. Co l’è fatta, l’è fatta. E pur custia50 me bisega in tel cuor 51. Ma, e Beatrice che gh’ho promesso, e xe scampada per causa mia? Ma dove èla? Dove xéla andada? Chi sa che no l’abbia finto de far per mi e no l’abbia fatto per qualchedun altro? Qua no l’è vegnua. No se sa gnente de éla. La me poi aver tradio. No la sarave maraveggia, che la me l’avesse ficcada. La xe donna, e tanto basta.
Brighella. Comandela gnente?
Tonino. No, amigo. Vago via.
Brighella. Cussì presto?
Tonino. Cossa voleu che fazza?
Brighella. No la sta a disnar col sior Dottor?
Tonino. No no, ve ringrazio. Diseghe al sior Dottor che el xe un bel fio.
Brighella. Come parlela?
Tonino. So che intende più de quel che digo.
Brighella. Me maraveggio. No so gnente. El m’ha dà ordine de servirla in tutto e per tutto. Se vorla despoggiar?
Tonino. No, vecchioq, no vôi altro. Ma perchè no crediè che ve voggia privar dei vostri incerti, tiolè sto mezzo ducato.
Brighella. Obbligatissimo alle so grazie. Ah, veramente la casa Bisognosi xe sempre stada generosa. Anca el so sior fradello a Venezia el giera cussì liberal.
Tonino. (E tocca via co sto mio fradello a Venezia). (da sé) Ma quando l’aveu cognossù mio fradello a Venezia?
Brighella. Sarà una cossa de do anni incirca.
Tonino. Do anni? Come do anni?
Brighella. Sior sì; perchè mi giera a Venezia...
SCENA XII.
Pancrazio e detti.
Pancrazio. Brighella, va dalla padrona, che ha bisogno di te.
Brighella. Vago subito.
Tonino. Caro vecchio, fenì de dir de Venezia. (a Brighella)
Pancrazio. Perdoni, deve partire. Va tosto, spicciati.
Brighella. Se vederemo. Lustrissimo sior Zanetto! (parte)
Tonino. (Sia maledetto sto intoppo. Son in t’una estrema curiosità). (da sé)
Pancrazio. Riverisco il signor Zanetto.
Tonino. Patron mio stimatissimo.
Pancrazio. Ah! io ho compassione di voi: ma mi pare alla cera che vossignoria poco si curi de’ miei consigli.
Tonino. Anzi mi son uno che ascolta volentiera i omeni de garbo, come credo che la sia ela.
Pancrazio. Poi fate a vostro modo, non è così?
Tonino. Come porla dir sta cossa?
Pancrazio. Mi pare, mi pare, e forse non sarà. Vi vedo in questa casa, e ne dubito.
Tonino. (Vardemo, se podemo scoverzerr qualcossa). (da sé) In sta casa zente cattiva, nevvero?
Pancrazio. Ah, pur troppo!
Tonino. Zente che tira alla vita?
Pancrazio. E in che modo!
Tonino. Quel Dottor particolarmente xe un omo indegnissimo.
Pancrazio. L’avete conosciuto alla prima.
Tonino. La putta mo, la putta come xela?
Pancrazio. Non le credete, vedete, non le credete. E tutta inganni.
Tonino. Con quella ciera patetica?
Pancrazio. Eh, amico, appunto queste che compariscono modestine e colli torti, queste la sanno più lunga dell’altre.
Tonino. Saveu che no disè mal?
Pancrazio. Anzi dico bene.
Tonino. Ma vu, sior, cossa feu in casa de sta zente cussì cattiva?
Pancrazio. Io m’affatico per illuminarli e far loro cambiar costume; ma sinora inutilmente seminai nella rena. Non si fa nulla, non si fa nulla.
Tonino. Col mal xe in tel legno, la xe fenia.
Pancrazio. Sempre si va di male in peggio.
Tonino. E pur quella zovene no me dispiase.
Pancrazio. Ha un’arte che farebbe innamorare i sassi; ma povero chi s’attacca!
Tonino. La me voleva far zoso col matrimonio...
Pancrazio. Oibò. Matrimonio? Che orribile parolaccia!
Tonino. Matrimonio, orribile parolazza? Anzi l’è la più bella parola che ghe sia in tutto el calepin delle sette lengue.
Pancrazio. Ma non vi ricordate che il matrimonio è un peso, che fa sudar i giorni e vegliar le notti? Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa, peso alla testa?
Tonino. Tutti sti pesi del matrimonio li sente l’omo che no gh’ha giudizio. Peso al spirito? No xe vero. L’amor della mugier, come che no l’è combattuo nè dal desiderio, nè dal rimorso, l’è un amor soave, dolce e durabile, che consola el cuor, rallegra i spiriti, e anzi tien l’animo solleva e contento del mario, che comunica colla mugier i piaseri e i dispiaseri della fortuna. Peso al corpo? No xe vero. Anzi la mugier libera da molte fadighe el mario. Ella tende alla piccola economia de casa, ella regola la fameggia e comanda alla servitù. Provede a quello che no prevede el mario, e con quella natural suttilezza feminina, che qualcun chiama avarizia, in cao dell’anno la porta dei profitti alla casa. Peso alla borsa? No xe vero. L’omo che xe inclinà a spender, el spenderà sempre più fora de casa che in casa. Se el spende per la mugier, finalmente el lo fa con avantaggio del proprio onor, per lustro della so casa. Se la mugier xe discreta, con poco la se contenta. Se la xe viziosa e incontentabile, tocca al mario a moderarla, e se l’omo va in rovina per la mugier, no bisogna incolpar l’ambizion della donna, ma la dabbenaggine del mario. Peso alla testa? No xe vero. La donna o la xe onesta, o la xe disonesta. Se la xe onesta, no gh’è pericolo del cimier; se la xe disonesta, ghe xe un certo medicamento che se chiama baston, che gh’ha la virtù de far far giudizio anca alle donne matte. In somma el matrimonio xe bon per i boni e cattivo per i cattivi, e concludo coi versi d’un poeta venezian:
El matrimonio è cossa da prudente,
Ma bisogna saverse regolar;
E quel che desconsegia el mandar,
O l’è vecchio, o l’è matto, o l’è impotente.
Pancrazio. (Costui non mi pare lo sciocco di prima). (da sé) Non vi rammentate che la donna è un’incantatrice sirena, che alletta per ingannare ed ama per interesse?
Tonino. Vedeu? Anca qua, compatime, sbarè delle panchianes. Le donne no le se mesura tutte con un brazzolart. Ghe ne xe tante de cattive, ma ghe ne xe molto più de bone, come se pol dir anca dei omeni. Le donne incanta? No xe vero gnente. Aveu mai visto la cazza che fa el rospo al russignol? Lu no fa altro che metterse in t’un fosso co la bocca averta. Passa el rossignol, el s’innamora della gola del rospo, el zira, el rezira, e da so posta el se va a far imbocconar. La colpa de chi xela? Del rospo o del rossignol? Cussì femo nu. Vederne una donna, ghe demo drio; se lassemo incantar. De chi xela la colpa? Nostra; le donne no le poderave gnente sora de nu, se nu no ziressimo attorno de elle; e se le acquista co nu tanta superiorità, xe causa la nostra debolezza, che incensandole troppo, le fa diventar superbe.
Pancrazio. (Ho inteso! costui non fa per me). (da sè) Signor Zanetto, non so che dire; se volete la signora Rosaura, pigliatela, ma pensateci bene.
Tonino. Mi non ho dito de volerla. Ho parlà in favor del matrimonio, ma non ho dito de volerme maridar. Ho parlà in favor delle donne, ma non ho dito ben de Rosaura. No so se la sia carne o pesce. Me par e no me par: gh’ho i mi reverenti dubbi: vu m’ave messo in mazor sospetto, onde ressolvo de no voler far gnente.
Pancrazio. Farete benissimo, lodo la vostra risoluzione. Siete un uomo di garbo.
Tonino. Ma za che sè un omo tanto da ben, ve veggio confidar una cossa.
Pancrazio. Dite pure con libertà. Io so custodir il segreto.
Tonino. Vedeu sto bauletto de zogie?
Pancrazio. Son gioje quelle?
Tonino. Sior sì.
Pancrazio. Vediamole. Belle, belle assai. (le osserva)
Tonino. Ste zogie le me xe stae dae per forza da un povero matto, con un abito tutto tacconi. Mi no so de chi le sia; e el patron che le ha perse, anderà de smaniau cercandole. Mi doman vago via, onde penso de consegnarle a vu, acciò, vegnindo fora el patron, ghe le podiè restituir.
Pancrazio. Lodo la vostra delicatezza. Siete veramente un uomo onorato.
Tonino. Tutti i galantomeni i ha da esser cussì.
Pancrazio. E se dopo un lungo tempo, e dopo fatte le debite diligenze, non si trovasse il padrone, come volete che ne disponga?
Tonino. Impieghele a maridar delle putte.
Pancrazio. Voi altri Veneziani siete poi di buon cuore.
Tonino. Nualtri cortesani semo fatti apposta per far delle opere de pietà. Quante povere vergognose vive colle limosine dei galantomini! Xe vero che qualchedun fa, co se sol dir, la carità pelosa: ma ghe ne xe anca de quei che opera per bon cuor. Mi son de sta taggia: per i amici me despogierave, e per le donne me caveria anca la camisa. (parte)
Pancrazio. Questa volta, se la carità deve esser pelosa, servirà questo pelo per medicar le mie piaghe. Se Rosaura le vorrà, dovrà comprarle con quella moneta che a lei costa poco, e per me valerebbe molto. (parte)
SCENA XIII.
Strada solita con osteria.
Arlecchino dall’osteria, poi Zanetto dalla medesima.
Arlecchino. Me maraveio, son galantomo: le zogie e i bezzi ve li no dadi mi. (alla porta, altercando con Zanella)
Zanetto. No xe vero gnente. Ti xe un furbazzo, no gh’ho abuo gnente. (di dentro)
Arlecchino. Ve ne mentì per la gola e per el gargato52.
Zanetto. Ti è un ladro, ti è un sassin. Voggio le mie zogie. (vien fuori)
Arlecchino. Le zogie ve digo che l’avi avude.
Zanetto. Can, traditor, le mie zogie, i mi bezzi, la mia roba.
Arlecchino. Sè un pezzo de matto.
Zanetto. Ti m’ha robà, ti m’ha sassinà.
Arlecchino. Adessadesso ve trago una sassada.
SCENA XIV.
Bargello coi birri, e detti.
Bargello. Coss’è questo strepito? Chi è il ladro? Chi ha rubato?
Zanetto. Colù che xe là, l’è el mio servitor. El m’ha portà da Bergamo un bauletto de zogie e dei bezzi, e el m’ha roba tutto, el m’ha sassinà.
Arlecchino. Non è vero gnente, son galantomo.
Bargello. Legatelo e conducetelo in prigione. (ai birri, quali legano Arlecchino)
Arlecchino. Son innocente.
Bargello. Se sarete innocente, uscirete di carcere senza difficoltà.
Arlecchino. E intanto ho da andar preson?
Bargello. E intanto andate, e non vi fate strapazzare.
Arlecchino. Sia maledetto! Per causa toa, mamalucco, ignorante! ma se vegno fora, ti me la pagherà. (parte coi birri, che lo conducono via)
Bargello. Signore, se lei crede che colui sia veramente il ladro, ricorra, e gli sarà fatta giustizia. Io intanto darò la mia denunzia, appoggiata alle di lei querele. Se lei ha prove, vada in Cancelleria e le produca. (parte)
SCENA XV.
Zanetto, poi Beatrice.
Zanetto. Mi no so gnente cossa che el diga, mi no l’intendo, ma gh’ho speranza de recuperar le mie zogie. Le zogie che m’ha lassa mio sior barba, che el m’ha conta tante volte che el le ha portae da Venezia, co l’è andà a star alle Vallade de Bergamo.
Beatrice. Mio caro, abbiate pietà di me.
Zanetto. (Occhi de fogo, bocca de velen). (da sè)
Beatrice. Per carità, non partite. Ascoltatemi un sol momento; vi domando quest’unico dono: eccomi ai vostri piedi; vi muovano a compassione le mie lacrime. (s’inginocchia)
Zanetto. (Accosta una mano agli occhi di Beatrice) (I occhi mi no sento che i scotta. Fogo no ghe ne xe certo). (da sè)
Beatrice. Se m’udirete, rimarrete contento.
Zanetto. (Quella bocchina l’è tanto bella, che me lasseria velenar). (da sè)
Beatrice. Per vostra cagione ho posto a risico la vita e l’onore.
Zanetto. Per mi?
Beatrice. Sì, per voi, che amo più dell’anima mia; per voi, che siete l’unico oggetto de’ miei pensieri.
Zanetto. La me vol ben?
Beatrice. Sì, v’amo, v’adoro, siete l’anima mia.
Zanetto. (Sei fusse un diavolo?... Ma l’è un diavolo tanto bello!) (da sè)
Beatrice. Orsù, l’amor mio non soffre maggior indugio, venite e datemi la mano di sposo.
Zanetto. (Oh questa me piase, senza tante cerimonie e tante solennità). (da sè)
Beatrice. Via, non mi fate penare.
Zanetto. Siora sì, son qua. Cossa vorla che fazza?
Beatrice. Datemi la mano.
Zanetto. Anca tutte do, se la vol. (gli tocca la mano) Oh cara! oh che man, oh che bombasov)! oh che seaw!
SCENA XVI.
Florindo in disparte, e detti.
Florindo. (Che vedo! Tonino ha ritrovata Beatrice! Oh sventurato ch’io sono! Convien ritrovar partito per rimediarvi). (da sé)
Beatrice. Almeno vi fosse alcuno, che servir potesse di testimonio.
Zanetto. Quel sior saravelo bon?
Beatrice. Oh sì, signor Florindo, finalmente mi è riuscito pacificare il mio sposo; egli mi vuol dare la mano, e voi siete pregato a servire per testimonio.
Zanetto. Sior sì, per testimonio.
Florindo. Questo veramente è un uffìzio che ho sempre fatto mal volentieri, ma quando si tratta degli amici, si fa di tutto. Prima però, favoritemi una parola in grazia. (a Zanetto)
Zanetto. Volentiera. Non la vaga via, che vegno subito, sala. (a Beatrice)
Florindo. Ditemi, amico, non siete voi stato in quella casa? (mostra la casa del Dottore, parlando in disparte con Zanetto)
Zanetto. Sior sì.
Florindo. Per che fare, se è lecito saperlo?
Zanetto. Per sposar la fia del sior Dottor.
Florindo. Ed ora volete sposar la signora Beatrice?
Zanetto. Sior sì.
Florindo. Ma se avete impegno colla signora Rosaura.
Zanetto. Eh, le sposerò tutte do, n’importa. Son da ela. (a Beatrice)
Florindo. No no, sentite. Ma voi burlate.
Zanetto. Digo dasseno mi. Son capace de sposarghene anca siex.
Florindo. Ma che! Siamo in terra di Turchi? Mi maraviglio di voi. Sapete meglio di me, che non ne potete sposar che una sola.
Zanetto. Donca sposerò questa. Adesso vegno. (a Beatrice)
Florindo. Ma nè tampoco potete farlo.
Zanetto. Mo perchè.
Florindo. Perchè avete promesso alla figlia di quel Dottore, siete stato in sua casa; se mancate alla parola, vi faremno metter prigione e ve la faranno costar assai cara.
Zanetto. (Bona!) (da sè) No vegno altro. (a Beatrice)
Beatrice. Che dite?
Zanetto. No no, no ghe dago altro la man.
Beatrice. Ma io non v’intendo.
Zanetto. Intendo o non intendo. Chi s’ha visto, s’ha visto.
Beatrice. Come! Così mi schernite?
Zanetto. La compatissa. In preson no ghe so mai sta, no ghe voggio gnanca andar.
Beatrice. Perchè in prigione?
Zanetto. Doy no se ghe ne poi sposar. Quella xe fia d’un Dottor. Gh’ho promesso. Se va in preson; sioria vostraz. (parte)
SCENA XVII.
Beatrice e Florindo.
Beatrice. Oh me infelice! Il mio Tonino è impazzato. Parla in una guisa che più non lo riconosco.
Florindo. Signora Bearrice, io vi spiegherò ogni cosa. Sappiate ch’egli vive amante della signora Rosaura, figlia del signor dottore Balanzoni, e ad essa ha data la parola di matrimonio. Perciò, agitato fra l’amore e il rimorso, si confonde, vacilla e quasi quasi stolto diviene.
Beatrice. Oh stelle! E sarà vero quel che mi dite?
Florindo. Pur troppo è vero, e se non siete cieca, voi stessa accorger ve ne potete dal modo suo di parlare.
Beatrice. Lo dissi che più non si riconosce.
Florindo. Ora che pensate di fare?
Beatrice. Se Tonino mi abbandona, voglio morire.
SCENA XVIII.
Lelio e detti.
Florindo. Se Tonino v’abbandona, ecco Florindo pronto a’ vostri voleri.
Lelio. Se Tonino v’abbandona, ecco un eroe vendicatore de’ vostri torti.
Florindo. In me troverete un amante fedele.
Lelio. Io colmerò il vostro seno delle maggiori felicità.
Florindo. La mia nascita è nobile.
Lelio. Io chiudo nelle vene un sangue illustre.
Florindo. Di beni di fortuna non sono scarso.
Lelio. Ne’ miei erari vi sono le miniere dell’oro.
Florindo. Spero non essere odioso agli occhi vostri.
Lelio. Mirate in me il più bel lavoro della natura.
Florindo. Ah, signora Beatrice, non badate alle caricature di un affettato glorioso.
Lelio. Non vi lasciate sedurre da un cicisbeo, che combatte fra l’amore e la fame.
Florindo. Sarò vostro, se mi volete.
Lelio. Sarete mia, se v’aggrada.
SCENA XIX.
Tonino e detti.
Tonino. (Come! Beatrice... qua... in mezzo de do...) (in disparte, osservando)
Florindo. Parlate, mia cara.
Tonino. (Mia cara!) (come sopra)
Lelio. Sciogliete il labbro, mia bella.
Tonino. (Mia bella! Come xelo sto negozio?) (come sopra)
Florindo. Se Tonino vi lascia, è un traditore.
Lelio. Se Tonino vi abbandona, è un ingrato.
Tonino. (S’alza e si fa vedere) Tonin no xe traditor, Tonin no xe ingrato, Tonin no abbandona Beatrice. Me maraveggio de vu, sior muso da do musi, sior amigo finto, sior canapiolo monzuoaa. (a Florindo)
Florindo. Ma la signora Rosaura...
Tonino. Che siora Rosaura? Tasè là, sior omo de stucco, e za che ave palesà el mio nome, e che me conte i passi per pubblicar tutti i fatti mii, da qua avanti no ardì gnanca de nominarme, no me vegnì in ti pìab, se no volè che ve fazza della panza un crielo53.
Lelio. Io per altro...
Tonino. E vu peraltro, sior cargadura, abbiè giudizio, se no, saveu? se una volta v’ho disarmà, un’altra volta ve caverò el cuor. Questa la xe roba mia, e tanto basta. (prende per mano Beatrice)
Beatrice. Dunque mi dichiarate per vostra.
Tonino. Zitto là; che co vu la descorreremo a quattr’occhi. Vegnì co mi. Scartozzi de pevere mal ligaiac, paronzini salvadeghiad, cortesani d’albeoae. (parte con Beatrice)
SCENA XX.
Florindo e Lelio.
Florindo. Non son Florindo, se non mi vendico.
Lelio. Non son chi sono, se non fo strage di quel temerario.
Florindo. Amico, siamo entrambi scherniti.
Lelio. Uniamoci nella vendetta.
Florindo. Andiamo a meditarla.
Lelio. La vivacità del mio spirito partorirà qualche magnanima idea.
Florindo. Andiamo ad attaccarlo colla spada alla mano.
Lelio. No, scarichiamogli una pistola nel dorso.
Florindo. Questo saria tradimento.
«Il vincer sempre fu lodevol cosa. (parte)
Florindo. Bell’eroismo del signor Lelio! Orsù, meglio è ch’io tenti solo le mie vendette. O sarà mia Beatrice, o passerà Tonino per la punta di questa spada. (parte)
Fine dell’Atto secondo.
- Note dell'autore
- ↑ Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.
- ↑ Monee, monete.
- ↑ Massera, serva di cucina.
- ↑ De bala, termine furbesco, d’accordo.
- ↑ Cortesan, accorto.
- ↑ Ha lumà, ha veduto: termine furbesco in gergo.
- ↑ Bon stomego, buono stomaco, cioè di poco onore.
- ↑ In tel comio, nel gomito, cioè all’incontrario.
- ↑ Gastu, hai tu.
- ↑ Barba, zio.
- ↑ Putelo, ragazzo.
- ↑ Babio, viso, frase burlesca.
- ↑ Veggio darghe una tastadina, una toccatina, cioè darle la prova.
- ↑ Traffega, traffica.
- ↑ I pì, i piedi.
- ↑ Capochieria, corbelleria.
- ↑ Vecchio, termine amoroso de’ Veneziani.
- ↑ Scoverzer, scoprir.
- ↑ Sbarè delle panchiane, dite delle bugie.
- ↑ Brazzolar, misura di braccio.
- ↑ De smania, smanioso.
- ↑ Bombaso, bambagia, cotone.
- ↑ Sea, seta. Termini allusivi alla morbidezza delle mani.
- ↑ Sie, sei.
- ↑ Do, due.
- ↑ Sioria vostra, saluto burlevole.
- ↑ Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.
- ↑ Pì, piedi.
- ↑ Scartozzi de pevere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti: termine di disprezzo.
- ↑ Paronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cioè supposti.
- ↑ Cortesani d’albeo: suona quasi lo stesso. Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.
- Note dell'editore
- ↑ Bettinelli ha invece: e un mantello.
- ↑ Bettin.: poss’.
- ↑ Bettin.: Turato.
- ↑ Bettin.: disème.
- ↑ Garetoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.
- ↑ Così Savioli e Zatta; Bettin. e Paperini e altri: conosserè.
- ↑ Bettin. e Paperini: conossive.
- ↑ Bettin. e Paperini: conosserì.
- ↑ Zatta: Seu matto.
- ↑ Bettin.: mantello.
- ↑ Bettin.: ella.
- ↑ Bettin.: le.
- ↑ Nell’ed. bettinelliana Tonino aggiunge: Cossa diseu? No sele belle ste zogie?
- ↑ Bettin.: da sè, serra.
- ↑ Bettin.: ella.
- ↑ Savioli e Zatta: Per mi.
- ↑ Bettin. ha punto interrogativo.
- ↑ Cavarme zoso, levarmi la giubba.
- ↑ Bettin.: Cavarme zoso, despogiarme?
- ↑ Sav. e Zatta: so.
- ↑ Sav. e Zatta: no.
- ↑ Zatta: domandarghe.
- ↑ Bettin.: Disim pò.
- ↑ Così Savioli e Zatta; Bettin., Paper., ecc. hanno qui e dopo: signora.
- ↑ Bettin.: Ma sì.
- ↑ Savioli e Zatta: mi.
- ↑ Bettin.: capace.
- ↑ Oe.! ehi!
- ↑ Savioli e Zatta: ostaria.
- ↑ Le due Torri, antico e noto albergo di Verona.
- ↑ Bettin.: bu; Savioli e Zatta: buo.
- ↑ Bettin.: Mo.
- ↑ Bettin.: pazienza; Paper.: pazienzia.
- ↑ Bettin.: anche egli.
- ↑ Sav. e Zatta: gh’è nissun?
- ↑ Far grazia, farsi «molto pregare e desiderare»: detto «familiare ed ironico». V. Boerio.
- ↑ Bettin.: antigo.
- ↑ Sav. e Zatta: sior.
- ↑ Savioli e Zatta: cognossuo.
- ↑ Zatta: farlo.
- ↑ Le edd. Sav. e Zatta sopprimono il periodo: El pare ecc. zoso.
- ↑ Questo dialogo così è ridotto nelle edd. Sav. e Zatta: «Ton. (Poverella! la me fa peccà). (da sè) Ma la prego, in grazia, no so se la me intenda. Ros. Ricordatevi dello schiaffo» ecc.
- ↑ «No farse star, non portar basto ecc., non voler sopportare sopruso o ingiuria»: Boerio cit.
- ↑ Bettin.: Gnente; la me compatissa.
- ↑ Zatta: ghe xe.
- ↑ Così Savioli e Zatta; Bettin., Paper, ecc.: e el.
- ↑ Polegana, arte fina, disinvoltura
- ↑ Bettin.: vertù.
- ↑ Sav. e Zatta: siete.
- ↑ Custia, costei.
- ↑ Me bisega in tel cuor, mi va a genio.
- ↑ Gargato, gozzo.
- ↑ Crielo, crivello.