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156 | ATTO TERZO |
cattiva. Le zogie no le gh’ho più. Intendo che le xe dal sior giudice: recuperèle e feghene quel che volè. Sti bezzi no i xe mii, no li voggio. Qua me li ave dai, qua ve li restituisso. Un omo civil stima più la reputazion de tutti i bezzi del mondo. I bezzi i va e i vien. L’onor, perso una volta, nol se acquista mai più. Tiolè la vostra borsa: ve la butto in terra, per mostrarve con quanto disprezzo tratto l’oro e l’arzento che no xe mio; anzi vorave che in quella borsa ghe fusse tutto l’oro del mondo, per farve veder che no lo stimo, che no lo curo, e che più de tutti i tesori stimo l’onor de casa Bisognosi, la fama dei cortesani, la reputazion della patria, per la qual saverave morir, come Curzio e Caton xe morti per la so Roma. (parte)
SCENA X.
Pancrazio, Brighella ed Arlecchino.
Arlecchino. L’è matto. (cantando)
Brighella. Per dir che l’è matto solenne, basta dir che el butta via la so roba. Voi seguitarlo per curiosità. (parte)
Pancrazio. Questa borsa la raccoglierò io e la custodirò fino a tanto che Zanetto con qualche lucido intervallo ne disponga a dovere. Amico, venite meco dal giudice, e procuriamo di ricuperare le gioje.
Arlecchino. Savi cossa che v’ho da dir? Che voggio tornar alle vallade de Bergamo.
Pancrazio. Perchè?
Arlecchino. Perchè l’aria della città fa deventar matti. (parte)
Pancrazio. Per tutto il mondo spira un’aria consimile. La pazzia si è resa universale: chi è pazzo per vanità, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Io lo sono per amore, e dubito che la mia sia una pazzia molto maggiore d’ogn altra. (parte)