I cavallieri
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I CAVALLIERI
D’ARISTOFANE
COMEDIA IIII.
Le persone de la favola.
Demostene, | Nicia, |
Agoracrito, che si chiama Allantopole, cio è che vende trippe.
Popolo, |
Coro de cavallieri, |
Cleone. |
demostene prima parla.
De. O infelice come stai?
Ni. Male, come tu.
Ni. Qual salute dunque sarala? dillo tu.
De. Tu pur adunque dillomi, che non facia quistione.
Ni. Non per Apolline io, nò, hor dillo animosamente. poi anchora io te lo dirò.
De. A che modo tu mi dirai quello, che à me bisogna dire?
Ni. Ma io non hò l’ardire. à che modo adunque potrò io dire questo malitiosamente?
De. Non mi, non mi. non haver paura, ne timidità, e non volere essere negligente, ma truova qualche partenza da’l patrone.
Ni. Hor dì, andiamo, continuamente così di compagnia considerando.
De. Et hora dico, andiamo.
Ni. Di dietro hora, dì questo, andiamo.
De. Questo.
Ni. Molto bene quasi scorticando. hora chetamente in prima dì, andiamo, poi questo tirando spesso.
De. Andiamo questo. andiamo, questo andiamo.
Ni. Non haverebe de’l dolce.
De. Per Giove hò paura di questo augurio, oltra che da la pelle.
Ni. Che poi?
De. Perche la pelle si parte da quelli che scorticano.
De. Che sorte d’imagine? pensitu che vi siano i dei? di’l vero.
Ni. Io sì.
De. Che segno adoperi?
Ni. Perche à i dei sono inimico non giustamente.
De. Mi dai buona nuova.
Ni. Ma altre cose in alcun luogo bisogna considerare.
De. Vuoi tu che dica à gli spettatori la cosa?
Ni. Non è male. ma una sol cosa gli addomandaremo, che à noi persone faciano sapere, se de le parole s’alegrino e d’i fatti.
Ni. Benissimo, andiamo per quelle via ò fratello.
De. Ma non e possibile che Paflagone non lo sapia, per ch’egli vede ogni cosa. egli gia hà una de le gambe in su la porta, e l’altra in piazza. esso poi passando un tanto grado, il suo culo è quel medesimo che è la roba in Caone. le mani in Etolia, e la mente in Clopi.
Ni. Meglio sarà adunque che noi moriamo. ma guarda che moriamo virilissimamente.
Ni. Bonissima cosa à noi sarà bevere de’l sangue di toro, per ciò che quella morte di Temistocle è piu eligibile.
De. Non per Giove, ma il puro vino de la buona sorte: per che forsi consultaremo qualche cosa di bene.
Ni. Ecco’l puro, à te tocca dunque bevere. ma à che modo un’huomo embriacandosi potrà consultar cosa buona?
De. Veramente tu sei pazzo. tu hai ardimento circa à la consideratione vituperare il vino? che per lo vino troverai cosa che piu s’adopera. veditu? quando bevono gli huomini, à l’ora irricchiscono, vanno dietro a’l suo mestiere, vincono le liti, sono felici, giovano à gli amici, ma porta fuora tosto un bocal di vino, à ciò che mi bagni la mente, e che dica qualche dotta cosa.
Ni. Oime che ne farai tu mai co’l tuo bevere?
De. Bene. hor porta quà, e io sederò. e se m’inebriarò, tutte queste cose empirò di consiglietti, e sententiette, e cogitationcule.
Ni. Con assai buona sorte che non sono stato preso di dentro, quando robava il vino.
De. Dimi, che fà il Paflagone?
Ni. Egli ingrato quando hà leccato le cose salate de’l commune, se ne runchegia embriaco, se le pelli stravaccato con la bocca aperta.
Ni. Piglia un poco il gusto et gustalo con la buona ventura. tira tira giu quello de la sorte di Pramnia.
De. O buon compagno, così è la tua dispositione, non la mia.
Ni. Dì, ti prego che cosa gliè.
De. Roba le indivinationi de’l Paflagone velocemente e portale fuora de là, mentre che egli dorme.
Ni. Ma queste cose sono de la sorte? i temo che non diventi de la infelice sorte.
De. Hor via, io à me istesso condurò un vase, per spruzarmi l’animo, e per dire qualche cosa ch’habia de’l buono.
Ni. Quanto forte pettegia e runchegia il Paflagone. però non sa che gli hò tolto il sacro vaticinio, de’l quale molto haveva custodia.
De. O valente huomo, portalo che io ’l lega. tu poi metti da bevere, facendo qualche cosa. porta ch’io vega che cosa vi è dentro. ò oracoli. dami tu la tazza tosto.
Ni. Ecco, che dice l’oracolo?
De. Mettine un’altra.
Ni. Ne gli oracoli è, mettine un’altra?
De. O Bacide.
Ni. Che cosa è?
De. Dami presto la tazza.
Ni. Bacide spesso adoperava la tazza.
Ni. Che?
De. Egli è qui esso, che muore.
Ni. Et à che modo?
De. A che modo? l’oracolo chiaramente dice, che per la prima volta colui diventa venditore di stoppe, che primo haverà gli impazzi de la cità.
Ni. Un tale venditore, che fa quì? dillo.
De. Dietro à questo anchora gli è un’altro che vende pecore.
Ni. Questi doi venditori, e che bisogna che costui patisca?
De. Signoregiare fino à tanto che un’altr’huomo piu odioso divenga che quello, e dopo questo che muora. perche poi il Paflagone diventa venditore di pelli, rapace, gridatore, che ha voce di mangiatavole.
Ni. Conveniente era che ’l venditor di pecore fosse rovinato da quello che vende le pelli.
De. Sì per Giove.
Ni. Oime tristo, d’onde venirà adunque piu un venditor solo?
De. Egliene anchora uno che ha una eccellente arte.
Ni. Dì de gratia ch’è egli?
De. Debo dirlo?
Ni. Sì per Giove.
De. Quello è Allantopole ch’è per distrugere costui.
De. Cerchiamolo.
Ni. Ma costui viene, come che dio voglia, in piazza.
De. O felice Allantopole vien quà, vien quà caro fratello, vien su, che sei paruto à la cità, anchor de noi conservatore.
Al. Che cosa gli è? perche mi chiamate?
De. Vien quà, che saperai, quanto hai buona sorte, e che molto sei felice.
Ni. Vien mò, metti giu il suo scagno, e rinsegnaci come stà esso oracolo de’l dio, e io me ne vado à far la guardia a’l Paflagone.
De. Horsu tu pon giu prima i vasi in terra, poi bascia la terra, e prega i dei.
Al. Ecco, che gli è?
De. O beato tu, ò ricco, ò tu che hoggi sei da niente, domane sarai molto grande, ò duce de gli Ateniesi fortunati.
Al. Che non mi lasci tu ò compagno, lavare i ventricelli, e vendere le trippe? hor tu mi dai ciancie?
De. O pazzo, che ventricelli? hor guarda, veditu le squadre di questi popoli?
Al. Vego.
De. Di tutti questi tu sarai signore, e de’l foro, e d’i porti, e de la concione, il concilio calcherai, e i capitani romperai, li tenerai legati, li farai stare in prigione, ne’l Pritaneo potrai cortigianare.
Al. Io?
Al. Risguardo.
De. Perche tu hai poi mercantie e navi.
Al. Io sì.
De. A che modo adunque non sei tu molto aventurato? anchora adesso dirizza l’occhio destro in Caria, e l’altro in Cartagine.
Al. Sarò beato, se mi divolgerò.
De. Nò, ma per te sia venduto ogni cosa. per ciò che divenirai, sì come dice questo oracolo, huomo grande.
Al. Dimi, à che modo assendo io Allantapole, diverrò uomo d’assai?
De. Et proprio per questo diventerai grande, perche tu sei un mal’huomo, e di quelli de’l foro, e audace.
Al. Non mi stimo io degno haver molto.
De. Oime che ditu mai, che non sei degno. mi pare che tu intendi qualche cosa per te istesso buona. sei tu de gli honesti e buoni?
Al. Per i dei sono d’i mali.
De. O beato ne la sorte, di che sorte di bene haitu havuto circa à le facende.
Al. Ma fratello ne anche sò musica, eccetto che un poco di lettere, e queste anchor mal male.
Al. A che modo adunque dice l’oracolo?
De. Ben per i dei, e variamente, e prudentemente con oscurità parlando, ma quando Birseeto che ha torto il muso, havrà tolto con le masselle il dracon pazzo, bevitore di sangue: à l’hora sarà morta l’amaritudine de Paflagoni. e à i venditor di ventriculi dio dà gran gloria, se non volessimo piu presto vendere trippe.
Al. A che modo adunque queste cose sono per me, insegnami un’altra volta.
De. Birseeto è questo di Paflagonia.
Al. Perche ha torto il muso?
De. Come dice questo, che con le mani storte, e corve rapisce e porta.
Al. Il dracone poi à che fine?
De. Questo è chiarissimo, che’l dracone è cosa lunga, e la trippa lunga anchora: e la trippa, e il dracone sono bevitori di sangue. però dice che ’l dracone vince Birseeto, se non sarà accarezzato con parole.
Al. Questi oracoli m’imbelliscono pure, ma mi maraviglio poi à che modo io sia sofficiente à governare il popolo.
Al. Et che mi sarà coadiutore? e questi ricchi hanno timore d’esso, e quel povero ha in odio i popoli.
De. Ma ce sono cavallieri huomini da bene piu di mille, che hanno esso in odio, che t’aiuteranno, e de cittadini da bene, et discreti, et de spettatori chiunque è prudente: e io con quelli. e il dio ne abbracciera. e non haver paura, che s’è gia assomigliato. onde per la paura, ò timore niuno l’hà voluto à vasi fatti assomigliare. pur ogni modo sarà conosciuto, perche questo teatro è sagio, e prudente.
Ni. Oime infelice, il Paflagone vien fuora.
Cle. Non per i dodeci dei v’alegrarete, ch’è assai c’havete fatta la congiuratione contra il popolo. che cosa fà la tazza Calcidica? non è che non vi fate ribelli a quelli de Calci, andarete in rovina, morirete ò sceleratissimi.
Co. Batti, batti lo sciagurato, e che disturba l’essercito de cavalli, e banchiero, e valle, e caribdi di rapina, e scelerato, e scelerato, il dirò pur spesso. e pur costui era di mala sorte spesso di di. ma battilo, e perseguitalo, e disturbalo, e mescola, e habilo in fastidio, e giacendo chiamane anchor noi. guarda poi che’l non ti fuga, perche sà le vie, che Eucrate ha fugito di lungo de le paglie.
Cle. O vecchi de’l sol parenti da buon mercato, ch’io nutrisco chiamando, e nel giusto, e ne l’ingiusto aiutatemi, che son battuto da huomini congiurati.
Co. Nella giustitia sì, che divori il sortire piu presto cose publice, et dai la colpa à i rei calcandoli, ponendo à mente qual de loro è crudele, ò pazzo, ò non pazzo. e se conosci alcuno, e con alcuno d’essi che stia indarno, e con la bocca aperta, menandolo dal Cheroneso, incolpandolo, ineseandolo, poi volgendoli la spalla quello divori. e quardi bene quale è poltrone d’i citadini, ricco, et non povero, e che ha tremore da le cose.
Co. Et quanto soperbo, e quanto delicato, vedi à che cose egli và, come vecchi noi ha ingannato con loquacità. ma se così vince, così sarà percosso. se costui poi s’inchina quà, à la gamba combatterà.
Cle. O cità, et ò popolo da quali bestie son’io lacerato ne’l ventre?
Co. Et tu hai gridato, che sempre la cità sottometti.
M. Ma io con questa voce primamente ti volgerò.
Co. Ma anchor che tu vinci con la voce, tu sei un canto, ma se passerai senza vergogna, questa ischicciata è nostra.
Cle. Quest’huomo io mostro, e dico che mena fuora legne con le navi de Peloponnesi.
Al. Sì per Giove, et io questo, che se ne corre con la panza vuota ne’l Pritaneo, po riesce con quella piena.
De. Per Giove egli mena fuori cose nascoste, et pane, et carne, et pesce, de’l qual Pericle non fu stimato degno.
Cle. Subito morirete fortemente
Al. Tre volte ti chiamarò forte.
Cle. Io gridarò chiamandoti.
Al. Io ti chiamarò gridando.
Cle. T’accusarò se sarai capitano.
Cle. Ti cavarò la superbia.
Al. Ti cavarò i denti.
Cle. Risguardami, et non abbassare gli occhi.
Al. Ne’l foro anchora io sono allevato.
Cle. Ti stracciarò, se tu parli niente.
Al. Ti smerdarò, se parlarai.
Cle. Confesso di robare: et tu nò?
Al. Per Mercurio de’l foro, e lo giuro che lo vedete.
Cle. Tu insegni adunque cose aliene, et ti mostrerò à i Pritanesi, che non hai diece ventri sacrati à dei.
Co. O sciagurato, et gridatore, de la tua audacia tutta la terra è piena, et ogni congregatione, et tributi, et scritture, et tribunali, ò sporco, et fangoso, et che conturbi tutta la nostra cità, che hai insordita la nostra Atena gridando, et che da le pietre di sopra guardi i tributi.
Cle. Sò io questa novella, d’onde lungamente è posta insieme.
Al. Ma se tu non sai la compositura, ne anche io le incordationi. che sotto tagliando vendevi la pelle d’un bò cattivo à i villani astutamente, per farlo parere grasso. e à portarlo avanti dì, era magiore di doi palmi.
De. Et per Giove anchora à me hà fatto questa medesima cosa, à ciò che io dessi derisione assai à i citadini e à gli amici, perche inanzi che fosse à Pergasi, nodava io con le calze.
Al. Et pure udite, potente è questo citadino.
Cl. Non mi lascierai tu un’altra volta?
Al. Non per Giove, perche io sono un mal’huomo: ma circa l’esser primo, prima lo voglio combattere.
Co. Et se non ubidisce cosi, dì ch’è anchora da i mali.
Cl. Hor non mi lascierai?
Al. Non per Giove.
Cl. Sì per Giove.
Al. Non per Nettuno.
Cl. Oime io creparò.
Al. Et io pur non mi partirò da te.
Co. Lascialo per i dei à lui da guastarsi.
Cl. Et in cui fidandoti, tu pensi esser conveniente il contradirmi.
Al. Che son potente anchora io anche à ornare.
Al. Che cosa tu bevendo hai fatta la cità a’l presente tacere, impedita ne la lingua da te solo solo?
Cl. A mè che huomo hai posto inanzi? che subitamente divora i tunni caldi, e poi beve una lagena di vino puro, e io ingiuriarò quelli capitani che stanno su la porta.
Al. Et io mangiarò le trippe di buò e ’l ventricello di borco, e poi beverò il bruodo senza lavarmi e suffocarò i dicitori, e conturberò Nicia.
Co. Ne’l resto certo mi sei piacciuto. ma una de le cose non mi s’aggiunge, che tu solo sorbirai il bruodo. ma non mangiando pesci, disturberai i Milesij.
Al. Ma se mangiarò i lati, venderò i metalli.
Cl. Et io saltando ne’l concilio, per forza lo turbarò.
Al. Io poi commuoverò il tuo culo, come vesica.
Cl. Et io ti scacciarò fuor de la porta co’l culo basso.
Co. Per Nettuno, et me anchora, se costui tiri fuori.
Cl. Tè solo ligherò à un legno.
Al. Ti persiguiterò per la tua timidità.
Cl. La tua pelle sarà distesa.
Al. Ti scorticherò il sacco con che tu robi.
Cl. Sarai inficcato in terra.
Cl. Ti stirparò le palpebre da gli occhi.
Al. Ti tagliarò la gola.
De. Et per Giove mandandoli un palo da cocina in bocca, poi di dentro via istirpandogli la lingua, consideraremo bene e gagliardamente il culo di quello che stà con la bocca aperta, se hà male.
Co. Le altre cose certo eran piu calde de’l fuogo, et piu impudenti de le parole sporche che si dicono nela cità. e la cosa non era così mala. ma assalta et volta, fa ogni grande cosa. perche hoggi si tiene mezzo, come l’havrai intenerito ne’l percoterlo, pauro so’l troverai, ch’io conosco i suoi gesti e usanze.
Al. Mà pur costui si fatto essendo per tutta la sua vita, poi è paruto esser huomo maschio mietendo per la està aliena, e hora le spiche, quelle che di là hà tirate in un legno le hà legate e le secca, e le vuole rendere.
Cl. Non hò paura di voi, mentre che’l concilio sta vivo, e la persona del popolo và giu di se sedendo.
Co. Et molto ad ogni cosa diviene impudente, e non tramuta’l colore presente.
Cle. Se non ti voglio male, poss’io diventare una pelle di Cratino, e siami insengnato à cantar la Tragedia di Morsimo.
Cl. Non mi vincerete d’impudentia per il dio Nettuno. ò che mai non m’approssimarò à le viscere di Giove forense.
Al. Io con questi pugni, cò i quali assai assai cose da i fanciulli hò tolerato, e ferite de cortelli: penso di soprastarti con questi. ò indarno pasciuto da’l cibo, cosi grande sono allevato.
Cl. Da’l mangiar, come se tu fussi un cane ò tristo: à che fogia adunque mangiando quello che dè mangiare un cane, combattitu con una testa di cane?
Al. Et per Giove sono ancor de le altre ingannationi mie, quando io era putto, che ingannava i cuoghi, cosi dicendo: Guardate figliuoli, non vedete? egli è novello il tempo, egli è la rondine: e costoro guardavano, e io in questo mezzo gli robai la carne.
Co. O carne prudentissima molto saviamente tu hai proveduto, quasi mangiando ortiche avanti le rondine tu robavi.
Al. Et questo facendo me n’ascondeva, e se pur’alcuno d’essi havesse visto ascondendo ne le parti vergognose spergiurava i dei. per il che disse un huomo di rhetori vedendomi far questo: Non può esse che questo fanciullo non habia cura de’l popolo.
Cl. Io ti farò calare la audacia, e penso piu tutti doi. Onde ti escio chiaro e grande, giuso mandato insieme turbando temeramente e la terra e’l mare.
Al. Et io ascurterò le viscere, et io poi me istesso manderò giu ne la aqua seconda, comandandoti che assai piangi.
De. Et io se deprime qualche cosa, farò la guardia à la sentina.
Cle. Non per Cerere passerai, robando molti talenti de gli Atheniesi.
Co. Guarda, e manda giu il piede, che costui soffia gia malitie e incolpationi.
Cl. Et io sò bene che hai da Potidea diece talenti.
Al. Che vuoi dunque uno di questi talenti, e tacere?
Co. L’huomo volontiere lo piglierà, manda giu le corde.
Al. Il soffiar divien meno.
Cl. Fugierai cento accusationi di quattro talenti.
Al. Tu poi di non andare à la guerra vinti, e di rubamento piu de mille.
Cl. Da i scelerati de la dea dico tè esser disceso.
Al. Dico che sono avolo de tuoi zaffi.
Cl. De quali? dimi.
Al. Di quelli di Birsina d’Hippio.
Al. Sei un mal’huomo.
Co. Batti gagliardamente.
Cl. Oime, oime, mi battono costor che ci sono accordati insieme.
Co. Battilo gagliardissimamente, dagli su la panza. e su’l ventre, e su’l culo, e ammazalo questo huomo da niente.
Co. O nobilissima carne, e miglior d’animo de tutti, e che sei demostrato servatore de la cità, e di noi citadini: molto bene e variamente sei andato à l’huomo ne le parole, à che modo ti loderemo cosi, come s’alegriamo?
Cl. Queste novelle fabricate, per Cerere, non m’erano celate, ma sapeva bene che tutte erano attaccate e conglutinate.
Co. Oime, e tu niente dici da quello che fà i carri.
Al. Io so ben che cose tu fai in Argo. egli n’escusa ben gli Argivi amici, e privatamente ivi s’accorda cò i Lacedemonij. e io so in quali queste cose sono infisse naturalmente, perche ne i ligati si fabricano.
Co. Ben bene fabrica per le conglutinate.
Al. Et fanno festa per questo gli huomini de là un’altra volta. e questo, se me volesti dare ne argento ne oro, non mi darai ad intendere, ne ancho amici mandandomi, per far che questo à gli Atheniesi non dica.
Al. A che modo adunque il formagio si vende in Beotia.
Cl. Io te sbatterò in terra per il dio Hercole.
Co. Hor su, e tu che mente ò che animo hai, hora lo’nsegnerai, poi che ascondesti à l’hora la carne ne la braca, come tu istesso dici: perciò che ti rovinerà menandoti in palazzo. cosi costui abbattendosi, ivi t’incolparà: e con gran gridore chiamarà noi tutti.
Al. Però me ne vò, ma prima (poi che gli hò) i ventri, e i cortelli quà giu metterò.
Co. Habi adunque, ungite la coppa di questo, à ciò che possi scampare le calunnie.
Al. Anzi dici bene, e queste cose sono da insegnare à putti.
Co. Habi adesso. piglia, mangia questo.
Al. Che?
Co. A ciò che meglio ò compagno inagliato combatter possi, e fa tosto.
Al. Questo farò.
Co. Hora ricordati, di mordere, incolpare, mangiarglieli ’l collo. e come gli hai mangiato la gola, verrai un’altra volta.
Al. Che cosa altra, se non che son fatto vincitor de’l consiglio?
Co. Hor vogliamo ch’ogn’uno s’alegri, ò che dici cose honeste, et molto meglio anchora ne le parole essercitato, m’havestu contato chiaramente ogni cosa, perche à me pare cosi, ben che longa via è à correre à udire, circa à questo ò huomo mio da bene dì animosamente, che ogn’uno di noi con teco si alegriamo.
Al. Et pur questo Paflagone arriva, parando la poca aqua, et squassando, e turbando, quasi come per bevermi gia, maschera d’audacia.
Cle. Se non ti uccidessi, se io havessi alcune di quelle bugie, possa io crepare.
Cle. Non per Cerere, se non ti divoro da questa terra, mai non potrò vivere.
Al. Se non mi divorarai, et io se non ti beverò, e sorbirò, io creparò.
Cle. T'ammazzarò, per quella sedia ch'è inanzi à la porta.
Al. Ecco la sedia. di che sorte vederò io te, veduto da la sedia ultimo?
Cle. Ti legarò à un legno, per il cielo.
Al. Tu hai pur grande animo. horsu che cosa ti darò io da divorare, in che cosa tu mangi suavemente? ne la borsa?
Cle. Con le unghie, et con le sgraffe ti cavarò le budelle.
Al. Squarciarò le tue vivande ne'l Pritaneo.
Cle. Ti menarò et strassinarò avanti à la brigata, à ciò che mi patisci la pena.
Al. Et io anchora ti strassinarò et t'incolparò di piu cose.
Cle. Ma ò tristo, et ribaldo à te niente egli crede, et io lo sbeffegio, tanto quanto io voglio.
Al. Molto fortemente tu hai giudicato il tuo popolo.
Cle. Sò ben io di che cibi egli si pasce.
Al. Come le balie malamente lo tratti: per ciò che bagnangogli glieli metti questo poco. et da quello hai stirpato tu la terza parte.
Al. Et il mio culo non sà già questo.
Cle. Tu non pensarai huomo da bene farmi ingiuria ne’l concilio: andiamo à la brigata.
Al. Niuna cosa lo vieta. eccomi, và, niente vi distegna.
Cl. O popolo vien fuora quà, per Giove ò padre.
Al. Vien fuora sì ò brigatella carissima.
Po. Chi sono costoro che chiamano, non vi tollete da la porta? la mia ghirlanda havete stracciata.
Cl. Esci, se tu vuoi vedere à che modo sono ingiuriato.
Po. Chi t’ha ingiuriato ò Paflagone?
Cl. Per te sono battuto da costui e da questi giovani.
Po. Perche?
Cl. Perche ti amo ò brigata e ti osservo.
Po. Et tu che sei, dimi’l vero.
Al. Osservatore di costui, tuo vecchio amatore, e che hà desiderio di farti de’l bene. e molti altri e da bene e honesti, ma non siamo potenti per costui. perche tu assomiglij à quelli putti inamorati. e questi da bene e honesti non ricevi. e te istesso dai à quelli che vendono le lucerne, e à quelli che fanno le corde, e à quelli che tagliano le pelli, e à quelli che vendono i corami.
Cl. Facio ben io de’l bene à la brigata.
Al. Dimi hora, che farai?
Cl. Perche hò scacciato da Pilo lo imperadore, navigando de là, hò menato i Laconiesi.
Cl. Et pur ò popolo subitamente fa il concilio, se tu vuoi sapere qual di noi ti vuol piu bene, giudica, per amar colui.
Al. Si, sì giudica ogni modo, se non ne’l Pnice.
Po. Non mi sederei in altro luogo. ma bisogna prima andare in quello Pnice.
Al. Oime disgratiato che son morto. perche qual vecchio a casa facilissimo de tutti gli huomini, e quando si siede in su questa pietra, hà sbadacchiato quasi per impedire i fighi.
Co. Hor ti bisogna gia contare ogni cosa tua zoccolo, e portare la prudentia impetuosa e le parole inevitabili, con le quai questo vincerai. perche è vario huomo. e da inventioni bene escogitate da quelle che non si possono imitare. oltre a ciò à che modo sarai tu grande et illustre verso l’huomo. ma guarda, e avanti ch’egli si getti dinanzi à te, tu prima inalza questi dolfini, e giugnegli la nave.
Al. Et io ò brigata se non ti amo, e non ti voglio bene, sia cotto à fuogo tagliato in particelle, et se non crederai à questo, sia gratato in un tortello co’l formagio, et con questa forca sia strascinato per i testicoli à casa d’un bocalaro.
Cl. Et à che modo ò popolo il citadino diventa piu amator di tè, che io, che pur in prima quando ti diedi consiglio, assai denari ti mostrai à la presentia d’ogniuno. parte strettamente ligando questi, parte quelli strangolando, et altri ricercando, non curandomi di niuno de plebei, se cosa grata ti facessi.
Al. Di questo pure ò popolo niente di buono, et anchora io ti farò questo. perche robarò de’l pane à gli altri, et te ne portarò. et se non ti ama, ne ti porta amore, questa cosa medesima t’insegnarò per la prima, et per questo proprio che adopera la tua bragia, perche non si cura di te che cosi aspramente stai à sedere su le pietre: che cò i Medi hai combattuto à torno à la cità in Maratone, et vincendo da valente huomo ne hai dato il parlar figurato: non si come io son per essere ti porto que sto: ma leva su, et poi senta pianamente, à ciò che non consumi colei ch’è in Salamine.
Po. Huomo che sei? sei tu uno di quelli frutti, di quelli d’Harmodio, questa certamente è una tua opera generosa et che vuole ben’ a’l popolo.
Al. Et tu gia questo hai cominciato con molto minori inescationi.
Cl. Et pure se in alcun luogo qualche huomo è paruto piu aiutatore de’l popolo, ò vero io amando tè più di mè, voglio circundarti la testa.
Al. Et à che modo lo ami, che tu vedendolo à starsene ne le urnette, et con gli voltorini et su le torricelle, otto anni fà, non gli hai havuto compassione? ma tu lo sari dentro, et lo molgi: et Archeptolemo portando la pace, l’hai dissipato: et scacci le imbasciarie da la cità bastonando, che aprono le amicitie.
Cl. Per esser signore di tutta la Grecia: per ciò che l’oracolo dice, che bisogna che costui per una volta giudichi in Arcadia cinque oboli, se vorrà aspettare. et io ogni modo lo pascerò, et di lui haverò cura, trovandolo et bene et male, donde potrà havere un triobolo.
Cl. Non è grave cosa à te à dir questo, è certo contra di mè, e accusarmi à gli Atheniesi, e a’l popolo che fà pur assai beni, piu di Temistocle, per Cerere gia à torno à la cità.
Al. O cità d’Argo, udite, che egli dice. tu ti aguali à Temistocle, che hà fatto la nostra cità piena, trovandola senza labri. e oltra à questo per disnare fece macinare à Pireo. e portando via niente de le cose vecchie, puose avanti pesci freschi. Tu poi cercando di dimostrare gli Ateniesi poco citadini spartendo e indovinando, comparando à Temistocle, essò lui pur fuge la terra, e tu spazzi su l’orzo.
Cl. Non è questo grave à udire ò popolo da costui che io ti amo?
Po. Riposiati quì, e non variare i travagij, e assai tempo fà che m’hai questo celato, e molto piu adesso me lo ascondi.
Al. Sceleratissimo, ò popolo, e facente molti mali, quando apre la bocca, e tagliando le verghe d’i giudicij, gli sorbisce. e con tutte due le mani mangia e divora le cose de’l popolo.
Al. Che stai tu a gridare et smergolare, sceleratissimo che tu sè fra’l popolo Atheniese? e ti scoprirò per Cerere, ò che non viverò, che piglij doni da Mitilene, piu che quaranta mine.
Co. O manifesto à tutti gli huomini, grandissima utilità, ti tengo beato per la buona lingua, per ciò che se così seguirai, piu grande sarai di tutti i Greci, e solo goderai quello ch’è ne la cità: comandarai à i compagni havendo’l tridente per insegna: ove farai molta roba er assai danari, e conquassando e disturbando. e non mandar via l’huomo, perche t’ha dato l’impresa. per ciò che facilmente superarai havendo cosi fatti lati.
Cl. Non, ò buoni compagni, queste cose anchora sono cosi, per Nettuno. perche io hò da tacere avanti gli inimici mei tutti, tal cosa fatta, fino à tanto che da Pilo resti qualche scuto.
Po. Oime tristo che hanno le coregie. ò ribaldo quanto tempo m’hai ingannato, battendo’l popolo di si fatte cose.
Cl. O felice tu non sai ne pensi di trovar mai uno amico miglior di mè ne’l dire. il qual sendo solo hò fidato i congiuratori, e niente m’è stato celato di quel che s’è fatto ne la cità. ma subitamente hò gridato.
Al. Perch’hai patito quello ch’hanno fatto quelli che cercano le anguille: ma poi che’l lago s’è fugato, niente pigliano. ma se volgono in sù e in giù il fango, ne pigliano: et tu ne piglij se turbi la cità. ma dimi una sola cosa solamente, vendendo tanti corami, hai tu anchora dato una suola da tuo nome à costui, dicendo à le pianelle di amare?
Po. Non certamente per Apolline.
Al. Hai dunque conosciuto esse a’l meno, come è fatto? ma io comprando un paro di pianelle, te le dò da portare.
Po. Ti giudico, per quanto conosco, che sei il piu da bene che sia ne la brigata, e sei benevolentissimo à la cità, con queste dita.
Cl. Non è grave cose adunque che le pantofole poi possino tanto, e di me che non s’arricordi? quante cose hai patito, che hò sedato i commossi scanzellando Gritto.
Po. Ta’l cosa Temistocle mai hà escogitato, benche savio fosse e dotto, e quello il Pireeo, non di meno la escogitation non mi pare magiore de la veste.
Cl. Oime sventurato, con che sorte d’inganni mi perseguitu?
Al. Non, ma quel che bevendo l’huomo hà patito, quando hà voglia di cacare. i tuoi modi adoperiamo à guisa di suole.
Cl. Ma di lusinghe non mi vincerai, però che io questo medesimo mi vestirò. e tu piangi ò tristo.
Po. Oime, non, và à le forche, tu ti marcisci, spuzzando fortemente di corame.
Al. E questo à posta s’ha vestito per soffocarti, e altre volte t’hà agguattato. sai quel Tirso degno, esser stato fatto di balsamo?
Po. Lo sapiamo certamente.
Al. A bella posta costui cercava con freta di farsi degno, à ciò che comprando mangiaste: e che poi i giudici pettezzando in Heliea trà loro s’ammazzassino.
Al. Non sete ogni modo deventati rossi voi, à l’hora quando pettezzavate? e per Giove, anchor questa era una inventione di Pirrandro.
Cl. Di che zancie ò tristo mi turbitu?
Al. La dea m’ha comandato che ti vinca di soperbia.
Cl. Ma non mi vincerai. per che ti dico ò popolo che tu dij à costui che non fà niente, da sorbire un catino di mercede.
Al. Et io ti dò un piatello e un unguento da ungerti queste piaghe marze, che hai ne le gambe.
Cl. Et io ti cavarò i capei canuti, e ti farò esser giovane.
Al. Ecco, piglia una coda di lepore da forbirti gli occhi.
Cle. Mocca via ò popolo, e forbilo à la mia testa.
Al. La mia adunque, la mia adunque.
Cle. Io ti farò capitano di galea, e consumare ti farò la tua roba, havendo una nave vecchia, ne la quale tu non ti potrai tenere da spendere. ne potrai stroppizzar la barca: e stò in fantasia che tu togli una vela marza.
Al. L’huomo si turba. cessa, cessa da bogliere. bisogna ben trar di sotto le legne, e cavargli queste minaccie.
Cle. Ti farò ben patire una buona pena, costretto da i tributi. per ciò che io m’affrettarò di farti scrivere nel numero de ricchi.
Co. Stà ben per Giove, per Apolline, e per Cerere.
Po. Et à me pare, anche ne le altre cose chiaramente che egli sia un’huomo da bene. di tal sorte niuno hora à questo tempo è stato fatto huomo à molti per uno bagattino. e tu ò Paflagone dicendo d’amarmi, m’hai allegato, e hor rendimi l’anello che da qui inanzi, non mi servirai.
Cle. Tuotelo, ma sapi solamente, che se non mi lascierai governare, un’altro di nuovo pegior di me si fara inanzi.
Po. Non è possibile che questo sia il mio anello. questo piu mi pare un’altro segno, ma non lo vego.
Al. Horsu, lasciami vedere che segno ti era.
Po. Una foglia arrostita ne’l sevo di bue.
Al. Non è questo, non gli è foglia.
Po. Che gli è dunque?
Al. Un laro che ha aperto il becco, che canta su una pietra.
Po. Oime sventurato.
Po. Portalomi fuor di piedi, non haveva il mio, ma quel di Cleonimo. ma piglialo da me e servimi.
Cle. Eh, non anchora ò patrone, te ne prego avanti che haverai udito i mei indivinamenti.
Al. Et i miei adesso.
Cle. Ma se tu ti confiderai in costui, bisogna che tu sij molzuto.
Al. Et se tu in costui, bisogna che diventi senza capella, infino a’l Mirrino.
Cle. Ma dicono i mei, che ti bisogna comandare à tutta quanta la cità, incoronato di rose.
Al. Et i mei anchora dicono, che tu haverai una porpora larga, e una ghirlanda su una caretta adorata e scacierai smicita, e cirio.
Cle. Et pur và e porta questi, à ciò che costui gli oda.
Al. In bon’hora.
Po. Et tu hor porta.
Cle. Ecco.
Al. Ecco.
Po. Per Giove niente vieta.
Cle. Ecco, vedi, non gli porto fuora tutti.
Al. Oime, che ho gran voglia di mandarli fuora, e non tutti gli porto fuora.
Po. Che sono queste cose?
Cle. Oracoli.
Po. Tutti?
Cle. Ti sei meravigliato? e per Giove n’ho anchora una cassa piena.
Al. Et io ne ho un solaro caricato, e due camare piene.
Po. Hor fammeli vedere. di che sono poi questi oracoli?
Cle. Son mei di Bacide.
Po. Et quelle che hai tu, di che sono?
Al. Di Planide fratel di Bacide, che è piu vecchio.
Po. Circa che cosa sono poi?
Cle. Per Atene, per Pilo, per te, per me, per ogni cosa.
Po. Et i tuoi per chi sono?
Po. Horsu che me li legate, e quello di me, di che mi alegro: che ne i nuvoli possa diventar un’aquila.
Cle. Hora odi, e pon mi mente. considera Erectide la via de gli oracoli. laquale Apolline t’ha sonato ne la sacristia per i tripiedi honorati. t’ha commandato che salvi il sacro cane ch’hà i denti torti, il qual per avanti mordendo, e sopra di te gravi cose gridando, ti darà la mercede, et se non fà questo, morirà. perche molti cornachioni gli gridano havendolo in odio.
Po. Questo, per Cerere io non so, che dicono. che cosa è mò ad Erictieo, et à i cornachioni, e a’l cane.
Cle. Io son bene un cane, perche baglio per te: e Febo t’ha detto, che tu salvi me cane.
Al. Non dice questo l’oracolo, ma, questo cane divora i tuoi vaticinij come una porta. onde ne piglio buon concetto da questo cane.
Po. Hor dì, e io per la prima tuorò una pietra, à ciò che questo oracolo non mi mordi per questo cane.
Al. Considera Erectide il can cerbero plagiario, che accarezza con la coda, osservando quando tu ceni, mangia la tua vivanda, te guardante in un’altro luogo, e intrando in cocina, tu non saperai che il cane di notte lecca le pugnatte, e le olle.
Po. Per Nettuno molto meglio ò Glanio.
Po. Sai quello che dici?
Al. Non io già per Apolline.
Cle. Ha detto il Dio chiaramente che tu mi salvi. che io sono ben à te per leone.
Po. Et perche m’hai tenuto celato, che tu sij fatto in luogo di leone?
Al. A bella posta egli una cosa sola de vaticinij non ti rinsegna. che cosa è solamente un muro di ferro, e legno, ne’l quale Apolline ha commandato che si salvi questo?
Po. A che modo dunque il dio diceva questo?
Al. Ti commandava che questo legasti con un legno che habia cinque busi.
Po. Questi oracoli hoggi mai mi parono adempirsi.
Cle. No’l credere. perche le cornachie invidiose gridano. ma habi a caro il sparaviero, ricordandoti ne la memoria che t’ha menato, e legato i corvini de Lacedemonij.
Cle. Ma considera questo avanti Pilo, la quale ti diceva, è Pilo avanti à Pilo.
Po. Che vuol dir questo, avanti Pilo?
Al. Dice che i fiaschi furon lasciati ne’l bagno.
Po. Et io hoggi diverrò sporco.
Al. Per ciò che esso ha portato via i nostri fiaschi. ma questo oracolo è bene circa’l navale, a’l qual ti bisogna avertire grandemente.
Po. Gli avertisco. e tu legi a i mei naviganti, à che modo in prima si renderà la mercede.
Al. Egide considera, e studia la volpe cagnina che ella non t’inganni, celatamente essendo mordace, veloce ne i piedi, vitiosa volpe, che sà assai cose. sai tu ciò ch’è questo?
Po. Filostrato è cagnina volpe.
Al. Non dice questo, ma se ne và à le veloci navi, quando gli place, che tirano questi danari. di queste parla Apolline che non ti sian date.
Po. A che modo è una galera la cagnina volpe?
Al. A che modo? che è una galea, e un can veloce.
Po. A che modo adunque la volpe è posta apresso un cane?
Al. A i volpini ha assomigliato i soldati, perche mangiano i racemelli ne i campi.
Po. Sia cosi. à questi volpini ov’è il premio?
Po. Qual Cillene?
Al. La mano di costui ha fatto Cillene giustamente, perche dice, gettalo ne la rivolutione.
Cle. Non dici bene. per ciò che Febo nominò Cillene ne la mano dirittamente, oscuramente disse quella di Diopithe. ma io ho uno oracolo che ti volarà à torno, perche tu diventi aquila: e signoregiarai per tutta la terra.
Al. Per ciò che, e à me, e à la terra, e a’l mar rosso, e che ne i popoli Ecbatani giudicarai, lecando su le cose sparse.
Cle. Ma io ho veduto un’insogno, et à me pare che essa dea co’l bronzino manda giu a’l popolo la ricca sanità.
Al. Per Giove cosi anch’io: e mi pare che essa dea venga da la cità, e che una civetta gli stia sopra. e che mandi giu poi co’l bronzino sopra la testa tua l’ambrosia, e in questo aglio salato.
Po. Oime, oime, non ci era dunque niuno più savio di Glanide. e pur me istesso mi rimetto à te, à far che costui facia il vecchio, et ristruerlo un’altra volta.
Cle. Non ti prego anchora, ma aspetta che io ti darò da mangiare de l’orzo, et il vivere d’ogni di.
Po. Non posso sofferire, udendo orzo. spesso da te, et da Tufane sono stato ingannato.
Al. Et io pane da barcaruoli bene impastato, et de la carne arrostita. niente altro. hor mangia.
Po. Compite mò, quel che havete fatto, che io darò le retene ne i Pnici, à quello di voi, che mi farà più bene.
Al. Hor correrò io in prima?
Cle. Nò, nò, ma io.
Co. O popolo tu hai buon principio, quando tutti gli huomini ti temeno come signore et rè. ma sei ben introdutto. tu hai piacere che ti sia compiaciuto, et che sij sbeffato. et à quel che dice, sempre hai tenuta aperta la bocca, et la tua mente che hai, se ne và in viagio.
Po. Mente non è ne i vostri capelli, quando voi vi pensate, che io non sia savio. ma io di mia volonta di queste cose mi sbizerisco, perche me ne toglio pur spasso, essendo ogni dì ingannato: e voglio mandar fuora un ladro soprastante, e questo come sarà pieno, alzandolo, lo ferirò.
Co. Cosi tu farai ben bene, se sei prudente ne i costumi molto bene, come dici. se costoro in Pnice diligentemente nutrisci, come publichi, e de’l popolo. e poi quando non t’averrà la vivanda, sacrifica, e cena di costoro quel che sarà pieno, e grasso.
Cl. Và via ne la mal’hora di lungo.
Al. Và tu poltrone.
Cl. O popolo io pure me ne sto parecchiato, tre volte a’l dì, mi sento haver voglia di servirti e farti bene.
Al. Et io diece volte al dì, e dodeci, e milla, et gia gran tempo fà.
Po. Et io aspettando tredece millia volte a’l dì, mi fate fastidio, e gia assai tempo, assai, assai.
Al. Sai dunque che hai à fare?
Po. Non, se non me lo dirai.
Al. Aprine la porta e à me e à costui, e mandane via à ciò che parimente ti faciamo bene.
Po. Questo bisogna fare. andate.
Al. Ecco.
Po. Corrette.
Cl. Non lascio sotcorrere.
Po. Ma certamente sarò molto aventurato hoggi per causa de gli amatori mei, per Giove, ò che mi consumarò.
Cl. Vedi tu? io sono il primo à portarti da sedere, ma non gia la tavola.
Al. Ma io piu in prima.
Al. Et io pan di cane incavato, minutamente tagliato da la dea con la man d’avorio.
Po. Tu havevi dunque ò riverenda signora un gran dito.
Cl. Et io ti porto fava franta, cotta à lesso, ben colorita, et bella. et questa Pallade ha fatto, la pugnatrice di Pilo.
Al. O populo la dea apertamente considera, et hora tiene la tua pugnata piena di bruodo.
Po. Pensitu che si potrebe habitar questa cità, se manifestamente non tenesse la nostra pugnata?
Cl. L’essercito per spaventarti t’hà dato questa particella.
Al. Costei ch’hà’l padre potente, ti dà carne cotta ne’l bruodo, e trippe buone e grasse, ben conze.
Po. Hà fatto bene, che s’ha ricordato de’l peplo.
Cl. La Gorgolofesa comandò che si mangiasse da questo carrattiero, per parar bene le navi.
Al. Piglia queste anchora.
Po. Et che bisogno haveremo di queste trippe?
Al. Essa dea di sua volontà t’hà mandato ne le barche le interiori, perche come si vede, molto hà cura de’l navale. tuotti anche da bevere per due volte.
Po. Quanto humana, ò Giove, e che mi porta si ben queste tre cose.
Al. La Pallade hà pur immescolato quello con Tritone.
Al. Et da me tutta questa intiera.
Cl. Tu non haverai gia da dargli carne di lepore, et io si.
Al. Oime, donde haverò io carne di lepore? ò animo di buffone, trova mò qualche cosa.
Cl. Veditu queste ò sventurato?
Al. Io n’hò poco pensiero: ogni modo loro vengono à mè.
Cl. Che?
Al. Vecchi ch’hanno le borse piene de danari.
Cl. Ove, ove?
Al. Che ti fà à te questo? non lascerai tu, che i forestieri? ò popolone veditu la carne di lepore che io ti porto?
Cl. Oime meschino, tu hai torto, che me l’hai robata.
Al. Per Nettuno, e tu anchora questa da Pilo.
Po. Dimi di gratia, come hai saputo fare à robargliela?
Al. Questo è una intentione de la Dea, questo è un mio furto.
Cl. Et io sono andato in gran pericolo.
Al. Et io l’hò rostita.
Po. Và via, che non è. ma è per gratia di colui che me l’hà posta inanzi.
Cl. Oime sventurato rimanerò in vergogna.
Al. Che non giudichi ò popolo, qual de noi dui è piu huomo da bene, per tè, e per lo ventre?
Al. Io ti dirò, và piglia tacitamente la mia cista, e cerca dentro ciò che vi è: e quella di Paflagone, e à la fine giudicherai bene.
Po. Lasciami vedere. che cosa è dunque?
Al. Ma non vedi quella vuota ò vecchietto? t’hò pur portato ogni cosa.
Po. Questa cista sa ben de le cose de’l popolo.
Al. Và dunque anchor quà à casa di Paflagone. vedi tu hora?
Po. Oime de quanti beni è’lla piena. quanta cosa di fugazza ivi è posta dentro. e n’hà spezzato via un pezzetto, e me l’hà dato.
Al. Tai cose pur anchora in prima faceva. ti dava pure un poco di quelle cose che pigliava: et esso à se medesimo si metteva innanzi le cose magiori.
Po. O sciagurato, robandomi m’hai ingannato in queste cose, e io ti hò incoronato, et t’hò donato.
Cl. Et io ti hò robato in bene per la cità.
Po. Metti giu tosto la corona, che io voglio ponerla à quest’altro.
Al. Mettila giù presto asino.
Cl. Non certamente, poi che hò io l’oracolo d’Apolline, che dice da chi solamente mi bisognerà esser vinto.
Al. Che dice’l mio nome, e molto chiaramente.
Al. Ne le cocine, m’acconzava cò i didi.
Cl. Come hai detto? il mio oracolo molto mi tocca ’l cuore. tè la faccio buona. ne la essercitation di putti poi, che lotta hai imparato!
Al. Robando hò imparato à spergiurare, e vedere à l’incontro.
Cl. O Febo Apolline di Licia, che mi farai tu mai? e che arte havevi quando fosti divenuto grande e huomo fatto?
Al. Vendeva trippe.
Cl. Et che cosa?
Al. Et me’l faceva cacciar di dietro.
Cl. Oime sventurato, non son piu buon da niente. gli è una picciola speranza, quella ove siamo menati. e dimi solamente la verità, se tu vendevi le trippe in piazza, ò in su la botega.
Al. A la botega, ove è da vendere il salame.
Cl. Oime egli è adempito l’oracolo del dio. volgete dentro questo disgratiato. ò corona vatene alegramente, e io contra à mia volontà ti lascio, e un’altro ti piglierà e ti possederà. un ladro pur non più, ma forsi uno aventurato.
Al. Hellanio Giove questa è la tua vittoria.
Po. Et à me dimi come hai nome.
Al. Agoracrito, perche ne’l popolo giudicato, era pasciuto.
Po. Ad Agoracrito adunque mi rimetto. e questo di Paflagonia tradisco.
Al. Et io certo ò popolo di te haverò buona cura. à dirti il vero, tu non potevi conoscere un migliore huomo di me, di quelli che stanno con la bocca aperta in questa cità.
Al. Lodar bisogna e dirne bene, e sarar la bocca, e da testimonij astenersi, e conchiudere i fori giudiciali, de quali questa cità s’è alegrata, e in tutte le felicità che’l teatro laudi Apolline.
Co. O adiutore de le sacre isole, e in Atene lume, tu te ne vieni havendo una certa buona fama, per ciò d’odor perfetto le vie profumo.
Al. Io ricocendo questo popolo à noi, de tristo l’ho fatto buono.
Co. Et dove è adesso, ò honorando, e che ritrovi consigli.
Al. Ne le antiche Atene di viole coronate habita.
Co. A che modo vederemo, di che sorte di preparatione egli ha, e come è fatto?
Al. Si fatto come altre volte andava a pasto ad Aristide, e Miltiade. e pure certo vederete lo strepito de le porte aperte à man à mano, ma oloiate à le antiche Atene che si vegono, e mirabili, e molto lodate, dove dentro habita il glorioso popolo.
Co. O grassa e di viole incoronata, e molto da essere amata Atene, mostratemi il monarcha, e signor de la Grecia, e di questa terra.
Al. Quello è à vederlo, un portacigala: d’una forma antica, risplendente, non egli spuzza di porco, ma de sacrificij, onto d’oglio mirrino.
Po. O suavissimo de tutti gli huomini, Agoracrito vien quà, e quanti beni m’hai fatto ricocendo?
Al. Io? ma ò disgratiato, non sai come tu istesso eri per avanti, ne che officio era il tuo? tu mi stimi forsi un dio?
Po. che cosa faceva io per avanti? dimi tosto, come era? di che sorte?
Al. Et prima, quando alcuno diceva ne’l concilio, ò popolo, sono tuo amatore, e di te ho cura, e provego solo, quando uno usava tali principij di ragionare, tu ballavi, e t’insoperbivi.
Po. Io?
Al. Poi ingannandoti con queste parole si partiva.
Po. Che dici? mi facevano tai cose? e io non me ne ho aveduto?
Al. Quelle tue orecchie, per Giove, si distendevano, à guisa d’una beretuzza, et di nuovo si ritiravano.
Po. Così rozzo era e vecchio.
Al. Et per Giove se doi advocati dicessero, uno di far navi, e l’altro anchora di pagar la mercede. questo che dice questa mercede, passandolo vince quello da le galee. tu che te inchini? non restarai, come dei fare.
Po. Mi vergogno di questi tuoi peccati.
Po. L’alzarò su in alto, il getterò ne’l baratro, per la gola impicando Hiberbolo.
Al. Questo hor ben dici, e saviamente, di gratia lasciami vedere le altre cose, à che modo governarai la cità, dimi.
Po. Et per la prima pagarò fino à un quatrino tutti quanti quelli che menano e conducono le navi longhe.
Al. A molte natichelle magrette hai donato.
Po. Poi citadini niuno posto ne’l numero per tregua sarà trascritto, ma come era prima sarà inserito.
Al. Questo ha morso quel manico di Cleonimo.
Po. Ne niuno senza barba mi verrà ne’l foro.
Al. Dove venirà adunque Clistene, e Stratone, dico quelli giovani in Miro, che sono ingannati così fattamente, stando à sedere. il savio Feace non morì già saviamente, perche fu compositivo, e terminativo, e di sententie fortunativo, e manifesto, e pulsativo, e che ben coglieva quel che fà romore.
Co. Adunque è contra quello anello loquace.
Po. Non per Giove, ma costringerò, che si trovi ogniun di tal forte, che cessi da i giudicij.
Po. Felice già son tenuto per le cose antiche.
Al. Dirai poi che t’havrò dato la pace di trenta anni, vien quà. la sicurtà tosto.
Po. O Giove molto honorato quanto è buona sicurtà per i dei, che hanno licentia di farla per trenta anni. à che modo ha pigliato questa, dì’l vero.
Al. Non già il Paflagone queste ascondeva dentro, à ciò che tu non le pigliassi. hora adunque io ti dò licentia d’andar ne i campi à pigliarle.
Po. Et a’l Paflagone che ha fatto queste, dimi che male gli farai.
Al. Niun gran male, se non che haverà la mia arte. che su le boteghe venda solo trippe, e mescoli le cose de cani con le bagatte ch’havrà da vendere: e ebriacato dirà villania à le bagascie, e da i bagni bevrà essa aqua da lavare.
Po. Bene hai pensato la cosa, che è degno, di gridare dietro a le meretrici, e à i stuarij. et io per questo ne’l Pritaneo ti chiamo, e ne la sedia, ov’era quello incantatore. e vienmi dietro, pigliando questa vesticella. e uno subitamente porti fuora colui à l’arte, à ciò che i forestieri ch’egli ha offeso, lo possano vedere.
Fine d’i Cavallieri d’Aristofane.