Faust/Parte seconda/Atto primo/Gran salone e stanze laterali
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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GRAN SALONE E STANZE LATERALI
addobbati sfarzosamente per la mascherata.
L’ARALDO.
Non vi andate immaginando che siamo in terra di Lamagna, là dove diavoli, matti, ed estinti menano la ridda; ohibò, una gaia festa qui vi raguna. Il padron di casa, pellegrino ch’egli è per a Roma, in suo pro e pel vostro diletto valicate le Alpi, conquistavasi un gradevole e lieto reame. L’imperatore, domandato colà il diritto pel suo potere, nell’andare in cerca di una corona, ne riportava insieme con quella il cappuccio del buffone. E però eccoci dal primo al sezzaio rigenerati; e ciascuno lo indossa a bell’agio, cacciandovi dentro gli orecchi e la nuca: e quello il fa pari al buffone, ed egli intanto, tenendovisi ravvolto e chiuso, ingegnasi come può a darsi l’aria d’uom saggio. Ed ecco sin d’ora gli accorrenti aggrupparsi, quinci barcollando errare qua e colà, quindi con trasporto accoppiarsi. Il cuore s’affanna di stringersi al cuore. Chi entra, chi esce, con sempre nova vicenda. Al postutto, oggidì come per lo addietro, il mondo colle sue centomila ciance e frascherie altro non è a dire che un matto sperticato.
alcune GIARDINIERE.
Canto con accompagnamento di mandolini.
Per cattivarci la vostra buona grazia, noi donzelle fiorentine veniamo stanotte, così tutte azzimate, a prender parte alle splendidezze della corte imperiale.
Sotto le ciocche de’ bruni nostri capegli, facciamo graziosa mostra di mille gai fiorellini; e bei nastri non mancano, quale strello a cappio, e quale sciolto e ondeggiante.
Chè ciò appo noi hassi in conto di merito, e tal cosa cui si debbano gli elogi: codesti fiori poi, di raro artificio, sbocciano per ogni stagione.
Osservate con quanta simmetria stieno entro a’ nostri cofani mille e mille frastagli e nappine a colori svariati: l’un più che l’altro potrebbe lasciarvi luogo a censura, ma presi tutti insieme è forza che vi abbaglino.
Gentili in vista, giardiniere e galanti siam noi: la natura della donna si raccosta all’arte sì fattamente che l’una par l’altra!
L’Araldo. Lasciate vedere i magnifici corbelli che vi tenete in sul capo, e que’ così appariscenti che vi stanno al braccio sospesi. Scelgasi ognuno quel che gli garba. Lesti! chè in un batter d’occhio, sotto a’ cespugli, e lungo i viali un giardino, tutto quanto è, avvizzisce! Mercadanti e venditrici, son tali entrambi da adescare la folla.
Le Giardiniere. Venite, appressatevi, o avventori, in codesti luoghi ridenti, ma non sia tra voi chi tratti del prezzo! una parolina spiritosa basteravvi a conoscere ciò che è per toccarvi.
Un ramicello d’olivo in fiore. Io non ho punto invidia delle aiuole fiorite; lunge da me qualsia contesa, chè dal piatire per natura abborrisco. Non sono io forse il primo onore de’ campi, e l’emblema non dubbio della pace in fra i popoli? Stamane, ne ho ferma fidanza, toccherammi in sorte di fregiare una bella fronte condegnamente.
Una corona di spighe dorate. I bei doni di Cerere riescano per voi di buon augurio; e quello fra i beni della terra cui tutti anelano e ad ogni altro antepongono — l’utile, dico — acquisti vaghezza coll’essere a voi d’ornamento.
Una corona di fiori fantastici. Fiorelli variopinti che ti paiono malve, e nol sono, un mirabile intreccio di bottoni e di campanellette che fanno capolino dal muschio! non ha che far punto colla Natura, e tuttavia lo inventa la Moda.
Un mazzolino fantastico. Teofrasto1 medesimo non potrebbe dirvi il mio nome; por mi confido di riescire assai gradito, se non a tutte, a questa almeno o a quest’altra, cui mi fora di non poco diletto l’appartenere, ove intrecciarmi volesse ne’ suoi capegli, o deliberasse di acconciarmi in sul petto.
Provocation. Scervellinsi a posta loro per favorire alla moda del giorno quante v’hanno screziate e vive fantasie, e producano senza fine bizzarre meraviglie sconosciute alla Natura; verdi steli, e campanelle d’oro, ondulate pure fra i morbidi ricci! ma noi....
Bottoni di rosa. Noi ci teniamo nascosti; beato quegli però che ne scopre nella nostra freschezza! Sopravvenuta la state, il bottoncino di rosa s’infiamma: chi potrebbe star saldo a cotale ebbrezza? Il promettere e l’attenere, nel bel regno di Flora, regolano ad una l’occhio, i sensi ed il cuore. (Le giovanelle vanno sponendo sotto a’ verdi pergolati i lor cofani, collocandoli con bel garbo in ordinanza.)
Un GIARDINIERE.
Canto con accompagnamento di tiorbe.
Osservate i fiorellini dolcemente sbocciati, vedetene le vostre tempie adorne con leggiadria; i frutti non è mai che ne seducano col solo vederli: per goderne e’ conviene il gusto sperimentarne.
Essi ti si presentano in bruno colore: avete qui ciliege, pèsche, susine; suvvia, comperate! chè al giudizio della lingua e del palato, mal regge quello dell’occhio.
Le frulla, fra quante ve n’ha, meglio stagionale, affrettatevi ad assaporarle deliziosamente. Si possono in rima celebrare le rose: a conoscere il pregio delle poma è forza darvi di morso.
Siaci consentito di metterci a paro col vostro splendido fiore di giovinezza, e di sfoggiare presso a quello la ricchezza delle nostre merci succose.
Sottesso la verde pergola, nel segreto de’ fronzuli boschetti, vi si para dinanzi quanto sa il talento desiderare, bottoni e foglie, fiori e frutti. (Mentre si cantano codeste strofe alternate, cui le mandòle e le tiorbe accompagnano, i due Cori seguitano a disporre piramidalmente i loro cestelli, e a far invito a chi passa.)
Una MADRE colla FIGLIUOLA.
Madre. Gioia mia, nel dì che nascesti, io l’acconciai sulla testolina una bella cuffietta di bucato: eri tu allora leggiadra in volto, e dilicata nelle membra per modo, ch’io mi dava tosto ad immaginarti da canto al tuo damo, e vedeati ’mpromessa col più dovizioso giovane che fosse al mondo, e sognava che avessi ad essergli moglie.
Quanti anni, oh dio! son corsi senza che ne fosse nulla! La turba de’ fidanzati, di qualsivoglia grado e condizione, dilegua qual fumo: eppure con questo eri tu sì lieve alla danza, a quello desti di soppiatto nel gomito.
Ebbesi un bel fare di apparecchiar de’ festini; tutto andò a vuoto, e i giuochi innocenti non fruttarono punto. Quest’oggi i pazzi sonosi sguinzagliati, cuoricino mio dolce; slaccia un poco il tuo petto, se mai arrivi che alcun d’essi vi rimanga impaniato. S’imbattono in altre femmine giovani ed avvenenti; colle quali dannosi a cicalare.)
Drappello di PESCATORI e di UCCELLATORI.
(Si avanzano provveduti di reticelle, di paniuzze e di altri cosiffatti arnesi, e si mescono a’ capannelli delle ragazze; qual di esse fugge e viene inseguita, qual finge ritirarsi ed è rattenuta, e questi reciproci scherzi danno luogo a ragionari lepidi e graziosi.)
Drappello di TAGLIALEGNA. Il loro portamento è d’uomini di rozzi e villani.
Largo! largo! tiratevi da banda, chè all’arte nostra assai spazio ci bisogna! Noi atterriamo gli alberi che giù ruinano con fracasso; ed allora che ci sta un carico in sulle groppe, chi non vuol andarne a testa rotta, si guardi. E ciò sia detto a nostro vanto: poi che se nel paese non ci avesse per menar le mani cotal razza di gente, come mai codesti tisicucci di signori varrebbono a trarsi d’impiccio con tutto lo spirito ch’essi hanno? Intendetela per tanto una volta, che ove non avvenisse a noi di sudare, voi tremereste senza meno per tutte le membra.
Pulcinella (pecorone goffo e presso che dissennato). — Melensi voi — nati gibbosi. — Noi per opposto siamo saggi — che mai non togliemmo fardelli — chè i nostri cappucci — i nostri saioni, le nostre bagaglie sono cose di facile trasporto. — Beatamente — sempre mai scioperati — in sole pianelle — su pe’ mercati, lungo le fiere — ce ne andiamo a zonzo. — Ci dan la baia — e no’ sghignazziamo; — in fra la calca e gli spintoni — come l’anguilla — andiamo sguizzando, saltellando, schiamazzando. — Scherno o lode ne tocchi, gli è tutt’uno.
Drappello di Parassiti adulatori ingordi. Bravi taglialegna — e voi cugini nostri — carbonai — voi sì che ci andate a sangue; — all’incontro tutti codesti inchini, codeste condescendenze, e bei frasari lambiccali e confusi — codeste paroline a doppio senso — le riescono a scaldare od a refrigerare — quanto abbiasene talento e non più. — A che fine poi tutto questo? — E’ converrebbe che il fuoco — lo stesso fuoco del cielo — piovesse giù a torrenti — ove non si rinvenissero fascine — e carbone — da colmarne l’atrio, onde cavarne la fiamma. — Il fuoco scoppietta la braciuola arrostisce la minestra gorgoglia — il vitello cuoce; — e il verace ghiottone — il parassito — sente l’odore dell’arrosto — fiuta il pesce — e fa cuore e gongola — pel desinare del cliente.
Un uomo avvinazzato e fuor di senno. Nessuno oggi osi farmi il broncio; — sentomi così destro e gagliardo! — l’aere aperto e fresco, allegri ritornelli — son io proprio che gli spiattello, e cionco, e cionco. — Beete voi altri, tin, tin, tin. — Ehi! quel messere colaggiù; ehi, dico, vien qua, tocchiamo insieme, ed è finita.
La mia donnetta s’inviperiva — e faceva in brani questo mio gaio vestito; — e però ch’io me n’andava pettoruto, ella a suonare alla distesa chiamandomi baggeo e peggio; — ma io cionco, e cionco, e cionco; — chè i bicchieri urtati tintinnano, tin, tin. — Voi altri baggei, beete, su via; quando i bicchieri tintinnano, è finita.
Chi susurra ch’io vo fuor del seminato? Mainò! ch’io so troppo ben quel che dico. Or se l’oste nega darmi a credenza, dàmmene, per fede mia, l’ostessa! stia pur questa salda, e n’avrò allora dalla fante. E sempre io cionco, io cionco, io cionco! Animo, voi altri, tin, tin, tin! Tocchiamo l’un l’altro, e via e via. Egli mi pare d’aver detto ogni cosa.
In qual luogo me la goda, e come, non cale; mi si lasci pigliar sonno dove sto coricato, dacchè i miei piedi non sanno più tenermi diritto.
Il Coro. Ciascuno di noi cionchi e cionchi. Un brindisi spiritoso, tin, tin, tin. Tenetevi saldi sul banco o sullo scannello. Per chi rotola giù sotto la tavola, è finita.
L’Araldo. Annunzia poeti d’ogni ragione, poeti della Natura, poeti cortigiani e cavallereschi, entusiasti gli uni, sdolcinati e teneri gli altri. In questo baccano di competitori questo a quello divieta il farsi conoscere; o soltanto un di loro proferisce poche parole in passando.
Un Satirico. Volete voi sapere di qual cosa proverei maggior gusto nel mondo, io poeta? La sarebbe quella di cantare e ricantare ciò che nessuno avrebbe talento di ascoltare. (I poeti della notte e quelli de’ cimiteri mandano a fare le loro scuse, adducendo di essere occupati in un colloquio di sommo interesse con un vampiro di fresco risuscitato, colloquio dal quale potrebbe risultarne una poetica tutta nuova: e l’Araldo, costretto a menar loro buone tali scuse, evoca infrattanto la greca mitologia, che sotto la maschera moderna non è punto meno graziosa, e nulla perde dell’antico suo carattere).
Le GRAZIE.
Aglaia. Noi rechiamo la grazia nella vita, e voi graziosi mostratevi nel donare.
Egemone. Graziosi mostratevi nel ricevere: il compimento de’ nostri voti è dolce cotanto!
Eufrosine. E fino al termine de’ vostri giorni tranquilli, graziosa in ogni tempo la vostra riconoscenza apparisca.
Le PARCHE.
Atropo. Io, la più vecchia delle filatrici, fui pur una volta anch’io invitata. Molto èvvi da pensare e più da riflettere sul tenue filo a cui s’attiene la vita.
Ond’e’ riesca per voi flessibile e dolce, io l’ebbi trascelto da quel lino che è di tutti il più fine; a farlo poi liscio, facile, eguale, le esperte mie dita provvederanno.
Se di mezzo a’ piaceri e alle danze v’accorgete di essere per ismarrirvi, rammentatevi di che qualità è codesto filo; all’erta allora, ch’e’ potrebbe spezzarsi!
Cloto. Sappiate, che or fa pochi giorni mi vennero consegnate le cesoie, chè al tutto scandalosa riusciva la condotta della vecchia nostra sorella.
Ella tramava senza darsi posa nella rena e fra le nubi un tessuto vano al tutto ed inutile, e di corto tagliandolo profondeva nell’abisso la speranza delle più nobili facoltà.
Tuttavolta, fu un tempo che io altresì, nel bollore degli anni, ebbi a cadere in consimili illusioni, nè già una volta ma cento e mille: ora poi, a moderare quella foga, tengo le cesoie serrate entro l’astuccio.
E vo lieta oltremodo di trovarmi per tal guisa vincolata, e de’ miei ritegni sorrido. Voi frattanto, in codeste ore di libertà, menate l’orgia vostra gaia e rumorosa.
Lachesi. A me, che sola in fra tutte mi do a veder ragionevole, a me l’ordinare il lavorio era commesso, e il mio filatoio scorrevole e presto non fu mai che si vedesse volgere a precipizio.
Le fila svolgonsi man mano, e si avvolgono: ciascun filo poi tien l’impulso che gli è dato. Non por uno ne lascio allungare oltre il debito: ma tutti hanno da strignersi attorno al fuso.
S’io potessi per un attimo solo distrarmi, guai pel mondo; le ore battono, gli anni trascorrono, e il tesserandolo dà di mano alle matasse.2
L’Araldo. Quelle che vengono dopo, non arrivereste a conoscerle foste pure versati mille cotanti più che non siete nelle antiche scritture: chè, in veggendole, alle operatrici di tanti mali, dareste senza meno il benvenuto.
Le FURIE.
L’Araldo. Non avrà il mondo chi voglia pre starvi fede, avvenenti quai siete, aggraziate, amabili, e sul fiore dell’età! Trattate con esse a fidanza e non tarderete a provare come somiglianti colombe abbiano il morso letale delle vipere.
Di lor natura e’ son cupe, taciturne; ma oggidì che ogni baggiano magnifica le proprie vergogne, più non monta ch’e’ si dieno per angiolette, e apertamente si confessano veraci flagelli di città e di paesi.
Aletto. In fin poi che ci varrebbe? Voi ci darete rese il vostro favore, perocchè gentili siamo e giovanette, e sappiam farvi le più dolci moine. Se talun di voi abbia ove che sia una sua innamorata, noi gli solleticheremo gli orecchi a gran pezza.
Fino a tanto che siam ose dirgli spiattellatamente com’ella abbia fatto tale o tal altro segnale, e che ha corto senno, che è scrignuta o zoppa; e dov’ella fosse già sua fidanzata, noi gli persuaderemo ch’ella non vale uno straccio.
Nè ci manca via di tormentare la fidanzata altrettanto, susurrandole che il suo damo, pochi di prima, diceva male parole sul conto di lei, con altri: e dove accada ch’e’ si rappatumino, rimane pur sempre alcun che d’aspro fra loro.
Megera. Baie, pure baie le son codeste! Lasciate che stringasi il nodo, ed io so farne il mio pro; e vada com’ha da andare, posso in ogni incontro attossicare a mio grado co’ puntigli qual sia più intera felicità. L’uomo è vario, e varie non meno discorrono le ore.
Nessuno aggiunge un desiderio ch’e’ non ispasimi tosto follemente dietro un desiderio nuovo e più vivo, che lo invade all’apice della più grande beatitudine, e si fa abito in lui; tanto che il sole schisando, e’ vuol essere scaldato dal ghiaccio.
Ed io so con siffatta razza quai modi son da te bere, e traendo meco il fido Asmodeo il quale semini a tempo le amarezze ed i fastidi, vo così coppia a coppia struggendo l’umana specie.
Tisifone. Dov’altri adopera le malediche lingue, rimesto io ed appronto pe’ traditori daga e pugnale. Lègati pur quanto sai a’ tuoi pari, chè tardi o tosto ha da penetrarti nelle ossa la disperazione.
Forza è che il mèle cangisi di tratto in fiele ed assenzio; qui non riguardi, non compassione vuol essere: l’ha fatta, l’ha da pagare.
Perdono!! — chiacchiere; sfogo la mia passione alle rupi, e l’eco — odi! — risponde: Vendetta! E chi è mutevole e vario, non de’ rimanere in vita.
L’Araldo. Piacciavi ora tirarvi un po’ da canto, chè tale si appressa col quale nulla avete di somigliante. Ecco venirne una montagna, il cui dorso orgoglioso s’ammanta di screziali tappeti, e la cui testa è munita di lunghe armi da difesa, e di una tromba che si attorce e disnoda a sembianza di serpe. Ed eccovi spianato il mistero. Sedutale in sulla nuca, una femmina graziosa e dilicata la dirige destramente per mezzo di sottile bacchetta, intanto che un’altra, tenendo il luogo più elevato, maestosa e superba, mostrasi cinta di una magnificenza che abbarbaglia. Camminano di costa due nobili matrone in ceppi, quale inquieta, quale gaia e festevole; struggesi quella per desiderio, questa si tien libera e sciolta da tutte cure. Manifesti ora ciascuna di esse chi sia.
La Tema. I doppieri fumanti, le lampane, le faci tremolano di mezzo al subuglio della festa: ma tra codeste ingannevoli apparenze la mia catena, ohimė lassa! più mi costringe.
Via di qua, voi, sghignazzatori degni di risa! le vostre smorfie rinfocano i miei sospetti. Quanti sono i miei antagonisti, m’assediano tutti e mi cingono stanotte.
Qua un amico mi si è fatto nimico oh! ben ravviso la maschera. — Quell’altro era sul punto di assassinarmi — scoperlo ora, si svia.
Valessi io a fuggire dal mondo! per rintanarmi, non cerco dove. — Se non che laggiù il nulla m’impaura — ed io stommi in bilico tra l’orrore e le tenebre.
La Speranza. Salvete, o voi, suore predilette! Fin da ieri e quest’oggi ancora andate cercando spasso, col dare il tempo alle mascherate: ma io so dirittamente, quanto a me, che al nuovo di volete rindossare i vostri panni. E se il chiarore delle faci non ci dà alcun particolare diletto, andremo a nostro beneplacito alla viva luce diurna, strette in drappelli, o da sole correndo in libertà su per le belle praterie, riposandoci o volteggiando a talento, e sciolte da ogni sollecitudine, non amareggiate da privazioni, aneleremo continuo alla meta desiderata. Ospiti ben accolte ove che sia, quivi entriamo a piè franco; per certo, che il sommo bene ha da essere in qualche parte del mondo.
La Prudenza. Io tengo allacciate, fuori della calca, le due maggiori nemiche dell’uomo, la Tema e la Speranza. Largo! largo! voi siete in sicurtà.
Il colosso animato, mel trascino — miratelo! — Sopraccarico di torri, muove egli a passo a passo, senza intoppo, traverso a’ viottoli scoscesi e dirupati.
Ma in alto, sul pinacolo, tiensi codesta divinità co’ vanni spiegati in atteggiamento di volare al conquisto delle quattro parti del mondo.
D’attorno a lei, gloria e splendore sfolgorano da lunge in ogni parte; ella ha nome Vittoria, regina di un’attività a tutte prove.
Zoilo-Tersite.3 Puh! puh! giungo in tempo per mandarvi in malora tutti! Quella però cui mi propongo di attaccare per la prima è lassù, madonna Vittoria! Colle sue alacce bianche, si dà ella ad intendere di essere un’aquila, e dove che si volga, fa conto che tutto le appartenga, popoli e paesi. Misericordia! Quante volte m’incontra di scoprire un po’ di gloriuzza, io vo fuor de’ gangheri. Sollevare ciò che dee stare in basso, abbassare ciò che ha da essere alto; la curva raddrizzare, la retta incurvare, ecco quanto solo mi dà gusto, ecco quanto io voglio per tutta la terra.
L’Araldo. Vanne, o brutto e tristo pitocco! che la santa verga ti sferzi a sangue! che le tue membra si contorcano di tratto prese da orribili convulsioni! Mirate, il doppio nano s’aggomitola a un batter d’occhi, mutato in lurida massa! – Oh prodigio! — La massa uovo diventa, che s’ingrossa, e screpola; ecco, due gemelli fuor n’escono: la vipera e il vipistrello. Quella traggesi a strisciar nella polvere; questo, di color bigio oscuro, levasi volteggiando verso la soffitta. Entrambi poi anelano d’uscire all’aperto in cerca di compari: Dio mi guardi che mi venga talento di affratellarmi con essi!
Rumori. All’erta! laggiù ferve la danza. — Tutt’altro! io vorrei essere lungi di qua. — Non sentita come lo stringere d’un cappio? La è malía di codesta gente fantastica. — Mi va strisciando ne’ capegli — me lo trovai testè in fra’ piedi. — Nessun di noi n’ebbe offesa; — dal primo all’ultimo siam però tutti smarriti, e pieni di spavento — Ogni allegrezza è intorbidata. — Que’ sozzi animali hanno fatta piena la voglia loro.
L’Araldo. Da poi che nelle mascherate l’ufficio di araldo mi fu commesso, io veglio sollecito al limitare, onde qui, nella stanza de’ piaceri, alcun sinistro non vi tocchi; e in ciò non piego nè transigo, siatene sicuri. Pur pure ho temenza, non s’intromettano gli Spiriti dell’aria per le finestre: chè dagl’incantesimi, dagli stregonecci non varre’ io a preservarvi. Se il nano v’incoteva spavento, laggiù, mentr’io parlo, èvvi immensa calca che fa il diavolo a quattro. Sul nome e sul carattere di costoro, ben vorrei ragguagliarvi, come il mio uffizio dimanda; se non che, l’incomprensibile mal saprei definirvelo. Venite adunque tutti in mio aiuto. Scorgete voi un non so che scivolare a traverso della pressa? Osservate quel magnifico carro a quattro cavalli, che spicca fra gli accorrenti! Esso però non rompe la moltitudine accalcata, nè punto si mira affannarsi di genti: sprazzi di luce ne partono da lungi, e questi d’ogni colore; mille stelle sviate tremolano qua e colà; direbbesi che la fosse una lanterna magica. Ecco la si appressa colla romba di un furioso uragano. Largo! largo! Io tremo come una foglia!
Un Fanciullo che guida il carro. Fermatevi, o miei corsieri! ripiegate le ali, obbedite all’usato freno, abbonitevi, secondando il cenno ch’io ve ne fo, presti a partire appena sarete a ciò sollecitati. Facciasi ora a questi luoghi onoranza! — Vedi come cresce all’intorno la pressa de’ curiosi meravigliati ed attoniti! come l’uno l’altro preme e sospigne! Suvvia dunque, o Araldo! e innanzi che si ripigli la corsa, di’ qual nome abbiamo, e porgi al tuo modo contezza dell’esser nostro: perocchè noi siamo personaggi allegorici, nè tu dovresti a lanto essere meno abile a conoscerci.
L’Araldo. Come ti appelli, dir non saprei; mi sarà cosa più agevole descriverti.
Il Fanciullo. Ti prova dunque a farlo.
L’Araldo. Da prima, e’ convien confessarlo, giovine e leggiadro se’ tu, un garzoncello appena adulto, cui vorrebbono le femmine vedere a compiuta adolescenza venuto; tu m’hai l’aria di uno zerbino in erba, di un seduttore de’ buoni!
Il Fanciullo. Ma senza fallo! Prosegui ora, rivelane il brioso significato dell’enimma.
L’Araldo. Il lampo delle negre tue pupille, il bruno de’ tuoi capegli di sfavillante diadema ornati! e quel manto grazioso che giù li scende dagli omeri, e va sino a’ talloni, con quella trina in sull’orlo di porpora e di canutiglia! Ma sai tu che propriamente rassembri una fanciulla? E tuttavia ho per indubitato che varresti a farle impazzare quante ve n’ha; tu hai apparato alla loro scuola.
Il Fanciullo. E quegli, che, simbolo direbbesi della magnificenza, sta, come re in trono, sul carro?
L’Araldo. E’ sembra monarca grazioso e potente. Beato chi vale a meritarne il favore! che altro avrebb’egli più a desiderare? Il suo sguardo antivede il bisogno del tapinello, e la schietta gioia ch’ei nel dare assapora avanza di gran lunga ogni possesso, ed ogni stragrande felicità.
Il Fanciullo. Non dèi ristringerli a questo; pensa che ogni cosa hai da descrivere appunto appunto.
L’Araldo. La dignità è indescrivibile; ma la cera frescoccia e larga a mo’ luna tonda, le guance pienotte e serene che risaltano di sotto al turbante, lo sfarzoso panneggiamento della veste! che dir poi del contegno? al postutto e’ mi pare di travedere in lui un sovrano.
Il Fanciullo. Questi è Pluto, dio della ricchezza, trattosi costà in tutta gala, chè il grande imperatore ne lo chiama co’ più ardenti suoi voti.
L’Araldo. Or dinne ancora, sul conto tuo, chi e quale tu sia.
Il Fanciullo. Io sono la Prodigalità, sono la Poesia, sono il Vate che s’appaga scialacquando quant’ha. Ed io non meno sono ricco sfondolato, e non la cedo per nulla a Pluto. Io do anima e brio a’ suoi balli, a’ suoi conviti; di ciò che a lui manca, lo regalo io a larga mano.
L’Araldo. Millantatore tu se’ per eccellenza: ma vediamo ora un poco quanto valga ne’ fatti.
Il Fanciullo. Mirate! solo ch’io faccia scoppiellare le dita, e lampi e fulgori scintillano di tratto dattorno al carro. Attenti! eccovi una collana di perle. (Segue a scoppiettare colle dita) A voi, fermagli d’oro, orecchini, smaniglie; e a voi altresì pettini e diademe di rara perfezione, e gemme preziose incastonate in leggiadre anella; io ne traggo qua e colà delle favilluzze, cercando dove sieno da prendere tutte codeste gale.
L’Araldo. Com’è presta ad aggrappare e ghermire ogni cosa quella cara moltitudine! il donatore n’è aggredito, affogato. E piovono infrattanto gioielli a furia ch’e’ pare un sogno, nè v’ha pur uno il quale non voglia averne la parte sua. Ma che? la è invero cosa da strabiliare. Ciò che tanto ingordamente strappansi questo e quello, poco lor giova, che i tesori isfuggono ad essi come prima hannoli stretti in mano. La collana di perle, ecco si spezza; nè altro rimane in pugno al poveraccio salvo parecchi scarabei che gli s’impigliano alla cute: e com’e’ fa prova di cacciarneli, vedi che gli vanno ronzando intorno alla testa. Gli altri cosi, in luogo degli oggetti di valsente che si reputavano di avere, hanno afferrato non più che vane farfalle di nessun conto. Oh! il gabbamondi! che è sì largo in promettere, e non dà che cianciafruscole e ciarpe!
Il Fanciullo. Ben si vede, come tu così esperto a diciferare ciò che voglian dire le maschere, sei poscia inetto a scoprire l’intima ragion delle cose. Ben altro vuolsi per questo che un araldo di corte; la è faccenda di gente più sottile e penetrativa di molto. Cansiamo per altro ogni diverbio, e sieno invece a te, gran messere, indirizzate le mie questioni, e le mie parole. (Volgendosi a Pluto) Non m’hai tu dato incarico di guidare le tue quattro focose cavalle? Non le ebb’io con maestria e giusta il voler tuo maneggiate? Non son io forse là dove tu mi volesti? Non seppi io dunque, con ratti vanni, conquistarti la palma? Quante fiate ebbi a combattere per te, non fu’io sempre il vincitore? Gli allori ond’hai cinte le tempia, chi mai li intrecciava se non fu l’ingegno mio, la mia mano?
Pluto. Se occorre ch’io l’attesti, farollo di buon grado. Tu se’ lo spirito del mio spirito, ed operi in ogni tempo a seconda del mio volere: tu, più ricco ch’io medesimo non mi sia; ed io, per riconoscere i tuoi servigi, codesta verdeggiante fronda a qualsia corona antepongo. E qui, in faccia a tuti io proclamo te dall’intimo del cuore, figliuolo mio prediletto, che al postutto mi rendi pago e soddisfatto.
Il Fanciullo, alla calca. I più ricchi doni furono — voi lo vedeste — profusi all’intorno per questa mano. Qui e colà mi si parano delle fronti su cui divampa una fiammella ch’io v’ebbi accesa. Essa da questo a quello trascorre, all’uno s’appicca, dall’altro si dilegua: di rado ergesi luccicante, e mette vivido splendore nella fugace sua apparenza; ma v’ha più d’uno nel quale, prima ancora che si levasse il sospetto di cotal lume, e’ si spegne, miseramente consunto.
Cicaleccio di femmine. Quel barbassoro, ritto in piè sul carro, gli è di fermo un cantambanco. Dietro a lui, tiensi rannicchiato Hanswurst,4 ma per fame e per sete emaciato a segno, da parere quello che non fu mai: punzecchiato non se ne addà.
Lo Smagrato. Canchero alle schifose carogne! Troppo bene mel so ch’io sempre sono il mal arrivato per esse loro. — A’ di quando la donna era ancora tutta casalinga e massaia, avev’io nome di Avarizia; la casa allora trovavasi ben provveduta; assai roba v’entrava, e nulla n’usciva. Io vegliava al forziere, ed alla dispensa: di fermo che gli era quello un fallo enorme! Come poi, negli anni or ora trascorsi, ebbe la donna perduto il vezzo dello sparagno, e che a somiglianza di qual sia sleale pagatore, mostrò di avere assai larghe voglie e difatta di scudi, che rimane all’uomo se non che molto patisca? chè per dovunque e’ si volga, i debiti gli movono assalto. Buscasi ella alcuna monetuccia? non è tarda a gittarla per far liscia la pelle, o per gratificarne il ganzo: talchè la inghiotte bocconi prelibati, e bee del buono con quella maladetta ciurma di vagheggini. La smania
ch’io provo per l’oro cresce intanto a mille doppi, ed io mi nomino adesso l’Avaro al mascolino.
Una fra le Donne. Alla malora il dragone e’ suoi pari; chè, a dirla, tutto questo non è altro che marcia giunteria e menzogna! Ei viene ad aizzare gli uomini, quasi non fossero eglino senza ciò fastidiosi abbastanza.
Le Donne tutte insieme. Brutto pagliaccio! Dàlli d’un manrovescio in sul viso! Or non vien egli a minacciarne quella bestia da soma? Gran paura, per dio! che ne danno le sue smorfie! Che altro sono a fin di conto i suoi dragoni, se non legno e carta incollata? Anino! Suvvia! gittiamoci addosso a questo laido carcame.
L’Araldo. Acchetatevi, olà! o il mio bastone.... — Ma a che mi affanno? mira come i furiosi mostri, pigliando il largo nello spazio, tendono le sterminate loro ale! e fuor delle canne scagliose imbizzarriti i dragoni eruttano fiamme. La moltitudine fugge, vuota è la piazza. (Pluto scende dal carro.)
L’Araldo. Egli s’avanza; qual maestà regale! Accenna, e i dragoni si dimenano: traggono essi giù del carro il forziere stivalo di ghiotto oro — Eccolo a’ pie’ di lui — come ciò abbia potuto succedere, qui sta il prodigio.
Pluto, al Fanciullo. Eccoli spacciato del pesante fardello, e in piena libertà; oggimai puoi avviarli alla tua sfera! Essa non è certo qui, dove, fra il trambusto e le strida, i fantasimi grotteschi ne assediano. E però vattene colà dove — tu puro — vai rapito nella schietta e serena purezza: colà dove tu se’ donno di te medesimo, dove non hai fede che in te; collaggiù dove solo il Bello ed il Buono ne dan gusto e diletto. Nella solitudine! a crearvi un mondo a tuo senno.
Il Fanciullo. Così mi reputo messaggero degno di onore, e così io ti amo come il tuo più stretto parente. Dove risiedi tu, è opulenza; e dove sto io, nuotano tutti immersi fino alla gola in un mar di ricchezza. In codesta vita inesplicabile, rimane spesso l’uomo sospeso e titubante: darassi egli in tua balia, o correrà su’ miei passi? Chi segue te, può – gli è menar vita inerte e sfaccendata; chi all’incontro vien meco, non è mai che gli manchi la fatica. Però che nulla io fo nel buio; sol ch’io respiri, eccomi scoperto e tradito. Addio, pertanto, addio! tu m’abbandoni alla mia felicità! Ma solo che ti sia proferito a bassa voce il mio nome, vedra’ mi tornare a un battere di palpebra. (Parte com’egli è venuto.)
Pluto. Adesso poi, gli è tempo di schiudere i tesori! Tocco appena le serrature colla verga dell’araldo, e il forziere è aperto. Mirate! quivi entro, sotto ferrea custodia, circola un sangue di oro; e sulle prime la pompa di corone, catene ed anella. La massa in bollimento minaccia d’ingoiarla nell’atto che la si strugge.
Schiamazzi e grida nella folla. Vedete, oh! oh! che magnifica fusione! colmasi il forziere fin sull’orlo; — i vasi d’oro si fondono, i rotoli si srotolano, e i ducati cascano giù col doppio impronto begli e lampanti. Oh! come batte il cuore, qual turbinio vanno facendo i miei desiderii colaggiù, su quel palmo di terra! — Dacchè te l’offrono, profittane a buon punto; non hai che ad abbassarti per traricchire. — E noi, ratto come baleno, c’impossessiam del forziere, e via a gambe!
L’Araldo. Che è questo? insensate! Ma non sapete voi che gli è tutto quanto uno scherzo di mascherata, e non più? Per stasera hassi a finirla. Vi par egli ch’altri abbia così a prodigarvi oro e cose di valsente? Ma nel caso nostro di un pugno di brincoli non sapreste che farne. Forsennate! che una mera facezia scambiate colla pretta e reale verità, di che pro sarebbevi dunque codesta verità? — Voi vi gittate da disperati nell’errore più grossolano. — O Pluto carnovalesco, eroe da maschera, cacciami via di qua tutta questa brazzaglia.
Pluto. La tua verga varrammi a fare prodigi; dammela un tratto. — Io la intingo nella vivida fiamma. Ed ora, o mie belle maschere, all’erta! Che lampeggiamenti, che scoppiettii, che guizzi, che lingue di scintille infocate! È già la verga tutta incandescente; chi le vien troppo da vicino, resteranne scottato senza pietà. Or su, diasi principio alle mie giravolte.
Grida e scompiglio. Ohi! ohi! misericordia! la ė spacciata per noi. — Scappa! scappa! — Indietro, indietro, compare! — Ho la faccia tutta inondata di scintille! — Maledizione alla verga infiammata! — Non pur uno, per ciò ch’e’ pare, n’esce sano oggi! — Indietro! capaglia di maschere! Indietro! indietro! ciurma dissennata, indietro! — Avess’io ale, e volerei lungi di qua.
Pluto. Largo, e non poco, è già il cerchio, e nessuno, so conto, ha tocca una sola scottatura: la calca va cedendo, colta da spavento. Tuttavia, come pegno dell’ordine avuto, farò un nuovo cerchio invisibile.
L’Araldo. Opera splendida hai fatto, ed io me ne professo, quanto so meglio, obbligato alla saggia tua possanza.
Pluto. Tutto non è ancora finito, amico mio; sostieni un altro po’, chè novelli tumulti ne minacciano.
L’Avaro. Per poco che vi si ponga mente, in osservando codesto cerchio, èvvi da pigliarne gusto, chè le femmine trovansi mai sempre in prima fila, quantunque volte sia vi da spiare, o da buscarsi alcuna bagattelluccia. Quanto a me, non son io ancora ridotto al punto di romperla; una bella donnina è bella pur sempre; e da poi che non ci ho la spesa di un quattrinello, voglio godermela a macca. Siccome però, qui dov’è sì gran pressa, non tutte le parole possono avere buona ventura, vo’ ingegnarmi — nė dispero di riescirvi — d’esprimere colla massima cautela chiaramente il fatto mio colla pantomima: e dove fossero da meno la mano, il piede e il dimenar delle braccia, mancano forse scaltrimenti da mettere in campo? Io non varrommi dell’oro, a mo’ di umida argilla, chè siffatto metallo in checchè l’aggrada si cangia?
L’Araldo. Che vien ora farneticando questa nummia imbecille? Il sordido allupato vorrebbe farci qui il bell’amore? Vedilo, come tutto l’oro in pasta rimuta: ch’esso in mano a lui fassi molliccio. Come lo indurisce, come lo volta e rivolta! e sempre mai mantenendolo sotto l’ignobile apparenza che gli ebbe data. Ed eccolo volgersi alle femmine; elle strillano, dànnosi a fuggire, e si contorcono con mal garbo. Il mariuolo n’ha le beffe e ’l danno. Temo forte che nol prenda il ghiribizzo di uscire del seminato: nè io potrei in veruna guisa comportarlo. Rendimi pertanto la verga, ch’io ne lo caccio alla malora.
Pluto. (E’ non prevede qual minaccia v’abbia qui fuora.) Lascia che impazzi costui a posta sua, e di corto non avrà come spacciare codeste mariolerie. Potente è la legge, ma lo è mille tanti la necessità.
Tumulto e canto. La brigata silvestre accorre dalle alture de’ monti, e dal fondo delle boscaglie, e nulla a’ suoi passi fa intoppo. Festeggiano il grande lor dio, Pane: ciò ch’altri ignora, e’ lo sanno; e precipitando nel cerchio vuoto, lo invadono.
Pluto. Piena contezza ho di voi, ed insieme del vostro grande iddio, Pane; le belle prove che insieme con lui avete fatte! Io so a menadito quello che all’intero mondo è celato, e di buon grado per entro allo stretto cerchio vi accolgo. Abbiatevi ora e sempre la buona ventura! Di qual sia mirabile novità ponno far senza; vanno e vanno, ignari del dove; e’ son ben poco avveduti.
Canto selvaggio. Genía inbellettata, bisanti abbicati! e’ son veri bruti, imbestialiti, arditi nel salto, nel correre focosi; eccoli dal primo al sezzaio prodi tutti e gagliardi.
I Fauni. La schiera de’ Fauni si nota per lubri che danze, e mostra ghirlandati di quercia i crespi capegli, orecchie sottili ed aguzze che fuori spuntano dalle ciocche, un nasello rincagnato, larghe le guance e la fronte, cose tolte che punto non nuocono ad acquistar favore appo le donne. Se avvenga in fatti che un Fauno sporga verso loro la zampa, qual è più avvenente non sa fare la schifiltosa.
Un Satiro. Il Satiro in coda a tutti salta e fa capriole. Al Satiro che ha il piè caprigno, asciutti e sottili gli stinchi, convengono membra scarne e nerbose. Sembiante a’ camosci, su pe’ greppi scoscesi prende vaghezza di spignere il guardo a’ quattro venti, e rinfocolato dal libero aere, sogghigna al fanciullo, all’uomo, e alla femmina che laggiù, laggiù fra i densi vapori della valle si stimano bonariamente di gustare anch’essi la vita, intanto che a lui schietto e spensierato a lui solo s’appartiene colassù intero il mondo.
I Gnomi. Mirale inoltrarsi a saltèrelli il minuto gregge de’ Pigmei, cui non garba l’andare coppia per coppia. Da capo a’ piè coverti di muschio, con leggieri lanternini, vanno a dritta e a stanca dondolandosi, ciascuno secondo gli talenta, levando in torno un brulichio quasi di uno stormo di lucciole: e in cotal foggia continuo sguizzano per di qua per di là, a sghembo e a zigzag.
Di stretto parentado co’ pii tesori, accreditati per valenti flebotomi del granito, noi penetriamo nelle erte montagne, aprendone le capaci lor vene. Noi rimestiamo i metalli, e ne dà lena al travaglio lo spesso gridare: Fortuna aiutaci! fortuna aiutaci! e le son voci che ci partono proprio dal cuore, però che amici siam noi della gente dabbene. Ciò malgrado, noi pognamo l’oro alla luce del Sole, l’oro pe’ ghiotti ladroni, e pe’ lerci mezzani, e vegliamo solerti che mai ferro non manchi all’uomo borioso ed altero, che alle uccisioni e agli assassinii seppe inventar mille vie. Chi i tre comandamenti ha in dispregio, poco o nulla d’ogni altro si dà fastidio. Ma di questo non siamo da incolpar noi; quindi è che vi toccherà, come far sogliono i Gnomi, prendere ciò in santa pace.
I Giganti. Uomini selvaggi altri suole appellarne — quali ci siamo è troppo ben saputo su pe’ balzi dell’Harz. Nudi le membra, come al prisco tempo gagliardi, stampiamo le orme attruppati insieme, quai giganti di fatto. Un troncone d’abete nella destra mano, una larga e grossolana zona che ne cinge i lombi, un rozzo grembiule di rami e di fogliami, ci dà per buone guardie da infischiarne non ch’altro quelle del Papa.
UN CORO DI NINFE. Circondano esse il gran dio Pane.
Ei viene! Viene ei pure il sublime Pane che ci è simbolo dell’intero universo. O voi, che in leggiadria non avete chi vi pareggi, attorneatelo, intrecciando per lui le vostre festevoli carote; poi ch’egli, quanto grave, buono altrettanto, si piace dell’altrui giovialità. Sotto la volta azzurrina de’ cieli, gli è sempre mai in veglia; ei rivoletti lo beano col loro mormorìo, e la brezza lo culla in un placido riposo: come poi sul meriggio vien côlto da lieve sopore, cessano le fronde di tremolare da’ rami; l’odore balsamico delle rigogliose pianticelle empie l’aere tacente; la Ninfa rompe a mezzo i suoi trastulli, e là dov’ella giace s’addorme. Che se la potente sua voce d’improvviso risuona, a guisa di tuono che mugoli, o di mare che frema, niun sa più da qual parte si volga, le poderose armate si sbandano, e qual sia prode nello scompiglio allibbisce. Si faccia dunque plauso a chi per debito s’appartiene! Salve a colui che n’ebbe quivi raccolto!
DEPUTAZIONE DI GNOMI. Al gran dio Pane.
Se il bene splendido e supremo discorre per le vene del granito, e i suoi ricettacoli non iscopre altrimenti che al magico potere della bacchella divinatoria,
Noi, nelle buie grotte, ci fabbrichiamo le nostre case da Trogloditi, e tu, sotto al vivo raggio del Sole, spandi a piene mani i tesori.
Eccone apparecchiati ad iscoprire qui presso una portentosa scaturigine che impromette di dare, senza travaglio anche menomo, quanto appena può darne la più venturosa conquista.
Frattanto sta solo in te il condurre a buon termine la faccenda; abbila, signor mio, sotto la divina tua protezione! chè i tesori di ogni ragione divengono in mano a le retaggio dell’universo.
Pluto all’Araldo. Facciamo di contenerci con dignità, onde possa compiersi quanto vien preparandosi. Il tuo coraggio non fu mai che mancasse alla prova. Sta per accadere or ora tal cosa ond’avremo a provar raccapriccio; nè i contemporanei nè i posteri le daran fede: tu la segnerai per altro punto per punto ne’ tuoi protocolli.
L’Araldo, prendendo la verga che ha in mano Pluto. I nani traggono passo passo il gran dio Pane vicino alla sorgente del fuoco. Zampilla questa gorgogliando dal fondo, e poi nel vortice si riversa, e buio rimane il baratro spalancato; il bollimento acceso e fumante va tuttavia ondeggiando. Il gran dio Pane tiensi ivi ritto ilare in volto, e a quel portento va in visibilio. Una spuma di perle scaturisce da tutte parti. Quale stima puossi mai fare di enti siffatti? Curvasi egli basso basso colla persona a riguardare; — ma ecco cadergli dentro la barba. — Chi fia cotestui col mento raso? La sua mano lo cela a’ nostri occhi. — Sopravviene una grave fatalità, che divampa la barba, e ratto una corrente di fuoco s’appicca alla corona, al capo ed al petto: tutto va in fiamme, e il tripudio si tramuta in ispasimo. — Gittasi il corteo a spegnere l’incendio, ma non pur uno ne va salvo; e quanto più affannasi ognun d’essi, e dibattesi, tanto più s’addoppia e si avviva la fiamma. Ravviluppato per entro al cocente elemento, intero un gruppo di maschere abbrustola e riarde. Ma che odo io mai? Che novella corre d’orecchio in orecchio, di bocca in bocca? Oh notte in perpetuo deplorabile, quanti mali n’hai tu arrecati! Il giorno di domani s’udrà proclamare quello cui nullo vorrebbe intendere. Mi venne udito a gridare da ogni parte essere lo stesso Imperatore quegli che patisce così acerbo tormento. Oh! fosse tutt’altro il vero, non questo! L’Imperatore arde co’ suoi. — Maledizione a chi lo indusse a ravvilupparsi in drappi resinosi, e trarsi qui a far baccano se aveane da venire uno struggimento generale! Gioventù! gioventù! Or quando porrai tu modo alla tua gioia sventata! Oh grandi! oh grandi! quando fia dunque che ne’ vostri atti vadano d’accordo la ragionevolezza e il potere che vi è dato da esercitare!
E già le sale son tutte in fiamme, che salgono voraci e pronte sino a lambire le travi del tetto; un incendio totale ne minaccia. La desolazione e al colmo: chi fia che ne salvi non so. Tutto stanotte va a riuscire un mucchio di cenere; e domani ogni imperiale magnificenza vedrassi in nulla ridotta.
Pluto. Fine allo spavento oggimai! e movasi tosto in soccorso de’ tapinelli. — Segreta virtù di codesta verga, batti contro al suolo, e si scota tutto e rimbombi! E tu, interminabile distesa dell’aere, l’empi al mio cenno di aure tepide vaporose! Qua, qua vi voglio, o dense nebbie! qua, o nuvoloni pregni di umori! riversatevi pronti sovra cotesta combustione ruinosa! gocciate, spruzzate, annaffiate, o nuvolette, enfiatevi, e spandete una mite acquolina; adopratevi a spegnere il fuoco da ogni parte! voi calmanti, voi umidi, cangiate in un temporale codesto scherzo vano di fiamme! Quando gli Spiriti minacciano di insorgere a nostro danno, non dè’ la Magia starsene colle mani alla cintola.
Note
- ↑ Teofrasto, il filosofo di Lesbo, l’alunno di Platone e di Aristotele, l’autore dei Caratteri, che ci lasciò pure una Storia Naturale delle piante.
- ↑ Cloto tiene la conocchia, Lachesi il filo, Atropo le cesoie. Ma in queste strofe cantate dalle Parche, Goethe inverte i loro uffizi rispettivi, senza dubbio per cagione della mascherata. Cloto ha prese le fatali cesoie di Atropo, e le ha chiuse nell’astuccio per alquanti giorni; la vecchia fila in quel frattempo, e Lachesi ordina il lavoro.
- ↑ Zoilo, quel Greco tanto famigerato per le maligne sue censure de’ capolavori di Platone e d’Omero; Tersite, quel gobbo tristo e schifoso di cui si fa menzione nell’XI libro dell’Iliade. Detestava egli Achille, Ulisse ed Agamennone; provocava temerariamente il Capo dell’esercito, e sempre consigliava la ritirata. Ulisse un dì l’ebbe collo scettro percosso sino a farlo piangere. Egli terminò i suoi giorni per mano di Achille; morto che fu venne dagli Dei trasformato in ranocchia schifosa. Platone opina che l’anima di lui entrasse in corpo ad una scimmia. (Plato, de Republica, lib. X.) Tale è la coppia graziosa cui ci offre Goethe riunita in un solo individuo, chiamandolo Zoilo-Tersite: basta il nome questa fiata, perchè si conosca di che natura sia cotesto personaggio.
- ↑ Hanswurst, fantoccio delle farse alemanne. L’Avarizia con occhi infossati e membra scarne, addopata al carro dove sta contegnoso sovra cuscini di porpora il paffuto Dio dell’oro, è un altro di quei chiaroscuri che vanno a genio a Goethe, da’ quali noi’l vedemmo già trarre sì grandiosi effetti. Alla calma imponente, alla serenità maestosa e solenne della Ricchezza personificata in Pluto, dio che ha sì florido il volto, barba spessa e morbida, parlare autorevole e solenne, contrapposto il macero e livido ceffo, la travolta guardatura, e le facezie ignobili e sguaiate dell’Avarizia. Non v’ha egli forse alcun che di Mefistofele, in codesto macilente beffardo, il quale a guisa di pagliaccio del dio Pluto, fa la sua comparsa in coda alla mascherata, als Folie des Ganzen, per valermi di una espressione famigliare degli Alemanni? Oltre ciò, quel suo tenersi dietro a Fausto lo denota abbastanza. (Mefistofele non si scosta di un passo dal compagno, e Pluto quivi altro non è che Fausto, Fausto che oro impromette e ricchezze all’imperatore, quel gran TUTTO delle età di mezzo, il dio Πάν) Lo indovini senza meno alle sue velleità di una lussuria brutale a un tempo e grottesca. Vero è che la Avarizia, in quanto peccato capitale, è cosa da inferno, e però mostra col diavolo un tuono di famiglia che può agevolmente farci prendere abbaglio.