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parte seconda. 237

guidare le tue quattro focose cavalle? Non le ebb’io con maestria e giusta il voler tuo maneggiate? Non son io forse là dove tu mi volesti? Non seppi io dunque, con ratti vanni, conquistarti la palma? Quante fiate ebbi a combattere per te, non fu’io sempre il vincitore? Gli allori ond’hai cinte le tempia, chi mai li intrecciava se non fu l’ingegno mio, la mia mano?

Pluto. Se occorre ch’io l’attesti, farollo di buon grado. Tu se’ lo spirito del mio spirito, ed operi in ogni tempo a seconda del mio volere: tu, più ricco ch’io medesimo non mi sia; ed io, per riconoscere i tuoi servigi, codesta verdeggiante fronda a qualsia corona antepongo. E qui, in faccia a tuti io proclamo te dall’intimo del cuore, figliuolo mio prediletto, che al postutto mi rendi pago e soddisfatto.

Il Fanciullo, alla calca. I più ricchi doni furono — voi lo vedeste — profusi all’intorno per questa mano. Qui e colà mi si parano delle fronti su cui divampa una fiammella ch’io v’ebbi accesa. Essa da questo a quello trascorre, all’uno s’appicca, dall’altro si dilegua: di rado ergesi luccicante, e mette vivido splendore nella fugace sua apparenza; ma v’ha più d’uno nel quale, prima ancora che si levasse il sospetto di cotal lume, e’ si spegne, miseramente consunto.

Cicaleccio di femmine. Quel barbassoro, ritto in piè sul carro, gli è di fermo un cantambanco. Dietro a lui, tiensi rannicchiato Hanswurst,1 ma per fame

  1. Hanswurst, fantoccio delle farse alemanne. L’Avarizia con occhi infossati e membra scarne, addopata al carro dove sta contegnoso sovra cuscini di porpora il paffuto Dio dell’oro, è un altro di quei chiaroscuri che vanno a genio a Goethe,