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parte seconda. 239

ch’io provo per l’oro cresce intanto a mille doppi, ed io mi nomino adesso l’Avaro al mascolino.

Una fra le Donne. Alla malora il dragone e’ suoi pari; chè, a dirla, tutto questo non è altro che marcia giunteria e menzogna! Ei viene ad aizzare gli uomini, quasi non fossero eglino senza ciò fastidiosi abbastanza.

Le Donne tutte insieme. Brutto pagliaccio! Dàlli d’un manrovescio in sul viso! Or non vien egli a minacciarne quella bestia da soma? Gran paura, per dio! che ne danno le sue smorfie! Che altro sono a fin di conto i suoi dragoni, se non legno e carta incollata? Anino! Suvvia! gittiamoci addosso a questo laido carcame.

L’Araldo. Acchetatevi, olà! o il mio bastone.... — Ma a che mi affanno? mira come i furiosi mostri, pigliando il largo nello spazio, tendono le sterminate loro ale! e fuor delle canne scagliose imbizzarriti i dragoni eruttano fiamme. La moltitudine fugge, vuota è la piazza. (Pluto scende dal carro.)

L’Araldo. Egli s’avanza; qual maestà regale! Accenna, e i dragoni si dimenano: traggono essi giù del carro il forziere stivalo di ghiotto oro — Eccolo a’ pie’ di lui — come ciò abbia potuto succedere, qui sta il prodigio.

Pluto, al Fanciullo. Eccoli spacciato del pesante fardello, e in piena libertà; oggimai puoi avviarli alla tua sfera! Essa non è certo qui, dove, fra il trambusto e le strida, i fantasimi grotteschi ne assediano. E però vattene colà dove — tu puro — vai rapito nella schietta e serena purezza: colà dove tu se’ donno di te medesimo, dove non hai fede che in te; colag-