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parte seconda. 225

quanto abbiasene talento e non più. — A che fine poi tutto questo? — E’ converrebbe che il fuoco — lo stesso fuoco del cielo — piovesse giù a torrenti — ove non si rinvenissero fascine — e carbone — da colmarne l’atrio, onde cavarne la fiamma. — Il fuoco scoppietta la braciuola arrostisce la minestra gorgoglia — il vitello cuoce; — e il verace ghiottone — il parassito — sente l’odore dell’arrosto — fiuta il pesce — e fa cuore e gongola — pel desinare del cliente.

Un uomo avvinazzato e fuor di senno. Nessuno oggi osi farmi il broncio; — sentomi così destro e gagliardo! — l’aere aperto e fresco, allegri ritornelli — son io proprio che gli spiattello, e cionco, e cionco. — Beete voi altri, tin, tin, tin. — Ehi! quel messere colaggiù; ehi, dico, vien qua, tocchiamo insieme, ed è finita.

La mia donnetta s’inviperiva — e faceva in brani questo mio gaio vestito; — e però ch’io me n’andava pettoruto, ella a suonare alla distesa chiamandomi baggeo e peggio; — ma io cionco, e cionco, e cionco; — chè i bicchieri urtati tintinnano, tin, tin. — Voi altri baggei, beete, su via; quando i bicchieri tintinnano, è finita.

Chi susurra ch’io vo fuor del seminato? Mainò! ch’io so troppo ben quel che dico. Or se l’oste nega darmi a credenza, dàmmene, per fede mia, l’ostessa! stia pur questa salda, e n’avrò allora dalla fante. E sempre io cionco, io cionco, io cionco! Animo, voi altri, tin, tin, tin! Tocchiamo l’un l’altro, e via e via. Egli mi pare d’aver detto ogni cosa.

In qual luogo me la goda, e come, non cale;