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parte seconda. 234

Il Fanciullo. E quegli, che, simbolo direbbesi della magnificenza, sta, come re in trono, sul carro?

L’Araldo. E’ sembra monarca grazioso e potente. Beato chi vale a meritarne il favore! che altro avrebb’egli più a desiderare? Il suo sguardo antivede il bisogno del tapinello, e la schietta gioia ch’ei nel dare assapora avanza di gran lunga ogni possesso, ed ogni stragrande felicità.

Il Fanciullo. Non dèi ristringerli a questo; pensa che ogni cosa hai da descrivere appunto appunto.

L’Araldo. La dignità è indescrivibile; ma la cera frescoccia e larga a mo’ luna piena, le guance pienotte e serene che risaltano di sotto al turbante, lo sfarzoso panneggiamento della veste! che dir poi del contegno? al postutto e’ mi pare di travedere in lui un sovrano.

Il Fanciullo. Questi è Pluto, dio della ricchezza, trattosi costà in tutta gala, chè il grande imperatore ne lo chiama co’ più ardenti suoi voti.

L’Araldo. Or dinne ancora, sul conto tuo, chi e quale tu sia.

Il Fanciullo. Io sono la Prodigalità, sono la Poesia, sono il Vate che s’appaga scialacquando quant’ha. Ed io non meno sono ricco sfondolato, e non la cedo per nulla a Pluto. Io do anima e brio a’ suoi balli, a’ suoi conviti; di ciò che a lui manca, lo regalo io a larga mano.

L’Araldo. Millantatore tu se’ per eccellenza: ma vediamo ora un poco quanto valga ne’ fatti.

Il Fanciullo. Mirate! solo ch’io faccia scoppiellare le dita, e lampi e fulgori scintillano di tratto