Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/234

226 fausto.

mi si lasci pigliar sonno dove sto coricato, dacchè i miei piedi non sanno più tenermi diritto.

Il Coro. Ciascuno di noi cionchi e cionchi. Un brindisi spiritoso, tin, tin, tin. Tenetevi saldi sul banco o sullo scannello. Per chi rotola giù sotto la tavola, è finita.

L’Araldo. Annunzia poeti d’ogni ragione, poeti della Natura, poeti cortigiani e cavallereschi, entusiasti gli uni, sdolcinati e teneri gli altri. In questo baccano di competitori questo a quello divieta il farsi conoscere; o soltanto un di loro proferisce poche parole in passando.

Un Satirico. Volete voi sapere di qual cosa proverei maggior gusto nel mondo, io poeta? La sarebbe quella di cantare e ricantare ciò che nessuno avrebbe talento di ascoltare. (I poeti della notte e quelli de’ cimiteri mandano a fare le loro scuse, adducendo di essere occupati in un colloquio di sommo interesse con un vampiro di fresco risuscitato, colloquio dal quale potrebbe risultarne una poetica tutta nuova: e l’Araldo, costretto a menar loro buone tali scuse, evoca infrattanto la greca mitologia, che sotto la maschera moderna non è punto meno graziosa, e nulla perde dell’antico suo carattere).

Le GRAZIE.

Aglaia. Noi rechiamo la grazia nella vita, e voi graziosi mostratevi nel donare.

Egemone. Graziosi mostratevi nel ricevere: il compimento de’ nostri voti è dolce cotanto!

Eufrosine. E fino al termine de’ vostri giorni