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242 fausto.

pegno dell’ordine avuto, farò un nuovo cerchio invisibile.

L’Araldo. Opera splendida hai fatto, ed io me ne professo, quanto so meglio, obbligato alla saggia tua possanza.

Pluto. Tutto non è ancora finito, amico mio; sostieni un altro po’, chè novelli tumulti ne minacciano.

L’Avaro. Per poco che vi si ponga mente, in osservando codesto cerchio, èvvi da pigliarne gusto, chè le femmine trovansi mai sempre in prima fila, quantunque volte sia vi da spiare, o da buscarsi alcuna bagattelluccia. Quanto a me, non son io ancora ridotto al punto di romperla; una bella donnina è bella pur sempre; e da poi che non ci ho la spesa di un quattrinello, voglio godermela a macca. Siccome però, qui dov’è sì gran pressa, non tutte le parole possono avere buona ventura, vo’ ingegnarmi — nė dispero di riescirvi — d’esprimere colla massima cautela chiaramente il fatto mio colla pantomima: e dove fossero da meno la mano, il piede e il dimenar delle braccia, mancano forse scaltrimenti da mettere in campo? Io non varrommi dell’oro, a mo’ di umida argilla, chè siffatto metallo in checchè l’aggrada si cangia?

L’Araldo. Che vien ora farneticando questa nummia imbecille? Il sordido allupato vorrebbe farci qui il bell’amore? Vedilo, come tutto l’oro in pasta rimuta: ch’esso in mano a lui fassi molliccio. Come lo indurisce, come lo volta e rivolta! e sempre mai mantenendolo sotto l’ignobile apparenza che gli ebbe data. Ed eccolo volgersi alle femmine; elle strillano,