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rimesto io ed appronto pe’ traditori daga e pugnale. Lègati pur quanto sai a’ tuoi pari, chè tardi o tosto ha da penetrarti nelle ossa la disperazione.

Forza è che il mèle cangisi di tratto in fiele ed assenzio; qui non riguardi, non compassione vuol essere: l’ha fatta, l’ha da pagare.

Perdono!! — chiacchiere; sfogo la mia passione alle rupi, e l’eco — odi! — risponde: Vendetta! E chi è mutevole e vario, non de’ rimanere in vita.

L’Araldo. Piacciavi ora tirarvi un po’ da canto, chè tale si appressa col quale nulla avete di somigliante. Ecco venirne una montagna, il cui dorso orgoglioso s’ammanta di screziali tappeti, e la cui testa è munita di lunghe armi da difesa, e di una tromba che si attorce e disnoda a sembianza di serpe. Ed eccovi spianato il mistero. Sedutale in sulla nuca, una femmina graziosa e dilicata la dirige destramente per mezzo di sottile bacchetta, intanto che un’altra, tenendo il luogo più elevato, maestosa e superba, mostrasi cinta di una magnificenza che abbarbaglia. Camminano di costa due nobili matrone in ceppi, quale inquieta, quale gaia e festevole; struggesi quella per desiderio, questa si tien libera e sciolta da tutte cure. Manifesti ora ciascuna di esse chi sia.

La Tema. I doppieri fumanti, le lampane, le faci tremolano di mezzo al subuglio della festa: ma tra codeste ingannevoli apparenze la mia catena, ohimė lassa! più mi costringe.

Via di qua, voi, sghignazzatori degni di risa! le vostre smorfie rinfocano i miei sospetti. Quanti sono i miei antagonisti, m’assediano tutti e mi cingono stanotte.