Canzoni (1824)/Annotazioni

Annotazioni

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Alla sua Donna

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ANNOTAZIONI

Non credere, lettor mio, che in queste Annotazioni si contenga cosa di rilievo. Anzi se tu sei di quelli ch’io desidero per lettori, fa conto che il libro sia finito, e lasciami qui solo co’ pedagoghi a sfoderar testi e citazioni, e menare a tondo la clava d’Ercole, cioè l’autorità, per dare a vedere che anch’io così di passata ho letto qualche buono scrittore italiano, ho studiato tanto o quanto la lingua nella quale scrivo, e mi sono informato all’ingrosso delle sue condizioni. Vedi, caro lettore, che oggi in Italia, per quello che spetta alla lingua, pochissimi sanno scrivere, e moltissimi non lasciano che si scriva; nè fra gli antichi o i moderni fu mai lingua nessuna civile nè barbara così tribolata a un medesimo tempo dalla rarità di quelli che sanno, e dalla moltitudine e petulanza di quelli che non sapendo niente, vogliono che la favella non si possa stendere più là di quel niente. Co’ quali, per questa volta e [p. 128 modifica] non più, bisogna che mi dii licenza di fare alle pugna come s’usa in Inghilterra, e di chiarirli (sebbene, essendo uomo, non mi reputo immune dallo sbagliare) che non soglio scrivere affatto affatto come viene, e che in tutti i modi non sarà loro così facile come si pensano, il mostrarmi caduto in errore.


CANZONE PRIMA


Stanza IV, verso 10. Vedi ingombrar de’ vinti
                                      La fuga i carri e le tende cadute.


Cioè trattenere, contrastare, impacciare, impedire. Questo sentimento della voce ingombrare ha due testi nel Vocabolario della Crusca; ma quando non ti paressero chiari, accompagnali con quest’altro esempio, ch’è del Petrarca1: Quel sì pensoso è Ulisse, affabil ombra, Che la casta mogliera aspetta e prega; Ma Circe amando GLIEL ritiene e ’NGOMBRA. Dietro a questo puoi notare il seguente, ch’è d’Angelo di Costanzo2. Che quel chiaro splendor ch’offusca [p. 129 modifica] e INGOMBRA, Quando vi mira, OGNI più acuto ASPETTO (cioè vista), D’un’alta nube la mia mente adombra. Ed altri molti ne troverai della medesima forma leggendo i buoni scrittori, e vedrai come anche si dice ingombro nel significato d’impedimento o di ostacolo; e se la Crusca non s’accorse di questo particolare, o non fu da tanto di spiegarlo, tal sia di lei.

Ivi 12. E correr fra’ primieri
                 pallido e scapigliato esso tiranno.

Del qual tiranno il nostro Simonide avanti a questo passo non ha fatto menzione alcuna. Il volgarizzatore antico dell’Epistola di Marco Tullio Cicerone a Quinto suo fratello intorno al proconsolato dell’Asia3: Avvegach’io non dubitassi che questa epistola molti messi, ed eziandio ESSA FAMA colla sua velocità vincerebbono. Queste sono le primissime parole dell’Epistola. Similmente lo Speroni4 dice che amor [p. 130 modifica]vince essa natura volendo dir fino alla natura.

Ivi, 14. Ve’ come infusi e tinti,
               Del barbarico sangue.

Infusi qui vale aspersi o bagnati. Il Casa5: E ben conviene Or penitenzia e duol l’anima lave De’ color atri e del terrestre limo OND’ella è per mia colpa INFUSA e grave. Sopra le quali parole i comentatori adducono quello che dice lo stesso Casa in altro luogo6: Poco il mondo già mai t’infuse o tinse, Trifon, nell’atro: suo limo terreno. Ho anche un esempio simile a questi del Casa nell’Oreficeria di Benvenuto Cellini7, ma non lo tocco per rispetto d’una lordura che gli è appiccata e non va via.

Ivi, 18. Evviva evviva.

L’acclamazione Viva è portata nel Vocabolario della Crusca, ma non evviva. E ciò non ostante io credo che tutta l’Italia, [p. 131 modifica] quando fa plauso, dica piuttosto evviva che Viva; e quello non è vocabolo forestiero ma tutto quanto nostrale, e composto, come sono infiniti altri, d’una particella o vogliamo interiezione italiana, e d’una parola italiana, a cui l’accento della detta particella o interiezione monosillaba raddoppia la prima consonante. Questo è quanto alla purità della voce. Quanto alla convenienza, potranno essere alcuni che non lodino l’uso di questa parola in un poema lirico. Io non ho animo d’entrare in quello che tocca alla ragion poetica o dello stile o dei sentimenti di queste Canzoni, perchè la povera poesia mi par degna che, se non altro, se l’abbia questo rispetto di farla franca dalle chiose. E però taccio che laddove s’ha da esprimere la somma veemenza di qualsivoglia affetto, i vocaboli o modi volgari e correnti, non dico hanno luogo, ma, quando sieno adoperati con giudizio, stanno molto meglio dei nobili e sontuosi, e danno molta più forza all’imitazione. Passo eziandio che in tali occorrenze i principali maestri (fossero poeti o prosatori) costumarono di scendere dignitosamente dalla [p. 132 modifica] stessa dignità, volendo accostarsi più che potessero alla natura, la quale non sa e non vuole stare nè sul grave ne sull’attillato quando è stretta dalla passione. E finalmente non voglio dire che se cercherai le Poetiche e Rettoriche antiche o moderne, troverai questa pratica, non solamente concessa nè commendata, ma numerata fra gli accorgimenti necessari al buono scrittore. Lascio tutto questo, e metto mano all’arme fatata dell’esempio. Che cosa pensiamo noi che fosse quell’io che trovianlo in Orazio due volte nell’Ode seconda del quarto libro8, e due nella nona del Epodo9? Parola, anzi grido popolare, che non indeterminatamente l’applauso (come il nostro Viva), o pure la gioia: la quale per essere la più rara e breve delle passioni, è fors’anche la più frenetica; e per questo e per altri molti rispetti, che non si possono dare ad intendere ai pedagoghi, mette la dignità dell’imitazione in grandissimo pericolo. [p. 133 modifica] E i Greci, ai quali altresì fu comune la detta voce, l’adoperavano fino coi cani per lusingarli e incitarli, come puoi vedere in Senofonte nel libro della Caccia10. E nondimeno Orazio, poeta coltissimo e nobilissimo, e così di stile come di lingua ritiratissimo dal popolo, volendo rappresentare l’ebbrietà della gioia, non si sdegnò di quella voce nelle canzoni di soggetto più magnifico.

CANZONE SECONDA


Ivi, 1. Voi spirerà Fallissimo subbietto.

Io credo che s’altri può essere spirato da qualche persona o cosa (come i santi uomini dallo Spirito Santo11), ci debbano esser cose e persone che lo possano spirare; e tanto più che non mancano di quelle che lo ispirano; sebbene il Vocabolario non le conobbe; ma te ne possono mostrare il Petrarca, il Tasso, il Guarini e mille altri. Dice il Petrarca12 in proposito di Laura: [p. 134 modifica] Amor L’INSPIRI In guisa che sospiri. Dice il Tasso13: Buona pezza è, signor, che in se raggira Un non so che d’insolito e d’audace La mia mente inquieta: o DIO L’INSPIRA; O l’uom del suo voler suo dio si face. Ed altrove14: Guelfo ti pregherà (DIO sì L’INSPIRA) Ch’assolva, il fier garzon di quell’errore. Dice il Guarini15: Chè bene INSPIRA IL CIELO QUEL COR che bene spera. Aggiungi le Vite dei santi Padri. Il giovane ispirato da Dio16, Antonio inspirato da Dio17, uno sceleratissimo uomo inspirato da Dio18, e simili. Anche i versi infrascritti convengono a questo proposito, i quali sono del Guidi19. Vedrai come IL MIO SPIRTO ivi comparte Ordini e moti, e come INSPIRA e volve QUESTA grande ARMONIA che ’l mondo [p. 135 modifica] regge. E il Guidi fu annoverato dagli Accademici Fiorentini l’anno 1786 fra gli scrittori che sono o si debbono stimare autentici nella lingua.

VIII, 14. Qui l’ira al cor, qui la pietate abbonda.

Il Sannazzaro nell’egloga sesta dell’Arcadia20: E per L’IRA sfogar CH’AL CORE ABBONDAMI. Non credere ch’io vada imitando appostatamente, o che facendolo, me ne pregiassi e te ne volessi avvertire. Ma quest’esempio lo reco per quelli che dubitassero, e dubitando affermassero, com’è l’uso moderno in queste materie, che abbondare col terzo caso, nel modo che lo dico io, fosse detto fuor di regola. E so bene anche questo, che fra gl’Italiani è lode quello che fra gli altri è biasimo, anzi per l’ordinario (e singolarmente nelle lettere) si fa molta più stima delle cose imitate che delle trovate. In somma negli scrittori si ricerca la facoltà della memoria massimamente; e chi più n’ha e più n’adopera, beato lui. Ma [p. 136 modifica] contuttociò, se paresse a qualcuno ch’io non l’abbia adoperata quanto si richiedeva, non voglio che le annotazioni o la fagiolata che sto facendo mi levi nessuna parte di questo carico. Circa il resto poi, la voce abbondare importa di natura sua quasi lo stesso che traboccare, o in latino exundare; secondo il quale intendimento è presa in questo luogo della Canzone, e famigliare ai latini del buon tempo, e usata dal Boccaccio nell’ultimo de’ testi portati dal Vocabolario sotto la voce Abbondante.

X, 16. Al cui supremo danno
           Il vostro solo è tal che rassomigli.

Io credo che se una cosa può somigliare a un’altra, le debba potere anche rassomigliare, e parimente assomigliarle o assimigliarle, oltre a rassomigliarsele o assomigliarsele, o assimigliarsele; e tanto più che io trovo le viscere delle chiocciole terrestri, non rassomigliantisi, ma rassomiglianti a quelle de’ lumaconi ignudi terrestri21, e [p. 137 modifica] certi rettori assomiglianti a’ priori di Firenze22, e il cielo assimigliante quasi ad immagine d’arco23. Oltracciò vedo che le cose alcune volte risomigliano e risimigliano l’une all’altre.

XI, 13. Dimmi, nè mai rinverdirà quel mirto
             Che tu festi sollazzo al nostro male?

Io so che a certi, che non sono pedagoghi, non è piaciuto questo sollazzo: e tuttavia non me ne pento. Se guardiamo alla chiarezza, ognuno si deve accorgere a prima vista che il sollazzo de’ mali non può essere il trastullo nè il diporto nè lo spasso de’ mali, ma è quanto dire il sollievo, cioè quello che propriamente è significato dalla voce latina solatium, fatta dagl’Italiani sollazzo. Ora stando che si permetta, anzi spesse volte si richiegga allo scrittore, e massimamente al poeta lirico, la giudiziosa novità degli usi metaforici delle parole, molto più mi pare che di quando in quando se gli debba concedere quella novità che nasce dal restituire [p. 138 modifica] alle voci la significazione primitiva e propria loro. Aggiungasi che la nostra lingua, per quello ch’io possa affermare, non ha parola che oltre a valere quanto la sopraddetta latina, s’accomodi facilmente all’uso de’ poeti; fuori di conforto, che nè anche suona propriamente il medesimo. Perocchè sollievo e altre tali non sono voci poetiche, e alleggerimento, alleviamento, consolazione e simili appena si possono adattare in un verso. Fin qui mi basta aver detto a quelli che non sono pedanti e che non si contentarono di quel mio sollazzo. Ora voltandomi agli stessi pedagoghi, dico loro che sollazzo in sentimento di sollievo, cioè di solatium, è voce di quel secolo della nostra lingua ch’essi chiamano il buono e l’aureo. Leggano l’antico Volgarizzamento del primo trattato di san Giovanni Grisostomo sopra la Compunzione, a capitoli otto24. Ora veggiamo quello che séguita detto da Cristo: se forse in alcuno luogo o in alcuna cosa io trovassi SOLLAZZO, o rimedio DI TANTA [p. 139 modifica] CONFUSIONE. E ivi a due versi: Oimè, credevami trovare SOLLAZZO DELLA MIA CONFUSIONE, e io trovo accrescimento. Così a capitoli undici25. Tutta la pena che pativa (san Paolo), piuttosto riputava SOLLAZZO D’AMORE, che dolore di corpo. E nel capo susseguente26: Onde ne parlano spesso, acciocchè almeno per lo molto parlare di quello che amano, si scialino un poco e trovino SOLLAZZO e refrigerio DEL FERVENTE AMORE ch’hanno dentro. L’antica version latina in tutti questi luoghi ha solatium, o solatia. Veggano eziandio nello stesso Vocabolario della Crusca, sotto la voce Spiraglio, un esempio simile ai soprascritti, il qual esempio è cavato dal Volgarizzamento di non so che altro libro del medesimo san Grisostomo. E di più veggano, s’hanno voglia, nell’Asino d’oro del Firenzuola27 come le lagrime sono ultimo SOLLAZZO DELLE MISERIE de’ mortali. Anzi è costume dello scrittore nella [p. 140 modifica] detta opera28 di prendere la voce sollazzo in significato di sollievo, consolazione, conforto, ad esempio di quei del trecento, come anche fece il Bembo29 nel passo che segue. Messer Carlo mio, mio solo e caro fratello, unico sostegno e SOLLAZZO DELLA MIA VITA, se n’è al cielo ito.

XII, 10. Che stai?

La particella interrogativa che usata invece di perchè non ha esempio nel Vocabolario se non seguita dalla negativa non. Ma che anche senza questa si dica ottimamente, recherò le prime autorità che mi vengono alle mani, fra le innumerabili che si potrebbero addurre. Il Casa nell’Orazione a Carlo quinto30: CHE PARLO io degli uomini? Questa terra, sacra Maestà, e questi liti parea che avessono vaghezza o desiderio di farvisi allo ’ncontro. Il Caro nel Volgarizzamento del primo Sermone di San Cipriano [p. 141 modifica] sopra l’elemosina31: CHE VAI mettendo innanzi quest’ombre e queste bagattelle per iscusarti in vano?. Il Tasso nel quarto della Gerusalemme32: Ma CHE RINNOVO i miei dolor parlando?. E similmente in altri luoghi33. Il Varchi nel Boezio34: CHE STARÒ io a raccontarti i tuoi figliuoli stati Consoli? Ed altre volte35. Il Castiglione nel Cortegiano36: Come un litigante a cui in presenza del giudice dal suo avversario fu detto, CHE BAI tu? subito rispose, PERCHÈ veggo un ladro. — Il Davanzati nel primo libro degli Annali di Tacito37: CHE tanto UBBIDIRE, come schiavi, a quattro scalzi centurioni e meno tribuni?. Dove il testo originale dice: CUR paucis centurionibus, paucioribus tribuitis, in modum [p. 142 modifica]servorum OBEDIRENT? Aggiungi Bernardino Baldi, autore correttissimo nella lingua, e molto elegante: Ma CHE STIAMO Perdendo il tempo, e altrui biasmando insieme, Quando altro abbiam che fare?38? Ed altrove39: Ma CHE PERDIAMO il tempo, e non andiamo Ad impetrar da lei con quello che segue. Sia detto per incidenza che sebbene delle Egloghe di questo scrittore è conosciuta e riputata solamente quella che s’intitola Celeo o l’Orto, nondimeno tutte l’altre (che sono quindici, senza un Epitalamio che va con loro), e maggiormente la quinta, la duodecima e la decimaquarta, sono scritte con semplicità, candore e naturalezza tale, che in questa parte non le arrivano quelle del Sannazzaro nè qual altro si sia de’ nostri poemi pastorali, eccettuato l’Aminta e in parecchie scene il Pastor fido.

Ivi, 12. Altrice.

Credo che ti potrei portare non pochi [p. 143 modifica] esempi dell’uso di questa parola, pigliandoli da’ poeti moderni: ma, se non ti curi degli esempi moderni, e vuoi degli antichi, abbi pazienza ch’io li trovi, come spero, e in questo mezzo aiutati col seguente, ch’è del Guidiccioni40. Mira che giogo vil, che duolo amaro Preme or l’ALTRICE de’ famosi eroi.

Ivi, 13. Se di codardi è stanza,
             Meglio l’è rimaner vedova e sola.

Solo in forza di romito, disabitato, deserto non è del Vocabolario, ma è del Petrarca41. Tanto e più fien LE COSE oscure e SOLE Se morte gli occhi suoi chiude ed asconde. E del Poliziano42. In qualche RIPA SOLA E lontan da la gente (dice d’Orfeo) Si dolerà del suo crudo destino. E del Sannazzaro nel proemio dell’Arcadia. Per LI SOLI BOSCHI i salvatichi uccelli sovra i verdi rami cantando. E nel[p. 144 modifica]l’egloga undecima43. Piangete, VALLI abbandonate e SOLE. E del Bembo44. Parlo poi meco, e grido, e largo fiume Verso per gli occhi in qualche PARTE SOLA. E del Casa45. Ne i monti e per le SELVE oscure e SOLE. E del Varchi46. Dice per questa VALLE opaca e SOLA Tirinto. E del Tasso47. Per quella VIA ch’è più deserta e SOLA. È tolto ai Latini, fra’ quali Virgilio nella Favola d’Orfeo48: Te, dulcis coniux, te SOLO in LITORE secum, Te veniente die, te decedente canebat. E nel quinto dell’Eneide49: At procul in SOLA secretae Troades ACTA Amissum Anchisen flebant. Così anche nel sesto50: Ibant obscuri SOLA sub NOCTE per umbram. E Stazio nel quarto della Tebaide [p. 145 modifica]51: Ingentes infelix terra tumultus, Lucis adhuc medio, SOLAQUE in NOCTE per umbras, Exspirat.


CANZONE TERZA


I, v. 4. Incombe.

Questa ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, o molte forme di favellare adoperate in queste Canzoni, furono tratte, non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell’altro vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori o poeti (per non uscir dall’autorità), dal padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole e che fece ai loro bisogni o comodi, non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse o non fosse stato usato da’ più vecchi di loro. E chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario d’una lingua, si debbano [p. 146 modifica] intendere annullate senz’altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia nè vocabolario nè lingua nè altra cosa del mondo.

Ivi, 14. O con l’umano
              Valor contrasta il duro fato invano?

Il Casa nella prima delle Orazioni per la lega52: Nè io voglio di questo CONTRASTARE CON esso lui. E nell’altra53: Conciossiachè di tesoro non possa alcuno pur COL Re solo CONTRASTARE. Angelo di Costanzo nel centesimosecondo Sonetto: Accrescer sento e non già venir meno Il duol, nè posso far sì che CONTRASTI CON la sua forza o che a schernirsi basti Il cor del suo vorace aspro veneno. [p. 147 modifica]

IV, 3. A te cui fato aspira
           Benigno.

I vari usi del verbo aspirare cercali nei buoni scrittori latini e italiani; chè, se ti fiderai del Vocabolario della Crusca, giudicherai che questo verbo propriamente e unicamente significhi desiderare e pretendere di conseguire, laddove questa è forse la più lontana delle metafore che soglia patire il detto verbo. E ti farai maraviglia come Giusto de’ Conti54 pregasse Amore che gli affrancasse e aspirasse la lingua, e come il Molza55 dicesse che la fortuna aspirava lieto corso ad Annibal Caro, e il Rucellai che il sole aspira vapori caldi e che il vento aspira il freddo boreale56 e che l’orto aspira odor di fiori e d’erbe57, e come Remigio Fiorentino (avverti questo soprannome) scrivesse in figura di Fedra58: IL [p. 148 modifica] QUAL sì come acerbamente infiamma Il petto a me (parla d’Amore), così benigno e pio A tutti i voti tuoi cortese ASPIRI. E prima59 avea detto parimente d’Amore: Così BENIGNO A i miei bei voti ASPIRI. Similmente dice in persona di Paride60: Nè leve ASPIRA A l’alta impresa mia negletto NUME. E in persona di Leandro61: O benigna del ciel notturna LUCE (viene a dir la luna), Siami benigna ed AL mio nuoto ASPIRA. Così anche in altri luoghi62.

VI, 3. Quand’oltre a le colonne, ed oltre ai liti
           Cui strider parve in seno a l’onda il sole.

Di questa fama anticamente divulgata, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, s’udisse a stridere di mezzo al mare a guisa che fa un carbone o un ferro rovente che sia tuffato nell’acqua, sono da vedere il secondo libro di Cleomede63, [p. 149 modifica] il terzo di Strabone64, la quartadecima Satira di Giovenale65, il secondo libro delle Selve di Stazio66 e l’Epistola decimottava d’Ausonio67. E non tralascerò in questo proposito quello che dice Floro68, laddove accenna le imprese fitte da Decimo Bruto in Portogallo: Peragratoque victor Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodam sacrilegii metu et horrore, deprehendit. Vedi altresì le annotazioni degli eruditi sopra il quarantesimoquinto capo di Tacito delle Cose germaniche.

VII, 5. E del notturno
         Occulto sonno del maggior pianeta.

Mentre il più degli uomini ebbero poca o niun conoscimento della rotondità della terra, e dell’altre varie dottrine ch’. [p. 150 modifica] appartengono alla cosmografia, non sapendo quello che il sole nel tempo della notte operasse o patisse, fecero intorno a questo particolare molte e belle immaginazioni, secondo la vivacità e la freschezza di quella fantasia che oggidì non si può chiamare altrimenti che fanciullesca, ma pure in ciascun’altra età degli antichi poteva poco meno che nella puerizia. E s’alcuni s’immaginarono che il sole si spegnesse la sera e che la mattina si raccendesse, altri si persuasero che dal tramonto si posasse e dormisse fino all’aggiornare; e Mimnermo poeta greco antichissimo pone il letto del sole in un luogo della Colchide. Stesicoro69, Antimaco70, Eschilo71, ed esso Mimnermo72 più distintamente degli altri dice anche questo, che il sole dopo calato si pone a giacere in un letto concavo a uso di navicella, tutto d’oro, e così dormendo naviga per l’Oceano da ponente a levante. [p. 151 modifica] Pitea marsigliese, allegato da Gemino73 e da Cosma egiziano74, racconta di non so quali Barbari che mostrarono a esso Pitea la stanza dove il sole, secondo loro, s’adagiava a dormire. E il Petrarca s’avvicinò a queste tali opinioni volgari in quei versi:75 Quando vede ’l pastor calare i raggi Del gran pianeta al nido ov’egli alberga. Siccome in questi altri76 seguì la sentenza di quei filosofi che per via di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi: Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina Verso occidente, e che ’l dì nostro vola A gente che di là forse l’aspetta. Dove quel forse, che oggi non si potrebbe dire, è notabilissimo e poetichissimo, perocchè lasciava libero all’immaginazione di figurarsi a modo suo quella gente sconosciuta, o d’averla in tutto per favolosa; dal che si dee credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni [p. 152 modifica] vaghe e indeterminate che sono effetto principalissimo ed essenzialissimo delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze dei mondo. Ma, come ho detto, non mi voglio allargare in queste materie.

  IX, 12. Al tardo onore
        Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
        L’estrema ora ti fu. Morte domanda
        Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

S’ha rispetto alla congiuntura della morte del Tasso accaduta quando si disponeva d’incoronarlo in Campidoglio.

XI, 5. Polo.

È pigliato all’usanza latina per cielo. Ma il Vocabolario con questo senso non lo passa. Manco male che la Dafne del Rinuccini, per decreto dello stesso Vocabolario, fa testo nella lingua. Sentite dunque, signori pedagoghi, quello che dice il Rinuccini nella Dafne77: Non si nasconde in selva Sì dispietata belva, Nè su per l’alto POLO [p. 153 modifica] Spiega le penne a volo augel solingo, Nè per le piagge ondose Tra le fere squamose alberga core Che non senta d’Amore. Vi pare che questo polo sia l’artico, o l’antartico o quello della calamita, o l’una delle teste d’un perno e d’una sala da carrozze? Oh bene inghiottitevi questa focaccia soporifera da turarvi le tre gole che avete, e lasciate passare anche questo vocabolo


XII, 3. E morte lo scampò dal veder peggio.

Il Petrarca78: Altro schermo non trovo che MI SCAMPI DAL manifesto accorger de le genti. Il medesimo in altro luogo79: Questi in vecchiezza LA SCAMPÒ DA morte. Il Passavanti nello Specchio80: Si facesse beffe di colui che avesse saputo SCAMPAR LA vita e LE cose DALLA fortuna, e DA’ pericoli del mare. Il Guarini nell’argomento del Pastor Fido: Mentre si sforza per CAMPARLO DA morte di provare con [p. 154 modifica] sue ragioni ch’egli sia forestiero. Segno questi luoghi per ogni buon rispetto, avendo veduto che la Crusca non mette esempio nè di scampare nè di campare costruiti nell’uso attivo col sesto caso oltre il quarto.


CANZONE QUARTA


I, 1.         Poi che del patrio nido
        I silenzi lasciando,
        Te ne la polve de la vita e ’l suono
        Tragge il destin.

Questa e simili figure grammaticali, appartenenti all’uso de’ nostri gerondi, sono così famigliari e così proprie di tutti gli scrittori italiani de’ buoni secoli, che, volendole rimuovere, non passerebbe quasi foglio di scrittura antica dove non s’avesse a metter le mani. Puoi vedere il Torto e ’l Diritto del Non si può nel capitolo quinto, dove si dichiara in parte questa proprietà del nostro idioma: dico in parte e poveramente, a paragone ch’ella si poteva illustrare con infinita quantità e diversità d’esempi. E anche oggidì, non che tollerata, va custodita e [p. 155 modifica] favorita, considerando ch’ella spetta a quel genere di locuzioni e di modi, quanto più difformi dalla ragione tanto meglio conformi e corrispondenti alla natura, de’ quali abbonda il più sincero, gentile e squisito parlare italiano e greco. E siccome la natura non è manco universale che la ragione, così non dobbiamo pensare che questa e altre tali facoltà della nostra lingua producano oscurità, salvo che s’adoprino con avvertenza e naturalezza. Piuttosto è da temere che, se abbracceremo con troppa affezione l’esattezza matematica, e se la studieremo e ci sforzeremo di promuoverla sopra tutte le altre qualità del favellare, non riduciamo la lingua italiana in pelle e ossa, com’è ridotta la francese, e non sovvertiamo, e distrugghiamo affatto la sua proprietà: essendo che la proprietà di qualsivoglia lingua non tanto consista nelle nude parole e nelle frasi minute, quanto nelle facoltà e forme speciali d’essa lingua, e nella composizione della dicitura. Laonde possiamo scrivere barbaramente quando anche evitiamo qualunque menoma sillaba che non si possa accreditare con dieci o quindici testi classici [p. 156 modifica] (quello che oggi s’ha in conto di purità nello scrivere italiano); e per lo contrario possiamo avere o meritare opinione di scrittori castissimi, accettando o formando voci e frasi utili o necessarie, che non sieno registrate nel Vocabolario nè protette dall’autorità degli antichi.


III, 14. E di nervi e di polpe
             Scemo il valor natio.


L’aggettivo scemo, negli esempi che la Crusca ne riferisce, è detto assolutamente e non regge caso. Dunque segnerai nel margine del tuo Vocabolario questi altri quattro esempi: l’uno ch’è dell’Ariosto81 e dice così: Festi, barbar crudel, DEL capo SCEMO Il più ardito garzon che di sua etade con quello che segue. L’altro del Casa82: E ’mpoverita e SCEMA DEL suo pregio sovran la terra lassa. Il terzo dello Speroni nel Dialogo delle Lingue83: La quale SCEMA DI vigor naturale, non avendo virtù [p. 157 modifica] di fare del cibo sangue onde viva il suo corpo, quello in flemma converte. L’ultimo dello stesso nell’Orazione contro le cortigiane84: Che SCEMA essendo DI questa parte, sarebbe tronca e imperfetta.


CANZONE QUINTA


IV, 4. E pochi Soli
         Andranno forse.

Cioè pochi anni. Sole detto poeticamente per anno vedilo nel Vocabolario. E si dice tanto bene quanto chi dice luna in cambio di mese.


V, 3. Nostra colpa e fatal.

Cioè colpa nostra e del fato. Oggi s’usa comunemente in Italia di scrivere e dir fatale per dannoso o funesto alla maniera francese; e quelli che s’intendono della buona favella non vogliono che questo si possa fare. Nondimeno io lo trovo fatto dall’Alamanni nel secondo libro della Coltivazione. [p. 158 modifica] Non quello orrendo tuon, che s’assomiglia Al fero fulminar di Giove in alto, Di quell’arme FATAL che mostra aperto Quanto sia più d’ogni altro il secol nostro Già per mille cagion là su nemico85. Parla, come avrai capito, dell’arme da fuoco. E di nuovo nel quinto86. La FATAL bellezza Sopra l’onde a mirar Narcisso torna. Vero è che il poema della Coltivazione e l’altre opere scritte dall’Alamanni in Francia, come il Girone e l’Avarchide, sono macchiate di parecchi francesismi: e quel ch’è peggio, la detta Coltivazione ridonda maravigliosamente di rozzissime, sregolatissime e assurdissime costruzioni e forme d’ogni genere; tanto ch’ella è forse la più difficile e scabrosa poesia di quel secolo, non ostante la semplicità dello stile; che per verità non fu cercata dal buono Alamanni, anzi fuggita a più potere, benchè non gli riuscì di schivarla. Ma quelle medesime cagioni che da un lato produssero questi difetti (e che parimente generarono sui [p. 159 modifica] principii del cinquecento l’imperfezione della lingua e dello stile italiano), dall’altro lato arricchirono straordinariamente il predetto poema di voci, metafore, locuzioni, che quanto hanno d’ardire, tanto sono espressive e belle; e quante potrebbero giovare, non solamente agli usi poetici, ma eziandio gran parte di loro alla prosa, tanto in ogni modo sono tutte sconosciutissime al più degli scrittori presenti.


CANZONE SESTA


I, 1.      Poi che divelta, ne la tracia polve
         Giacque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
         Prepara.


Acciò che questa mutazione di Tempo non abbia a pregiudicare agli stomachi gentili de’ pedagoghi, la medicheremo con un pizzico d’autorità virgiliana. Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem Immeritam VISUM Superis, CECIDITQUE superbum Ilium et omnis humo FUMAT neptunia Troia; Diversa exsilia et desertas [p. 160 modifica] quaerere terras Auguriis AGIMUR Divum87. Irim de caelo MISIT saturnia Iuno Iliacam ad classem, ventosque ADSPIRAT eunti88. Ille intra tecta vocari IMPERAT, et solio medius CONSEDIT avito89. At non sic phrygius PENETRAT Lacedaemona pastor, Ledaeamque Helenam troianas VEXIT ad urbes90. Haec AIT, et liquidum ambrosiae DIFFUNDIT odorem, Quo totum nati corpus PERDUXIT91. Reco questi soli esempi dei mille e più che si potrebbero cavare dal solo Virgilio, accuratissimo e compitissimo sopra tutti i poeti del mondo.


II, 2. De le trepide larve.


Trepidus è quel che sarebbe tremolo o pure agitato, e trepidare latino è come tremolare o dibattersi. E perchè la paura fa che l’animale trema e s’agita, però le dette voci spesse volte s’adoperano a significazione [p. 161 modifica] della paura: non che dinotino la paura assolutamente nè di proprietà loro. E spessissime volte non hanno da far niente con questa passione, e quando s’appagano del senso proprio e quando anche non s’appagano. Ma la Crusca termina il significato di trepido in quello di timoroso. Va errata: e se non credi a me, che non son venuto al mondo fra il dugento e il seicento, e non ho messo i lattaiuoli, nè fatto a stacciabburatta in quel di Firenze, credi al Rucellai, ch’ebbe l’una e l’altra virtù: Allor92 concorron TREPIDE, e ciascuna Si mostra ne le belle armi lucenti,... e con voce alta e roca Chiaman la gente in lor linguaggio a l’arme. Questa è la paura dell’api trepide. E così la sentenza come la voce ritrassela il Rucellai da Virgilio93: Tum TREPIDAE inter se coeunt, pennisque coruscant,... magnisque vocant clamoribus hostem. Anche il testimonio dell’Ariosto, benchè l’Ariosto non fu toscano, potrebb’essere che fosse [p. 162 modifica] creduto. Ne la94 stagion che la frondosa vesta Vede levarsi e discoprir le membre TREPIDA pianta fin che nuda resta. Quanto poi tocca al verbo italiano trepidare, che la Crusca definisce similmente per aver paura, temere, paventare, venga di nuovo in campo a farla discredere il medesimo Rucellai: A te95 bisogna gli animi del vulgo, I TREPIDANTI petti e i moti loro Vedere innanzi al maneggiar de l’armi; cioè gli ondeggianti, inquieti, fremebondi petti. Anche questo è di Virgilio96: Continuoque animos vulgi et TREPIDANTIA bello Corda licet longe praesciscere. Venga fuori eziandio l’Alamanni: Egli97 stesso alla fin cruccioso prende LA TREPIDANTE INSEGNA, e ’n voci piene Di dispetto e d’onor, la porta e ’n mezzo Dell’inimiche schiere a forza passa. Cioè la barcollante o la tremolante insegna. E forse ch’ha paura anche il [p. 163 modifica] polso trepidante dalla febbre amorosa nel testo del Firenzuola98?


III, 1. E la ferrata
         Necessità.


Ferrata, cioè ferrea. Nel difendere questa sorta di favellare metterò più studio che nelle altre, come quella che non è combattuta da’ pedagoghi ma dal cavalier Monti, il quale99 dall’una parte biasima fra Bartolomeo da San Concordio che in un luogo degli Ammaestramenti dicesse ferrate a guisa di ferree, dall’altra i compilatori del Vocabolario che riportassero il detto luogo dove registrarono gli usi metaforici della voce ferrato. In quanto al Vocabolario, è certissimo che sbaglia, come poi si dirà. Ma il fatto del buono antico mi persuado che, oltre a scusarlo, si possa anche lodare. Primieramente la nostra lingua ha per usanza di mettere i participii, massimamente passivi, in luogo [p. 164 modifica] de’ nomi aggettivi (come praticarono i Latini), e per lo contrario i nomi aggettivi in luogo de’ participii; secondo che diciamo lodato o laudato per lodevole100 onorato per onorevole; fidato per fido, rosato in vece di roseo; e dall’altro canto affannoso per affannato, doloroso per dolorato, faticoso per affaticato101; o come quando si dice essere o aver pieno o ripieno o morto per essere o aver empiuto o riempito o ucciso. Anche diciamo ordinariamente essere o aver sazio, privo, quieto, fermo, netto, e mille altri, per essere o aver saziato, privato, quietato, fermato, nettato. Ma lascio questo, perchè possiamo credere che si faccia piuttosto per contrazione degli stessi participii che per surrogazione degli aggettivi. In sostanza ferrato detto per ferreo mi par ch’abbia tanto dell’italiano quanto n’ha rosato in cambio di roseo. Nel secondo luogo soggiungerò che, quantunque io non sappia di certo se i nostri poeti antichi e moderni, quando [p. 165 modifica] chiamarono e chiamano aurati, orati o dorati i raggi del sole102, i ricci delle belle donne103, gli strali d’Amore104 e cose tali, ed argentata o inargentata la luna105, i ruscelli106 o altro, volessero e vogliano intendere che quei raggi, quei ricci, quei dardi sieno inverniciati d’oro o che sieno d’oro massiccio, e che la luna e i ruscelli sieno incrostati d’argento o sieno fatti d’argento; so bene che il colore aurato del raspo d’uva107 e il color dorato del cotogno108 nell’Alamanni, e parimenti il colore arientato della luna in Francesco da Buti109, sono colori, quelli d’oro, e questo d’argento, [p. 166 modifica] e non vestiti dell’uno o dell’altro metallo, perchè non vedo che al colore, in quanto colore, se gli possa fare una camicia nè d’argento nè d’oro nè d’altra materia. Lo stesso dovremo intendere del color dorato che diciamo comunemente di certi cavalli, di certi vini, e dell’altre cose che l’hanno: e così lo chiamano anche i Francesi. Un cotal ponte che il Tasso chiama dorato, so certamente che fu d’oro, per testimonio del medesimo Tasso, che lo fabbricò del proprio. Ecco110 un ponte mirabile appariva, Un ricco ponte D’OR, che larghe strade Su gli archi stabilissimi gli offriva. Passa il DORATO varco; e quel giù cade. Oltre a questo so che l’aurata pellis di Catullo111 è propriamente il famoso vello d’oro, il quale se fosse stato indorato a bolo, a mordente o come si voglia, o ricamato d’oro, o fatto a uso delle tocche, non si moveva Giasone per andarlo a conquistare, e non era il primo a cacciarsi per forza in casa de’ pesci. E so che gli [p. 167 modifica] aurati vezzi112 che portava al collo quel giovanetto indiano descritto da Ovidio per galante e magnifico nell’ornamento della persona, sarebbe stata una miseria che non fossero d’oro solido; che la pioggia aurata di Claudiano113 è pioggia d’oro del finissimo; che l’asta aeratae cuspidis nelle Metamorfosi d’Ovidio114 è probabile ch’abbia la punta di rame o di ferro, e in ultimo che gli aerati nodi115, l’aeratae catenae116 e l’aerata pila117 di Properzio sono altresì di ferro o di rame. Posto dunque che sia ben detto aeratus in vece di aereus; auratus, ed aurato, orato o dorato in vece d’aureus e d’aureo; argentato o inargentato in vece d’argenteo; non potrà stare che ferrato in vece di ferreo sia detto male. Ed eccoti fra i latini Valerio Flacco nel sesto libro chiama ferrate certe immagini di ferro. ' [p. 168 modifica] Densique118 levant vexilla Coralli, Barbaricae queis signa rotae, FERRATAQUE dorso FORMA Suum. Lascio stare che dove nel terzo delle Georgiche119 si legge, Primaque ferratis praefigunt ora capistris, dice Servio che ferrati sta per duri: intende che sia metaforico, e salvo questo, viene a dire che sta per ferrei: sicchè o ragione o torto ch’egli abbia in questo luogo, mostra che a ferratus nel sentimento di ferreus non gli sa nè vizioso nè strano. Queste tali non sono metafore, cioè traslazioni, ma catacresi, o vogliamo dire, come in latino, abusioni: la qual figura differisce sostanzialmente dalla metafora in quanto la metafora trasportando la parola a soggetti nuovi e non propri, non le toglie per questo il significato proprio (eccetto se il metaforico a lungo andare non se lo mangia, connaturandosi col vocabolo), ma, come dire, gliel accoppia con un altro o con più d’uno, raddoppiando o moltiplicando l’idea rappresentata da essa parola. Dovechè la [p. 169 modifica] catacresi scaccia fuori il significato proprio e ne mette un altro in luogo suo; talmente che la parola in questa nuova condizione esprime un concetto solo come nell’antica, e se lo appropria immediatamente, per modo che tutta quanta ell’è, s’incorpora seco lui. Come interviene appunto nel caso nostro, che la voce ferrato importa onninamente ferreo, e chi dice ferreo, dice altrettanto, nè più nè meno. Laddove se tu chiami lampade il sole, come fece Virgilio, quantunque la voce lampade venga a dimostrare il sole, non perciò si stacca dal soggetto suo proprio, anzi non altrimenti ha forza di dare ad intendere il sole, che rappresentando quello come una figura di questo. E veramente le metafore non sono altro che similitudini o comparazioni raccorciate. Occorrendo poi (secondo che fece fra Bartolomeo da San Concordio) che si chiamino ferrate le menti degli uomini, allora il vocabolo ferrate sarà metaforico; in guisa nondimeno che la metafora non consisterà nello scambio della voce ferree colla voce ferrate, il quale sarà fatto per semplice catacresi, ma nell’accompagnamento di [p. 170 modifica] tale aggettivo con tale sostantivo; perchè in effetto le menti degli uomini, credo bene che sieno quali di fumo, quali di vento, quali di rapa, quali d’altre materie, ma per quello ch’io sappia, non sono di ferro. Il che nè più nè meno sarà il senso letterale della metafora; cioè che quelle menti sieno di ferro, non già che sieno munite di ferro. E qui pecca il Vocabolario, che senza più mette l’esempio di Fra Bartolomeo tra gli usi metaforici di ferrato fatto da ferrare cioè munire di ferro, quando bisognava specificare appartatamente che ferrato s’usa talora in cambio di ferreo, non solamente nel proprio, ma eziandio nell’improprio, e quivi allegare il suddetto esempio. Al quale aggiungerò quello d’uno scrittore meno antico d’età e molto più ragguardevole d’ingegno e di letteratura che non fu quel buon Frate, cioè del Poliziano, che sotto la persona d’Orfeo dice a’ guardiani dell’inferno120: Dunque m’aprite LE FERRATE PORTE. Non può voler dire che queste porte sieno guarnite di [p. 171 modifica] ferro, come sono anche le più triste porte di questo mondo, ma dee volere che sieno di ferro, come si possono immaginare le porte di casa del diavolo, che non ha carestia di metalli, essendo posta sotterra, nè anche di fuoco da fonderli, essendo come una fornace. Altrimenti quell’aggettivo nel detto luogo avrebbe del fiacco pur assai. Così quando Properzio121 chiamò ferrata la casa di Danae, ferratam Danaes domum, si può stimare che non avesse riguardo a’ saliscendi o a’ paletti delle porte nè agl’ingraticolati che potevano essere alle finestre, ma volesse intendere ch’ella fosse di ferro, come Orazio122 la fece di bronzo, o d’altro metallo ch’ei volesse denotare con quell’ahenea. E nello stesso Poliziano, poco avanti al predetto luogo123, il ferrato inferno è spieiato o inesorabile e se non fosse la traslazione, ferreo. Di più troverai nel Chiabrera124 un ferrato usbergo, il quale io mi figuro che sia di ferro; e nel [p. 172 modifica] Redi125 le ferrate porte del palazzo d’Amore: se non che dicendo il poeta che su queste porte ci stavano le guardie, mostra che dobbiamo intendere delle soglie; e però quell’aggiunto mi riesce molto male appropriato, che che si voglia significare in quanto a se. Dato finalmente che gli arpioni, vale a dire i gangheri, delle porte e delle finestre, come anche le bandelle, cioè quelle spranghe che si conficcano nelle imposte, e per l’anello che hanno all’una delle estremità, s’impernano negli arpioni, sieno fatte, e non foderate o fasciate, di ferro effettivo; resta che ferrato nel passo che segue, sia detto formalmente in luogo di ferreo, e non di ferreo traslato, ma del proprio e naturale quanto sarebbe se dicessimo, verbigrazia, ferreo secolo. Il passo è riferito nel Vocabolario della Crusca alla voce Bandella, e parte ancora alla voce Arpione, e spetta all’antico Volgarizzamento manoscritto dell’Eneide, nella quale corrisponde alquanto sotto il mezzo del secondo libro126. Ma Pirro [p. 173 modifica] risplendiente in arme, tolta una mannaia a due mani, taglia le dure porte, e LI FERRATI ARPIONI DELLE BANDELLE. Da tutte le sopraddette cose conchiuderemo, a parer mio, che la voce ferrato posta per ferreo, non tanto che si debba riprendere, ma nella poesia specialmente, s’ha da tenere per una dell’eleganze della nostra lingua.


IV, 13. Quando le infauste luci
              Virile alma ricusa.


Luci per giorni sta nella Crusca veronese con un testo del Caro, al quale aggiungendo il seguente, ch’è d’uomo fiorentino anzi fiorentinissimo, cioè del Varchi127, non sei per fare opera perduta. Dopo altre notti, più lucenti e belle LUCI più vago il Sol mena a le genti. Il Petrarca128 usa il singolare di luce per vita: I’ che temo del cor che mi si parte, E veggio presso il fin della mia LUCE. [p. 174 modifica]

V, 4. Ma se spezzar la fronte
         Ne’ rudi tronchi, o da’ montano sasso
         Dare al vento precipiti le membra,
         Lor suadesse affanno.


Il Vocabolario ammette le voci suadevole, suado, suasione, suasivo. Ma che vale? Se non porta a lettere di scatola il verbo suadere, chi mi proscioglie dal peccato d’impurità? Non certo i Latini: di modo ch’io me ne vo dannato senz’altro; e mi terrà compagnia l’Ariosto, che nel terzo del Furioso129 disse di Bradamante: Quivi l’audace giovine rimase Tutta la notte, e gran pezzo ne spese A parlar con Merlin, che LE SUASE RENDERSI tosto al suo Ruggier cortese. Anzi troverò fra la gente perduta anche il Bembo, capitato male per lo stesso misfatto, e che più? fino al padre Dante, che non s’astenne dal participio suaso. E quanto al peccato di questi due, vedi il Dizionario dell’Alberti. [p. 175 modifica]


CANZONE SETTIMA


I, 5. Credano il petto inerme
        Gli augelli al vento.


Se tu credi al Vocabolario della Crusca, non puoi credere cioè fidare altrui se non quel danaio che ti paresse di dare in prestito, voglio dire a usura, chè in altro modo è fuor di dubbio che non puoi, quando anche lo permetta il Vocabolario. Ma se credi agli ottimi scrittori latini e italiani, crederai cioè fiderai così la roba come la vita, l’onore e quante cose vorrai, non solamente alle persone, ma eziandio, se t’occorre, alle cose inanimate. Per ciò che spetta ai latini, domandane il Dizionario; o quello del Forcellini o quello del Gesner o di Roberto Stefano o del Calepino o del Mandosio o di chi ti pare. Per gl’italiani vaglia l’esempio seguente, ch’è dell’Alamanni130. Tutto aver si convien, nè men che quelli Ch’AL tempestoso MAR CREDON LA VITA. E quest’altro, ch’è [p. 176 modifica] del Poliziano131. Nè SI CREDEVA ancor LA VITA A’ VENTI. E questo, ch’è del Guarini132. Dunque A L’AMANTE L’ONESTÀ CREDESTI? Al che l’autore medesimo fa quest’annotazione133. Ripiglia acutamente Nicandro la parola di credere, ritorcendola in Amarilli con la forza d’un altro significato, che ottimamente gli serve; perciocchè il verbo credere nel suo volgare e comunissimo sentimento significa dar fede; e in questo l’usa Amarilli. Significa ancora confidare sopra la fede, sì come l’usano molte volte i latini; e in questo l’usa Nicandro in significazione attiva, volendo dire. Dunque confidasti tu in mano dell’amante la tua onestà? E forse il Molza ebbe la medesima intenzione de’ poeti sopraddetti usando il verbo credere in questo verso della Ninfa Tiberina134: Troppo credi e commetti al torto lido. [p. 177 modifica]

II, 2. Dissueto.


Questo forestiere porta una patente di passaggio, fatta e sottoscritta da Dissuetudine, e autenticata da Insueto, Assueto, Consueto e altri tali gentiluomini italiani, che la caverà fuori ogni volta che bisogni. Ma non si cura che gli sia fatta buona per entrare nel Vocabolario della Crusca, avendo saputo che un suo parente, col quale s’acconcerebbe a stare, non abita in detto paese. E questo parente si è un cotal Mansueto; non quello che, secondo la Crusca, è di benigno e piacevole animo, o che ha mansuetudine, vale a dire è mansueto; in somma non quel Mansueto ch’è mansueto, ma un altro, che sotto figura di participio, come sarebbe quella del mio Dissueto, significa mansuefatto o ammansato, anche di fresco, e si trova in casa del Tasso. Gli umani ingegni Tu placidi ne rendi, e l’odio interno Sgombri, signor, da’ MANSUETI cori, Sgombri mille furori135. Questi che opera tanti miracoli, se già [p. 178 modifica] non l’hai riconosciuto, è colui che ’l mondo chiama Amore. Per giunta voglio che sappiano i pedagoghi ch’io poteva dire disusato per dissueto colla stessissima significazione; ed era parola accettata nel Vocabolario, oltre che in questo senso riusciva elegante, e di più si veniva a riporre nel verso come da se stessa. A ogni modo volli piuttosto quell’altra. E perchè? Questo non tocca ai pedanti di saperlo. Ma in iscambio di ciò, li voglio servire d’un bello esempio della voce dissuetudine, che lo metteranno insieme con quello che sta nel Vocabolario; come anche d’un esempio della parola disusato posta in quel proprio senso ch’io formo il vocabolo dissueto. Mi sveglia dalla DISSUETUDINE e dalla ignoranza di questa pratica. Il qual esempio è del Caro, e si trova nel Comento sopra la Canzone de’ gigli136. L’altro esempio è del Casa, e leggesi nel Trattato degli uffici comuni137. Perciocchè a lui pareva dovere avvenire ch’essi a poco a [p. 179 modifica] poco da quello che di lui pensar solevano, DISUSATI, avrebbero cominciato a concepire nelle menti loro non so che di maggiore istima. Il latino ha desuefacti.


II, 9. E ’l pastorel ch’a l’ombre
           Meridiane incerte (col rimanente della stanza)


Anticamente correvano parecchie false immaginazioni appartenenti all’ora del mezzogiorno, e fra l’altre, che gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e simili, aggiunto le anime de’ morti, si lasciassero vedere o sentire particolarmente su quell’ora; secondo che si raccoglie da Teocrito138, Lucano139, Filostrato140, Porfirio141 Servio142 ed altri, e dalla Vita di san Paolo primo eremita143, che va con quelle de’ padri e fra le cose di san Girolamo. Anche puoi vedere il Meursio [p. 180 modifica] 144 colle note del Lami145, il Barth146, e le cose disputate da’ comentatori e specificatamente dal Calmet in proposito del demonio meridiano detto nella Scrittura147. Circa all’opinione che le ninfe e le dee sull’ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne’ fiumi o ne’ fonti, dà un’occhiata all’elegia di Callimaco Sopra i lavacri di Pallade148, e in particolare quanto a Diana, vedi il terzo libro delle Metamorfosi149.


Ivi, 10. E a la fiorita
              Margo adducea de’ fiumi.


Se per gli esempi recati nel Vocabolario la voce margo non ha sortito altro genere che quello del maschio, non ti maravigliare ch’io te l’abbia infemminita. E non credere ch’a far questo ci sia bisognato qualche gran forza di stregheria, qualche fatatura, o un [p. 181 modifica] miracolo come quelli delle Trasformazioni d’Ovidio. Già sai che da un pezzo addietro non è cosa più giornaliera e che faccia meno maraviglia del veder la gente effeminata. Ma lasciando questo, considera primieramente che la voce margine, in quanto significa estremità, orlo, riva, ha l’uno e l’altro genere; e secondariamente che margine e margo non sono due parole, ma una medesima con due varie terminazioni, quella del caso ablativo singolare di margo voce latina, e questa del nominativo. Dunque, siccome dicendo, per esempio, imago in vece d’imagine, tu non fai mica una voce mascolina, ma femminina, perchè imagine è sempre tale; parimente se dirai margo in iscambio, non di margine sostantivo mascolino, ma di quell’altro margine ch’è femminino, avrai margo non già maschio, non già ermafrodito, ma tutto femmina bella e fatta in un momento, come la sposa di Pigmalione, che fino allo sposalizio era stata di genere neutro. O pure (volendo una trasmutazione più naturale) come l’amico di Fiordispina, se non che questa similitudine cammina a rovescio del caso nostro in quanto ai generi. [p. 182 modifica]

V, 2. Le varie note
         Dolor non finge.


Cioè non forma, non foggia, secondo che suona il verbo fingere a considerarlo assolutamente. Non è roba di Crusca. Ma è farina del Rucellai già citato più volte. Indi150 potrai veder, come vid’io, Il nifolo, o proboscide, come hanno Gl’indi elefanti, onde con esso FINGE (parla dell’ape) Sul rugiadoso verde e prende I FIGLI. E dello Speroni151. Egli al fin trovi una donna ove Amore con maggior magisterio e miglior subbietto, conforme agli alti suoi meriti LO voglia FINGERE ed iscolpire. È similmente del Caro nell’Apologia152; la quale, avanti che uscisse, fu riscontrata coll’uso del parlar fiorentino e ritoccata secondo il bisogno da quel medesimo153 che nell’Ercolano fece la famosa prova di rannicchiare tutta [p. 183 modifica] l’Italia in una porzione di Firenze: E le (voci) nuove, e LE nuovamente FINTE, e le greche, e le barbare, e le storte dalla prima forma e dal proprio significato tal volta? Dove il Caro ebbe l’occhio al detto d’Orazio154 Et nova FICTAQUE NUPER habebunt VERBA fidem, si graeco fonte cadant, pace detorta.


Ivi, 18. S’alberga.


Albergare attivo, o neutro assoluto, dicono i testi portati nel Vocabolario sotto questa voce. Albergare neutro passivo, dico io coll’Ariosto. Pensier155 canuto nè molto nè poco SI può quivi ALBERGARE in alcun core.


CANZONE OTTAVA


I, 14. Noi per le balze e le profonde valli
          Natar giova tra’ nembi.


Il verbo giovare quando sta per dilettare o piacere, s’attendiamo solamente agli [p. 184 modifica] esempi che ne registra sotto questo significato il Vocabolario, non ammette altro caso che il terzo. Ma qui voglio intendere che sia detto col quarto, bench’io potessi allegare che noi, voi, lui, lei si trovano adoperati eziandio nel terzo senza il segnacaso. Ora lasciando a parte i Latini, i quali dicono iuvare in questo medesimo sentimento col caso quarto; e lasciando altresì che giovare, quando suona il contrario di nuocere, non rifiuta il detto caso, come puoi vedere nello stesso Vocabolario, e che l’accidente di ricevere quell’altra significazione traslata, o comunque si debba chiamare, non cambia la regola d’esso verbo; dirò solamente questo, che in uno dei luoghi del Petrarca citati qui dalla Crusca, il verbo giovare, costruito col quarto caso, non ha la significazione sua propria, sotto la quale è recato il detto luogo nel Vocabolario, ma ben quella appunto di piacere o dilettare, come ti chiarirai, solamente che il verso allegato dalla Crusca si rannodi a quel tanto da cui dipende. Novo PIACER che ne gli umani ingegni Spesse volte si trova, D’AMAR qual cosa nova Più folta schiera di [p. 185 modifica] sospiri accoglia. Ed io son un di quei CHE ’l pianger GIOVA. Il Poliziano usa il verbo giovare in questa significazione assolutamente, cioè senza caso. Quanto156 GIOVA a mirar pender da un’erta Le capre e pascer questo e quel virgulto!. E il Rucellai fra gli altri, adopera nella stessa forma la voce gradire. Quanto157 GRADISCE il vederle ir volando Pe i lieti paschi e per le tenere erbe! Dice delle api.


IV, 8. Me non asperse
           Del soave licor l’avara ampolla
           Di Giove,


Vuole intendere di quel vaso pieno di felicità che Omero158 pone in casa di Giove; se non che Omero dice una botte, e Saffo un’ampolla, ch’è molto meno, come tu vedi: e il perchè le piaccia di chiamarlo così, domandalo a quelli che sono pratichi di questa vita. [p. 186 modifica]

Ivi, 10. Indi che.


Cioè d’allora che, da poi che. Della voce indi costrutta colla particella che, se ne trovano tanti esempi nella Coltivazione dell’Alamanni, ch’io non saprei quale mi scegliere che facesse meglio a proposito. E però lascio che se li trovi chi n’avrà voglia, massimamente bastando la ragione grammaticale a difendere questa locuzione, senza che ci bisogni l’autorità nè degli antichi nè della Crusca. I’ fuggo INDI OVE sia Chi mi conforte ad altro ch’a trar guai, dice il Bembo159. Cioè di là dove. Ma siccome la voce indi talvolta è di luogo, e significa di là, talvolta di tempo, e significa d’allora, perciò séguita che questo passo della nostra Canzone, dove indi è voce di tempo, significhi d’allora che nè più nè meno che il passo del Bembo significa di là dove, e nel modo che dice Giusto de' Conti160: E il ciel d’ogni bellezza Fu privo e di splendore D’ALLOR CHE ne le fasce fu nudrita. Cioè da che. [p. 187 modifica] Il quale avverbio temporale da che non è registrato nel Vocabolario; e perchè fa molto a questo proposito, lo rincalzerò con un esempio del Caro161. DA CH’io la conobbi non è cosa ch’io non me ne prometta. Altri esempi ne troverai senza molto rivolgere, e nel Caro e dovunque meglio ti piaccia. Ma io ti voglio pur mostrare questa medesima locuzione indi che, adoperata in quel proprio senso ch’io le attribuisco; per la qual cosa eccoti un luogo di Terenzio162. Quamquam haec inter nos nupera notitia admodum ’st (INDE adeo QVOD agrum in proxumo hic mercatus es), Nec rei fere sane amplius quidquam fuit; Tamen col resto. Dalle quali parole i più de’ comentatori e de’ traduttori non ne cavano i piedi. Terenzio vuol dire: Non ostante che tu ed io siamo conoscenti di poco tempo, cioè DA QUANDO hai comperato questo podere qui nel contorno, e che poco o nient’altro abbiamo avuto da fare insieme; tuttavia con quello che segue. [p. 188 modifica]


CANZONE NONA


Chiamo quest’Inno, Canzone, per esser poema lirico, benchè non abbia stanze nè rime, ed atteso anche il proprio significato della voce canzone, la quale importa il medesimo che la voce greca ode, cioè cantico. E mi sovviene che parecchi poemi lirici d’Orazio, non avendo strofe, e taluno oltre di ciò essendo composto d’una sola misura di versi, tuttavia si chiamano Odi come gli altri; forse perchè il nome appartiene alla qualità non del metro ma del poema, o vogliamo dire al genere della cosa e non al taglio della veste. In ogni modo mi rimetto alla tua prudenza: e se qui non ti pare che ci abbia luogo il titolo di Canzone, radilo, scambialo, fa quello che tu vuoi.


Verso 10. Equa.


Tra l’altre facezie del nostro Vocabolario, avverti anche questa, che la voce equo non si può dire, perchè il Vocabolario la scarta, ma ben si possono dire quarantadue voci [p. 189 modifica] composte o derivate, ciascheduna delle quali comincia o deriva dalla suddetta parola.


14. E pervicace ingegno.


Qui non vale semplicemente ostinato e che dura e insiste, ma oltre di ciò significa temerario e che vuol fare o conseguire quello che non gli tocca nè gli conviene. Orazio nell’Ode terza del terzo libro163: Non haec iocosae conveniunt lyrae. Quo, Musa, tendis? desine PERVICAX Referre sermones deorum, et Magna modis tenuare parvis. Vedi ancora la diciannovesima del secondo libro164, nella quale pervicaces viene a inferire petulantes, procaces e, come dichiarano le glose d’Acrone, protervas; ma è pigliato in buona parte. E nóto l’uno e l’altro luogo d’Orazio perchè non sono avvertiti dal Forcellini e perchè la voce pervicax, a guardarla sottilmente, non dice in questi due luoghi quel medesimo ch’ella dice negli esempi recati da esso Forcellini. [p. 190 modifica]

32. E gl’inarati colli
         Solo e muto ascendea l’aprico raggio
         Di febo.


I verbi salire, montare, scendere sono adoperati da’ nostri buoni scrittori, non solamente col terzo o col sesto caso, ma eziandio col quarto senza preposizione veruna. Dunque potremo fare allo stesso modo anche il verbo ascendere, come lo fanno i Latini, e come lo fa medesimamente il Tasso in due luoghi della Gerusalemme165.


43. Fratricida.


N. B. (Per errore di stampa il testo dice „fraticida„ ma devesi leggere „fratricida„ come è scritto nell’originale dell’autore).


Il Vocabolario dice solamente fraticida e fraticidio. Ma io, non trovando ch’Abele si facesse mai frate, chiamo Caino fratricida e non fraticida. [p. 191 modifica]

46. Primo i civili tetti, albergo e regno
       A le macere cure, inalza; e primo
       Il disperato pentimento i ciechi
       Mortali egro, anelante, aduna e stringe
       Ne’ consorti ricetti.


Egressusque Cain a facie Domini, dice il quarto della Genesi166, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem.


52. Eruppe.


Sia pregato il Vocabolario ad accettare per buona la voce erompere o erumpere, e gl’insegni di farle questa cortesia l’autore del Cortegiano167. Quasi come scoppio di bombarda ERUMPE dalla quiete, che è il suo contrario.


77. Nodrici.


Hai questo vocabolo nel Dizionario dell’Alberti coll'autorità del Tasso. [p. 192 modifica]

100. A le riposte
         Leggi del Cielo e di Natura indutto
         Valse l’ameno error, le fraudi e ’l molle
         Pristino velo.


Maniera tolta ai Latini, ma per amore, non per forza. L’Ariosto nel ventesimosettimo del Furioso168: Ed egli e Ferraù GLI AVEANO INDOTTE L’ARME del suo progenitor Nembrotte. Questa locuzione al mio palato è molto elegante; ma quelli che non mangiano se non Crusca, sappiano che questa non è Crusca, e perciò la sputino. Vuol dire gliele aveano vestite, ed è frequentissima nella buona latinità con questa e con altre significazioni.


116. Inesperti


Qui è voce passiva. Non la stare a cercare nel Vocabolario, chè sotto questo significato non ce la troverai; ma piuttosto cerca la voce esperto, e vedi anche inexpertus nei Vocabolari latini. [p. 193 modifica]

117. E la fugace, ignuda
        Felicitá per l’imo sole incalza.


Non occorre avvertire che la California sta nell’ultimo termine occidentale del continente. La nazione de’ Californii, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana. Certi che s’affaticano di ridurre la detta gente alla vita sociale, non è dubbio che in processo di tempo verranno a capo di quest’impresa; ma si tiene per fermo che nessun’altra nazione dimostrasse di voler fare così poca riuscita nella scuola degli Europei.


CANZONE DECIMA


Stanza V, verso 1. Se de l’eterne idee
                                  L’una se’ tu.


La nostra lingua usa di preporre l’articolo al pronome uno, eziandio parlando di più soggetti, e non solamente, come sono molti che lo credono, quando parla di soli due. Basti recare di mille esempi il [p. 194 modifica] seguente, ch’io tolgo dalla quindicesima novella del Boccaccio. Egli era sopra due travicelli ALCUNE tavole confitte, DELLE QUALI tavole quella che con lui cadde era L’UNA.


Lettor mio bello (è qui nessuno o parlo al vento?), se mai non ti fossi curato de’ miei consigli, e t’avesse dato il cuore di venirmi dietro, sappi ch’io sono stufo morto di fare, come ho detto da principio, alle pugna; e la licenza ch’io t’ho domandata per una volta sola, intendo che già m’abbia servito. E però hic caestus artemque repono. Per l’avvenire, in caso che mi querelino d’impurità di lingua e che abbiano tanta ragione con quanta potranno incolpare i luoghi notati di sopra e gli altri della stessa data, verrò cantando quei due famosi versi che Ovidio compose quando in Bulgaria gli era dato del barbaro a conto della lingua.

Note

  1. Tr. d’Am. capit. 3, vers. 22.
  2. Son. 13.
  3. Firenze, 1815, pag. 3.
  4. Dial. d’Amore. Dialoghi dello Sper. Venez. 1596, pag. 3.
  5. Canz. 4, stanza 3.
  6. Son. 45.
  7. cap. 7. Milano 1811, p. 95.
  8. v. 49, 50.
  9. v. 21, 23.
  10. c. 6, art. 17.
  11. Vocab. della Crusca, v. Spirato.
  12. Canz. Chiare, fresche e dolci acque, st. 3.
  13. Gerus. liber. canto 12, stanza 5.
  14. c. 14, st. 17.
  15. Past. Fido, Atto 1. scena 4, v. 206.
  16. par. 1, c. 1. Fir. 1731-1755, t. 1, p. 3.
  17. c. 5, p. 12.
  18. c. 35, p. 103.
  19. Endim. At. 5, scena 2, v. 35.
  20. v. 19.
  21. Voc. della Crus. v. Rassomigliante.
  22. v. Assomigliante.
  23. v. Assimigliante.
  24. Roma, 1817, p. 22.
  25. p. 33.
  26. p. 35.
  27. lib. 6. Mil. 1819, p. 185.)
  28. l. 2, p. 61; l. 3, p. 75; l. 4, p. 103; l. 5, pp. 148 e 169.
  29. Lett. vol. 4, part. 2. Op. del Bem. Ven. 1729, t. 3, p. 310).
  30. Op. del Casa. Ven. 1752, tom. 3, p. 344.)
  31. Ven. appresso Aldo Manuz. 1569, p. 131.
  32. St. 12.
  33. c. 8, st. 68; c. 11, st. 63 e 75; c. 13, st. 64; c. 16, st. 47 e 57; c. 20, st. 19.
  34. l. 2, prosa 4. Ven. 1735, p. 36.
  35. prosa 7, p. 50; l. 3, pr. 5, p. 69, e pr., p. 11, 90 e 91.
  36. l. 2, Mil. 1803, vol. 1, p. 190.
  37. c. 17.
  38. Egloga 10, v. 16. Versi e Prose di Mons. Bernardino Baldi. Ven. 1590, p. 196.
  39. Egl. 11, v. 81, p. 209.
  40. Son. Viva fiamma di Marte, onor de’ tuoi.
  41. Son. Tra quantunque leggiadre donne e belle.
  42. Orfeo, At. 3, ediz. dell’Affò, Ven. 1776, v. 16, p. 41.
  43. v. 16.
  44. Son. 35.
  45. Son. 43.
  46. Son. Tesilla amo, Tesilla onoro, e sola.
  47. Ger. lib. c. 10, st. 3.
  48. Geor. l. 4, v. 465.
  49. v. 613.
  50. v. 268.
  51. v. 438
  52. Lione (Venezia), p. 7.
  53. p. 38.
  54. Bella mano, canz. 1, st. 1.
  55. Son. Voi cui Fortuna lieto corso aspira.
  56. Api, v. 159.
  57. v. 404.
  58. Epist. 4 d’Ovid. v. 309.
  59. v. 40.
  60. Ep. 15, v. 51.
  61. Ep. 17, v. 130.
  62. Ep. 15, v. 70 e 392.
  63. Circular. Doctrin. de Sublimibus, l. 2, c. 1 edit. Bake, Lugd. Bat. 1820, p. 109 et seq.
  64. Amstel. 1707, p. 202 B.
  65. V. 279.
  66. Genethliac. Lucani, v. 24 et sequent.
  67. v. 2.
  68. l. 2, c. 17, sect. 12.
  69. ap. Athenaeum, l. 11, c. 38. Ed. Schweighäuser, tom. 4, p. 237.
  70. ap. eumd. loc. cit. p. 238.
  71. Heliad. ap. eumd. l. c.
  72. Nannone, ap. eumd. loc. cit. c. 39, p. 239.
  73. Elem. astron. c. 5: in Petav. Uranolog. Antuerp. (Amstel.) 1703, p. 13.
  74. Tipogr. christian. l. 2. Ed. Montfauc. p. 149.
  75. Canz. Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina, st. 3.
  76. st. 1.
  77. coro 3, v. 1.
  78. Son. Solo e pensoso i più deserti campi.
  79. Canz. Spirto gentil, che quelle membra reggi, st. 7.
  80. distin. 3, c. 1 Fir. 1681, p. 34.
  81. Fur, c. 36, st. 9.
  82. Son. 36.
  83. Dialoghi dello Sper. Ven. 1596, p. 102.
  84. par. 2. Orazioni dello Sper. Ven. 1596, p. 201.
  85. v. 747.
  86. v. 933.
  87. Aen. l. 3, v. 1.
  88. l. 5, v. 607.
  89. l. 7, v. 169.
  90. v. 363.
  91. Georg. l. 4, v. 415.
  92. Api, v. 272.
  93. Georg. l. 4, v. 73.
  94. Fur. c. 9, st. 7.
  95. Api, v. 266.
  96. Georg. l. 4, v. 69.
  97. Coltiv. l. 4, v. 792.
  98. Voc. della Crus., v. Trepidante.
  99. Proposta di alcune correz. ed aggiunte al Voc. della Crusca, vol. 2, par. 1, p. 103.
  100. Petr. Canz. O aspettata in ciel beata e bella, st. 5.
  101. Sannaz. Arcad. egl. 2, v. 12.
  102. Bembo, Canz. 6, Chiusa.
  103. Giusto de' Conti, B. M. son. 22; Bembo, Son. 13, Arios. Fur. c. 10, st. 96; Bern. Tasso, Son. Superbo scoglio, che con l’ampia fronte.
  104. Petr. Son. Fera stella, se ’l cielo ha forza in noi. Poliz. Stanze, l. 1, st. 82. Ar. Fur. c. 11. st. 66.
  105. Bocc. Ameto, Fir. 1521, car. 62. Tasso, Ger. lib. c. 18, st. 13; Remig. Fiorent. Ep. 17 d’Ovid. v. 156.
  106. Bocc. Ameto, car. 65.
  107. Alam. Coltiv. l. 2, v. 499.
  108. ivi. l. 3, v. 493.
  109. Voc. della Crus. v. Arientato.
  110. Ger. lib., c. 18, st. 21.
  111. De nupt. Pel. et Thet. v. 5.
  112. Ovid. Metam. l. 5, v. 52.
  113. De laud. Stilic. l. 3, v. 226.
  114. l. 5, v. 9.
  115. Propert. l. 2, Eleg. 20, al. 16, v. 9.
  116. v. 11.
  117. l. 4, El. 1, v. 78.
  118. v. 89.
  119. v. 399
  120. Orfeo, At. 4 ed. dell’Affò, v. 16, p. 45.
  121. l. 2, El. 20, al 16, v. 12.
  122. l. 3, Od. 16, v. 1.
  123. At. 3, v. 39, p. 42.
  124. Canz. Era tolto di fasce Ercole appena, st. 7.
  125. Son. Aperto aveva il parlamento Amore.
  126. v. 479.
  127. Boez. l. 3, rim. 1.
  128. Son. Quand’io son tutto volto in quella parte.
  129. St. 64.
  130. Coltiv. l. 6, v. 118.
  131. Stanze, l. 1, st. 20.
  132. Past. Fido, At. 4, sc. 5, v. 101.
  133. P. F. Ven. app. G. B. Ciotti, 1602, p. 292.
  134. st. 30.
  135. Amin. At. 4, Coro.
  136. st. 1, v. 13, fra le Lett. di diversi eccellentiss. uomini, Ven. p. 515)
  137. c. 11. Op. del Casa. Ven. 1752, t. 3, p. 215).
  138. Idyll. 1, v. 15 et sequent.
  139. l. 3, v. 422 et sequent.
  140. Heroic. c. 1, art. 4 Op. Philostr. ed. Olear. p. 671).
  141. De antro nymph. c. 26 et 27.
  142. ad Georg. l. 4, v. 401.
  143. c. 6 in Vit. Patr. Rosveydi, Antuerp. 1615, l. 1, p. 18.
  144. Auctar. Philologic. c. 6.
  145. op. Meurs. Florent. 1741-1763, vol. 5, col. 733.
  146. Animadversion. ad Stat. par. 2, p. 1081.
  147. Psal. 90, v. 6.
  148. v. 71 et sequent.
  149. v. 144 et sequent.
  150. Api, v. 956 e seguenti.
  151. Dial. d’Amore. Dialoghi dello Sper. Ven. 1596, p. 25).
  152. Parma, 1558, p. 25.
  153. Caro Lett. famil. ed. Comin. 1734, vol. 2, lett. 77, p. 121.
  154. De ar. poet. v. 52.
  155. Fur. c. 6, st. 73.
  156. Stanze, l. 1, st. 18.
  157. Api, v. 199.
  158. Il. l. 24, v. 527.
  159. Son. 41.
  160. B. M. canz. 2, st. 4.
  161. Lett. fam. ed. Cornin. 1734, vol. 2, let. 233, p. 399.
  162. Heaut. Act. 1, sc. 1, v. 1.
  163. v. 69.
  164. v. 9.
  165. c. 3, st. 10, e c. 20, st. 117.
  166. vers. 16.
  167. l. 2. Mil. 1803, vol. 1, p. 226.
  168. st. 69.