Libro 8

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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
Libro 8
VII IX
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LIBRO OTTAVO

SOMMARIO

I. Mutuo odio di Caio e del popolo romano. — II. Deluso Caio della speme di far l'oro, cerca arricchirsi per via di delitti. — IV. Sua prodigalità e follia in onorar un cavallo. — Le fortune di tutti in rovina. Atroci invettive contro il senato. — VIII. Coll’adularlo, dall’imminente rovina i Padri si schermiscono. — IX. Suoi capricci: Ponte a Pozzuoli: trionfo sul mare. — XV. Qui Caio maggior di Serse, Alessandro emula in micidial ebbrezza. — XVI. Non più di ricchezze, di vite si va in caccia. — XVII. Erode tetrarca di Galilea, e la moglie Erodiade, per desio di regno, vanno a rovinarsi. — XIX. Gli uomini di talento anche essi in guai, e però rei Seneca e Domizio Africano. — XXI. Gli squittini dal campo di nuovo al senato. Africa in multa. — XXII. Caio mal concia l’Italia, volgasi a Gallia e a Spagna, sotto pretesto della germanica spedizione. — XXIII. Vana mostra di guerra, e vergognoso timore. — XXV. Falsa vittoria, ma in Roma e nelle province celebrata. — XXVII. Congiure contro Caio; onde Lentulo Getulico ed Emilio Lepido morti, Giulia e Agrippina esiliate. XXIX. Caio entra console solo a Lione. — XXXI. Fa ivi de’ giuochi letterari. — XXXII. [p. 316 modifica]Lucroso, ma laido traffico. — XXXIV. Tolomeo di vita, Antioco casso di regno. Mitridate in ferri. XXXV. Smunte le Gallie, imprende la britannica spedizione, e ridicolosamente l'esegue. — XXXVIII. È Caio deriso da Brinione Canninefate — XXXIX. Preparativi del trionfo. — XL. Atroce determinazione contro le germaniche legioni, vana per codardia di Caio. - XLI. Nuovi odj contro ’l senato. — XLII. Entra in Roma Caio con trionfo minore. — XLIII. Congiura scoverta. Supplizj di Sesto Papinio e altri. — XLVII. Caio divorato dal timore, colla discordia si fa scudo. — XLIX. Il senato pazzo per lutto contro i suoi imbestialisce. — L. Onori a Caio decretati. — LI. E chiamato Dio. — LII. Fingesi Dio, e s’adora quell’empio contr'uomini e Dei. — LVI. Ambasceria de’ Giudei. — LVII. Ordine a Petronio d’ergere il colosso di Caio nel tempio di Gerosolima. — LIX. Preghi su ciò d’Agrippa re. — LX. I Legati giudei a perorar lor causa anzi al principe ammessi e beffati. — LXVI. Paga Apelle il fio delle male arti, Ponzio Pilato si dà morte. — LXVII. Portenti sparsi. — LXEIII. Cassio Cherea congiura contro Caio. — LXXI. Consigli e timori de’ congiurati. — LXXIX. Cherea uccide Caio. — LXXX. Personale e costumi di Caio.
Anno di Roma dccxcii. Di Cristo 39.

Consoli. C. Cesare Aug. II e L. Apronio Cesiano.

An. di Roma dccxciii. Di Cristo 40.

Consoli. C. Cesare Augusto III.

An. di Roma dccxciv. Di Cristo 41.

Consoli. C. Cesare Aug. IV e Gn. Senzio Saturnino. [p. 317 modifica]

I. Sendo consoli Caio Cesare la seconda volta e L. Apronio Cesiano, di mutuo odio arse il principe e ’l popolo. Questo di suo pazzo godere, e vil tollerar noiato, a mirar con orrore i giuochi di suo sangue intrisi, bestemmiar lo scapestrato governo, dar contro i maledetti spioni. Caio abituato all’audacia, a spregiar le giurate leggi, continuar dì e notte spettacoli, sempre micidi, far di tutto reità, studiar solo sua sicurezza, e le publiche catene.

II. In tal contrasto e gara, indragato a veder deserti suoi spettacoli, dimise Caio il consolato uscente gennaio; e surrogato Sanquinio Massimo prefetto di Roma, si ritirò in Campagna. Resosi poi a Roma per celebrare il natal di Drusilla, vien più pazzo che mai per gli spettacoli, e al par di danaro ingordo. Ma deluso della speme di far l’oro, inspiratali da ciurmadori, amici de’ grandi, di lor natura per segreti e maraviglie sì passionati, alle solite diessi, e provate arti di rapinare. V’era già editto, che chiunque destinato avea Tiberio erede, legasse, morendo, il suo a Caio; aggiunse il far nulli, come inofficiosi, i testamenti de’ Primopili, che dal trionfo di Germanico in poi, fatto non aveano erede il principe. Più rigore si usò con appaltatori, e soprintendenti di strade, come usurpatori del publico danaro; scussi per Gn. Domizio Corbulone, della stessa condanna sotto Tiberio infamato.

III. Non arrossò ei medesimo, abolito l’uso, che due pretori tirino a sorte i gladiatorj spettacoli, di porre i giuochi ad incanto; i gladiatori vendendo (con libertà di più comprarne del permesso da legge) a [p. 318 modifica]consoli, pretori, a ricchi tutti, vogliano o no, a sì eccessivo prezzo, ch’alcuno a comprar astretto, e fallito, si segò le vene. Usava anco soperchierie; come quando occhiato Aponio Saturnino, che dormicchiava tra’ sedili, al banditor fe’ cenno a non preterir quel pretorio, che col tanto piegar del capo diceagli di sì: nè fu finito l’incanto, che aggiudicati gli furono, a pena desto e ignaro di tutto, tredici gladiatori per nove milioni di sesterzj. Non basta; gladiatori, cavalli, cocchieri venduti avvelenava, per farne comprar nuovi.

IV. Quest’altro pazzo lusso con lodi, premure, premj, fomentò; che alla fazion Prassina addetto, in sua stalla assiduo cenava: e al cocchiere Entico in una gozzoviglia diè mancia due milioni di sesterzj e, come sfrenata voglia non ha modo, con civili onori un suo cavallo, detto Incitato, nobilito. Oltre stalla di marmo, greppia d’avorio, gualdrappe di porpora, collana di gemme, diegli casa, servitù, arredi, a più lauto trattamento fare agl’invitati in colui nome. Volealo talor a cena, servendolo d’orzo dorato, e dandogli a ber vino in nappi d’oro; giurava in suo nome e salute: e destinavalo console, a somma infamia del principe, maggior de’ piaggiatori.

V. Pur lieve ciò era, nè facea che ridicoli, e rovinati pochi; ma dal buon effetto adescato, a’ beni di tutti agognando, uomini, donne, tutti alla rinfusa i ricchi, tolse di mira. E fu peggior del male il rimedio, chè per temenza chiamato di qua e di là erede dagli ignoti tra’ familiari, da’ genitori tra’ figli, non so se più terribile o feroce, baioni dicea quei ch’al testamento sopravviveano, e a molti mandò [p. 319 modifica]il veleno in manicaretti. De’ più vecchi poi, cui lasciava vivere, dicendosi lor figlio, o nipote, tosto beni occupava, dichiaratosi erede.

VI. Più anco iniquo che falotico nuova materia di delitti ordisce. Poichè ito in senato in un’aringa a’ Padri: „Stupisco, come da voi si biasimi di Tiberio la somma saggezza in guerra e in pace, al pondo del governo uguale; che la pubblica felicità facea, se non erate voi. La rovina voi foste di Libone Druso, di Tizio Sabino, d’Agrippina madre, di Nerone e Druso fratelli, e d’altri, cui l’equità di Tiberio, del retto tenace, non avvia tocco. Chi da spia, chi da accusatore, tutti col voto incrudeliste„.

VII. Indi fatti legger da’ liberti i sommarj, e provati i delitti: „Che razza di bestie voi siete, tanto or facili a colpar Tiberio, quanto a lui, sinchè visse, prostrati! Fabbri allor di delitti, or sua memoria detestate. Colla stessa volubilità Seiano in baldanza metteste, poi in rovina. Tal vostre prodezze mi annunziano che debba da voi attendermi„. E mettendo altrui in bocca più fieri sensi parlar fe’ Tiberio così: „Dì il vero e ’l giusto: a niun di loro sii amico: a tutti severo. T’odieranno, e dopo indarno imprecatoti morte, te la trameranno. Non badare a’ lor sensi e parole: de’ fatti diffida; sodisfa al capriccio: pensa a tua salvezza; quest’è esser imperadore; questa la via, la norma di regnare. Un fil che devii, breve lode, morte violenta, oscuro nome, n’è il fratto. Odian tutti chi comanda; ubbidienti per tema del più forte, se sentansi in gambe, faran vendetta della servitù coll’eccidio del padrone„. [p. 320 modifica]

VIII. Sì bravato, rinovò le leggi del crimenlese, e le fe’ sporre incise in bronzo indi ratto del senato passò ne’ sobborghi. Allibiti i Padri, nè vedendo uscita, tennersi tutti rei di stato, e Roma pure, non v’essendo chi adontato non avesse Tiberio, cui avean tutti malmenato per farsi merito col nuova principe. La dimane alquanto rinfrancati, in pien senato dibattono che fare in tanto rischio? Rinunziato affatto a libertà, vergognoso partito seguirono di salute; e lodata la prudenza e pietà del principe, fer decreto: Grazie li si renda me’ che si può della vita lor servata: l’anniversario dell’aringa di Caio, co’ giuochi Palatini a sua clemenza si sacrifichi; portisi in Campidoglio sua statua d’oro tra l’inni dei nobili garzoni; al suo ritorno entri il principe in Roma, quasi vinti i nemici, ovante; infamie di schiavitù, che crebber sempre al crescere d’atrocità il principe.

IX. Lieto dello spavento del senato e di Roma, spregiò Caio gli offerti onori, a portentose cose, da testa veramente sventata, aspirando. Ad emular Serse, o a terror della Germania, e Brettagna, su cui era per piombare, o, secondo i più intesi di corte, per ismentir di Trasillo i vaticinj, e con nuovo miracol d’arte mostrarsi principe, argomentossi d’unir con ponte Baia e Pozzuolo, tra lor distanti sopra tre miglia e mezzo.

X. Opra di pazzo ardire, di pressante studio, figlia. Artieri di qua, di là, alberi recisi, materiali pronti, navi in piedi; nè bastando esse all’immensa fabbrica, prese a nolo le mercantili. Sì alla gagliarda lavorandosi, mentre Roma e Italia langue di fame, eccoti il gran ponte su navi a doppio in ancora, e [p. 321 modifica]e suvvi terrapieno sul modello della Via Appia, con de’ posti tratto tratto, per ostelli, e serbatoi d’acqua dolce.

XI. Allor Caio, del vano stupore, e della stolta ostentazion di sua possa orgoglioso, millantasi: Che a Dario e Serse superiore in trionfar del mare, non cederà ad Alessandro in debellare i nemici; e ordina sia tutto in concio a guerra. Al dato dì, dopo sacrificato a Nettuno e agli altri Dei, massime a Livore, onde invidia non desti l’eccelsa impresa, vestita la corazza d’Alessandro con indosso purpureo manto in seta a fregi d’oro e gemme, con corona di quercia, su bardato palafreno, di scure, scudo e spada armato, entra in ponte a Bàia. In lunga serie fanti e cavalli dietro al principe, che incoraggisce, e fa strada al gran fatto d’arme; a bandiere spiegate, spirando ferocia corrono ad assediar Pozzuolo: e investitolo, in più schermugi, e con ogni mostra di guerra, l’espugnano.

XII. Non fu resa di città più esaltata; nè la vanità di Caio da adulazione fu vinta. Come valor guerriero, stanchezza fingendo, il resto del dì passò a ristorarsi. L’altro dì a nuove libidini più fresco, in militar pompa ritorna; da cocchiero, ma in tonaca d’oro, su cocchio a due famosi cavalli, Dario, e molle spoglie dell’arresa città, a foggia di trionfo, traendosi avanti, con corpo di pretoriani, e ne’ cocchi la sua combriccola in magnifiche vesti fregiate a palme. Seguiva l’espugnator esercito e turba immensa, in varia gala.

XIII. A mezzo al ponte su rialto ivi eretto, salì il Principe, e da generale a’ soldati favellò: „Che Dario? che Serse? bamboccerie le loro. Le mie sì [p. 322 modifica]son prodezze da uomo, da padron del mondo: mare incatenato e calcato, città espugnate, popoli vinti; gli stessi Dei mia maestà rispettando, tengon flutti e venti a freno.„ Con questo e simile buffonare vantandosi, le truppe, socie ne’ travagli e pericoli appella, e con doni più che con lodi desta a letizia.

XIV. In canti, stravizzi, giuochi e gazzurro il trionfal esercito menò il resto del dì. Il principe seguito dagli amici sul ponte stè come in un’isola; gli altri scesero nelle navi site come guernigioni. Non interruppe la notte il godere, accrebbe anzi con incredibile singolare spettacolo la maraviglia, chè ponte e navi splendean tutte di faci. Ma quel che passò ogni stupore, il semicircolo del littorale da Pozzuolo a Baia, per colli, monti, flessuosi seni mirabilmente ripartiti, ardea tutto di falò, che riverberando adduppiavansi in mare: e la notte, al di èmula, vinse di splendore il sole; a gran boria del principe, che in due dì su mare, terra, e cielo avea trionfato.

XV. La sfrenatezza de’ bagordi quell’anima in baie sin là occupata, piegò all’insita crudeltà e forse l’imitar Alessandro spinto all’eccesso; tal furor l’invase contro amici, contro ignoti e cogniti, e molti anco invitati dal lido! Chi fu giù tratto dell’alto ponte, chi annegato, mentre fra canti e suoni per mare il principe scorrea, e chi per disio di vita, se ben nell’accesso della galloria, a timone, o ad altro aggrarapavasi, con pali e remi era pinto in acqua, niuno ostando, ridendo i più dell’altrui male.

XVI. L’insano tripudio terminò qual suole, in mal umore; e spazzato l’erario, l’usate arti tornaro. [p. 323 modifica]Nuovi e inauditi balzelli: processi e morti non mai tante, a far danaro. Molti dal senato, più altri da Caio condannati: e a non celar sua crudeltà, mise ei stesso fuori de’ suoi la lista; sol dolente e irato degli uccisi, che per povértà potean vivere. Prevennero con morte i supplizj, accusati di fallo ne’ militari doveri, Calvisio Sabino, de’primai senatori, di ritorno della Pannonia, e sua moglie Cornelia, più forte che di virtù. Tizio Rufo ancora i dì s’accorciò, datagli colpa che dicesse: „il senato non parla come pensa„. Nè pur l’esilio fu sicuro asilo contro il disumano principe; chè credendo gli pregasser morte, o tranquilla nè trista vita cogli studi di filosofia traesser gli esuli, mandò scherani per l’isole a tutti ucciderli. Fu tra questi laidamente fatto in pezzi Avilio Flacco, di cui più sopra; che a’ carnefici resistendo fe’ vedere che nè morir seppe da forte, nè viver da saggio.

XVII. Senz’altrui spinta venne da sè a dar di ragna Erode tetrarca di Galilea, più per arte dell’impudica e superba Erodiade, che per sua, tratto in fosso. Sapendole agro che Agrippa il fratello, già povero e fuggiasco, per sovrano favore faccia omai gran figura, per dovizie e scettro; a brama di regno il marito, ad ozio più ch’a gloria portato, suo mal grado accese. Iti ambo in Roma a comprar con regali tal dignità, Caio in Baia incontrarono che con real lusso i lidi correa di Campagna.

XVIII. Là pur venne Fortunato, da Agrippa spedito con lettera, che Erode accusava d’alleanza con Artabano, e di novità; per cui, arnesi da guerra accolto avea, da armar settantamila. Ciò letto Caio, destramente interrògato Erode di tante armi, e da [p. 324 modifica]sua confessione insospettito, della tetrarchia, e di tutto il suo lo spoglia, e ’l rilega a Lione; dando ad Agrippa, dell’antica amistà, e della nuova grazia guiderdone, dell’esule la dignità e le ricchezze. Saputo poi che Erodiade gli è sorella; le rilasciò il suo valsente. Ma alla reale, di suo scorno, intollerante, protestò, che nella prospera come nell’avversa fortuna il marito accompagnerebbe: e col bell’atto ai femminili vizj fe’ compenso, ma perdè libertà.

XIX. A Caio intanto la nuova materia d’accuse, a’ principi sempre di disonore, spesso fu sterile. I bei talenti astiando, nè i morti scrittori solo, a vincer facili, calunniar oso; vivi a morte odiava; e a due sovra tutti la giurò assai valenti, in rettorica l’uno, l’altro in filosofia, e’n oratoria arte: quegli di fama, questi di virtù, avido. Amico Seneca per un’orazione più del dovere ingegnosa, presente l’invido Caio recitata, dannato a morte, preservarono modestia, malsania, minor invidia. Questa subissava Domizio Africano, se, da lungo esercizio, addestrato non era a grand’arti.

XX. Or Caio stesso in senato colpandolo, che la cugina accusasse d’Agrippina, e a lui rinfacciasse giovinezza a’ consolati acpi-ba, presa un’aria di stupore e ammirazione, tutta per capi riassume la lunga orazione, la loda a cielo, e intimatogli che risponda, duolsi, contorcesi, prostrasi al principe, dandosi vinto dall’insuperabil forza non dell’imperadore, ma dell’orator Caio. Questi, per vanità pieghevole, non pur il supplice assolve, ma ’l nomina al consolato; non so se da invidia o da clemenza più ridicolo. [p. 325 modifica]

XXI. Domizio d’eloquenza modello, non di costumi, della nuova dignità fe’ saggio col far degradare i consoli, perchè niente circa il natal del principe decretato aveano, e celebrato con solenni ferie l’Aziaca vittoria. Colla più fina malignità per tal solennità incolpavali Caio di mal animo contro Antonio, di sua famiglia, pome dicea, capo: ma del pari ad Augusto avversi, li giudicava se ometteanla. Frego, all’un de’ consoli si grave, che si cavò di vita. Colla stessa volubilità, in senato di nuovo trasferì gli squittini, al popolo, come fu detto, ridonati. Per tema anco di turbolenze in Affrica, la provincia partì in due; l’Affrica al proconsole, le truppe e la Numidia al Legato.

XXII. Mentre con processi e leggerezze così Caio se la passa, dell’estere ricchezze affamato, munta già Italia, le Gallie e Spagna adocchia, e là s’avvia sotto velo della germanica spedizione. In fretta in fretta, ma immenso, si fe’ di guerra apparato. In piè legioni, aiuti d’ogni parte, rigorosissime leve, munizioni d’ogni genere appaltate, con gran mandrie d’istrioni, gladiatori, landre, e simil corte da lusso. Ei messosi in cammino, militar ordine non servando, or iva sì ratto e fugalo, che le pretorie coorti por doveano su i giumenti, contro costuma, le bandiere, per tenerli dietro; or sì lento e agiato, ch’era tratto in lettiga a otto, e dalla plebe delle vicine città spazzar faceasi le strade, e innaffiarle per la polvere.

XXIII. A guerra ito, come a giuoco, tira dritto all’alta Germania, cui, a Lentulo Getulico surrogato avea Servio Galba, di buon uffiziale, cattivo poi imperadore. Per importuna severità, indi con più turpe ignavia, la letizia storpiò di suo venire; [p. 326 modifica]ché giunto a pena al campo con ignominia i Legati congedò, stati più tardi a recar soccorsi: e fe’sì la rassegna dio i più de’ centurioni maturi, e alcuni pochissimo lontani dal termine, cassò intaccandoli di squarquoi; e garriti gli altri di avidi, la paga agli emeriti scemò di milioni sei di sesterzi.

XXIV. Varcato poi a Magonza il Reno, tutto ferocia contro gli Svevi, in suo stretto, e tra la serra della truppa, tratto in cocchio, e da non so chi, esservi da sudare se il nemico apparia, salito tosto a cavallo ver i ponti il punse, cui di fardaggi e saccardi trovati zeppi, impaziente, e cacciato dalla paura, a man d’uomini e su lor teste passò oltra; sì dai magnanimi genitori tralignante.

XXV. Con fortuna accanito, di gloria sitibondo, caso cercò’ di vittoria non sì rischioso; cui per avere, pochi Germani della guardia passar fe’ il Reno, imboscarsi, e recar dopo pranzo avviso che a rompicollo è lì il nemico. A questo, fugge co’ suoi, e parte de’cavalli pretoriani, alla vicina selva; ove stramazzati degli alberi, e acconcili a trofei, a lumi di faci ritornato, dà del codardo e poltrone a chi non l'avea seguito; a’ compagni poi, e partecipi della vittoria, corona di nuovo genere e nome, che distinte per figurar Sole, Luna e Stelle, chiamò esploratorie.

XXVI. A tai comiche vittorie formisura algaroso, senza pur veder nemico, è gridato imperadore; e, qual atterrata la Germania, lettere manda a Roma laureate; lagnandosi in un editto, che ’l senato e popolo romano, lui pugnando, e a tanti rischi esposto, divertiasi ad intempestivi conviti, al circo, ai teatri, a ville. Men che v’era ragione, più festa [p. 327 modifica]fessi; nè sol Roma, le più rimote province agli Dei e al genio del principe sacrificaro.

XXVII. Eran tutt’altri i sensi di chi nel suo lume vedea tai scorni della maestà e del valor romano. Tutti ne concepiano spregio: alcuni crebbero in ardire, ma infelice; più vegghiando a sua salvezza Caio, più che dava onde aborrirlo. Lentulo Getulico ne fu vittima, sospetto di congiura, più forse odiato per l’amor del popolo e della truppa. Più certa e tremenda, perchè domestica, trama ordiro Emilio Lepido, destinato erede all’impero, e Giulia e Agrippina a lui di laido nodo avvinte; a tanto più rischio, ch’era con lor Gaio in segrete tresche. Ma con par felicità l’empie pratiche venner fuori, o scoperti a pena, lo scotto pagaro, Lepido colla morte, Giulia e Agrippina coll’esilio. Nel trarle a Ponza, fu ordinato ad Agrippina di recarsi in grembo insino a Roma in un’urna l'ossa di Lepido.

XXVIII. Nè ciò bastò al principe fiero in vendetta, e poco l’infamia di suo sangue curante; chè biglietti di congiura con frode e incesti, procurati, fe’ pubblici’, e con lettera al senato, non che le sorelle fuor dì denti accusar d’empietà e lussuria; tre coltelli mandò anco, ad eterna memoria del sacrilegio, apprestati a ucciderlo, ch’ei sacrò col motto:» A Marte vendicatore. Vietò pure di trattarsi unqua di onori ad alcun del sangue, crudo sì ver la cesarea casa, che, a detto d’alcuni, fu di suo cenno sommerso in Reno il zio Claudio nell’abito che venne; da stizza che spedisselo il senato non a congratularsi di sua salvezza, ma come a guidare un ragazzo. Ai soldati poi, qual per oste disfatta, diè strenua. Tra le sconcezze di quest’anno, disfattosi di Lollia, sposò Gaio [p. 328 modifica]Cesonia, nè bella nè sì fresca, ma di costumi unisona, e peste dello stato; se, qual fu voce, con erotico filtro mise furor nel marito. Più tosto, la lega di due pessime indoli, e sfrenata autorità, a mio avviso, la natural insania accrebbero. Per adulterio d’Agrippina fu quest’anno esiliato Tigellino, potente poi con Nerone, e suo braccio in libidine.

XXIX. Caio, la terza volta consolo, entrò solo in carica a Lione, non per burbanza o tracuraggine, com’altri disse, calunniar uso ogni atto del principe; ma perchè assente saputo non avea del collega morto sotto le calende. Per la gran tema del principe, che penetrata avea Roma; i pretori, presso i quali risedeva allora l’autorità, niente osando, salirono col pien senato a calende in Campidoglio: e fatti i sagrifizi, e adorato l’imperial seggio, gli offersero, qual a presente, le gran somme, da Augusto introdotte, d’omaggi avido nel nuovo governo. S’accolsero poi nel senato non chiamati, tutto il giorno a celebrar Caio, impiegando, con più fervore, più che acre era l’odio, più cupa la finzione.

XXX. A’ due, di comun editto de’ pretori, assembrati i Padri, e fatti i voti, nulla fu concluso, durando ancor lo spavento. Saputo in fine aver il principe a’ dodici dimessa la dignità, i surrogati entraron consoli. Fessi decreto che di Tiberio e Drusilla i natali colla stessa solennità di quei d’Augusto si celebrassero; furon dedicate l’imagini di Caio e Dnisilla, e dati gli spettacoli; tutto d’ordine di Caio, uso al senato scriver poco, molto ai consoli, da leggerne al senato.

XXXI. Oltra i vecchi esempi di sevizia, mise Roma in terrore la nuova ch’Agrippa e Antioco, [p. 329 modifica]intimi del principe, quell'anima di natura fiera, delle bizzarrie tutte d’Oriente invogliavano. Per tai stimoli l’ardente sua avarizia su’ Galli si scaricò; ma a non irritar gli animi, a far più bottino; or questo or quel giuoco mise su in Lione, con brevi e vari spettacoli i Galli divertendo. E a più gratificar la nazione, pria in armi, or in lettere, con discapito dell’antica braveria, occupata, gara propose di greca e latina facondia a patto che i vinti premiassero i vincitori, e ne facesser l’elogio. Chi poi men soddisfacea, con lingua o pugna cancellar dovea lo scritto, a non provare sferza o tuffo nel vicin fiume; grave pena certo, ma più lieve ch’a domar volesse audaci ingegni.

XXXII. A tai chiappole intesi, in vituperoso commerzio, ma di lucro l’intrigò; non vergognandosi di porre incanto dell’esuli sirocchie gli addobbi, gli arredi e schiavi e liberti; offerendo ognuno il più, per la novità del caso, per vanto di comprare, e più per vanità di farsene bello. Allettato dall’utile, quanto v’era nel vecchio palagio si fe’ venire, sì indiscreto, che presi al trasporto d’ovunque carra e giumenti, mancavano a Roma i viveri: e più litiganti non potendo per distanza trovarsi al dato dì al giudizio, perdean la lite.

XXXIII. Più infame della vendita fu la figura che vi fe’ Gaio, non pur testimone, ma banditore, che a più presto e caro vendere mostrando i capi: „questo„ gridava „è di mio padre, questo di mia madre, di mio avo, di mio proavo; questo riportò d’Egitto Antonio; questo dalla vittoria d’Azzio, Augusto.„ E con lusinghe adescandoli: „Quanto godo che sì egregie memorie di tanta nobiltà [p. 330 modifica]insigni, vanno in man de’ Galli, fedel nazione amica!„ e pentir fìngendo: „Come mi fo io a dare a privati cose da sovrani!„ E con più ardire chi comprava rampognando: „Non arrossate d’esser più ricchi del principe?„ Dopo ciò fe’ man bassa contro l’aver de’ ricchi, insultandoli poi e schernendoli per ultima disperazione. Questo con pubblico lutto alla Gallia toccò: giocando egli un’otta a carte, nè bastando la borsa, s’appartò: e, fatto recar l’estimo de’ Galli, ordinò la morte de’ più ricchi, d’ivi tornato giubilante al giuoco: „Voi, disse» giocate di poco; io vinco secentomila scudi d’oro„.

XXXIV. Nè ’l plebeo supplizio schivò Tolomeo, chiamato dal regno da Caio, e con onore accolto, per trasoneria di farsi far corte da’ re. Invidia fe’sua rovina e della Mauritania; chè entrato agli spettacoli, e trattosi addosso tutti gli occhi per la fiammante porpora, inorridì il principe a non veder tutti ver sè volti: e fe’ un capitai delitto del fulgido manto, non a bastanza espiato col regio e affine sangue, se la Mauritania in due province non partia; a pari infamia del romano governo e del barbaro padrone. Men fera sorte, a speme di di migliori, corse Antioco e Mitridate; quegli sempre mal sicuro nell’amicizia di principi infidi, privato del regno; questi a Cesare tratto, e in ceppi, balzato in esigilo.

XXXV. Dopo tali assassini, mancando di materia a rapine la Gallia, ripullulò l’insania dell’armi; all’uso delle sfrenate passioni, che gittato radici, cangiar ponno, sbarbicarsi no. Dunque non a dilatar l’impero, ma per l’usata leggerezza, o per vana emulazion di Giulio Cesare vincitor de’ Britanni, la britannica spedizione imprese: e con gran truppa [p. 331 modifica]affrettossi ver Bologna a mare, castello de’ Morini, di facil tragitto all’isola. Capo squadra Cesare, come sol bastante a soggiogar il nemico, sciolse del porto; tosto tornando con Adminio, figlio di Cunobelino re Britanno, in gaggio, che dal padre scacciato, con poca gente iva fuggiasco.

XXXVI. Lieto e superbo dell’auspicio l’esercito, già destina al trionfo una nazione dal D. Giulio combattuta, non doma, per ritornarsene, come l’anno avanti, colle pive in sacco. In fatti schierate le squadre al lido dell’Oceano, acconce balestre e macchine, parla Caio in ringhiera: e dato fiato alle trombe, a stupor di tutti che non vedeano il perchè, ordina si raccolgan de’ nicchi, e se n’empiano elmi e grembo; doversi tai spoglie al Campidoglio e al palazzo. Assegnato poi alla truppa il regalo, cento danari a testa, còme liberalità senza pari: „Scialate„ disse „arricchitevi;„ nè men sapendo farsi valere i grandiosi premj.

XXXVII. Pur tanto più ebbro della sognata vittoria, quant’era più falsa, come per resa dell’isola, e legge data all’Oceano, scrive enfatico a Roma, e il corrier premunisce, a tirar col carretto sino al Fòro e alla Curia, e a non dar i dispacci a’ consoli che al tempio di Marte e ’n pien senato. E per tema non perisse la memoria di tanta azione, altissima torre erse a Bologna a mare, che, qual faro, gran fanale alzava a notte da scortar navi; la vanità col pubblico utile orpellando.

XXXVIII. Con dolore i Romani, con riso i Barbari vedeano in piedi que’ testimoni eterni d’obbrobrio; tra’ quai Brinione Canninefate, per natural ferocia sorquidato, e per la facilità dell’insulto, a [p. 332 modifica]sberleffar que’ ducentomila, quai tanti buoi sotto pazzo duca; fremendo e indarno ripugnando i Legati: e se punto moveansi a risarcir l’onta, maggiore della disfatta di Varo, n’eran tosto per l’odio oppressi. Caio intanto di lodi avido, e più delle compre a prezzo di buffonerie, per nuove scaramucce da scena come l’altr’anno, confermato imperadore, non pensava, die al trionfo. Sua gran premura era, ch’oltra i prigioni e fuggiaschi barbari, i più alti di statura de’ Galli, che in greco dicea, da trionfo, e alcuni de’ primi, atti a zimbelli, scegliessersi del trionfo a la pompa. A tutti fu anco imposto, non die a far rosse e lunghe le zazzere, ma ad imparar il tedesco e usar barbari nomi.

XXXIX. Perchè di nulla manchi la pompa, smanioso da fretta, sul pazzo supposto che più v’entra di strepitoso cresce il principe di gloria, vuol che in gran parte sien tratte per terra a Roma le galee, in cui s’era messo in Oceano. Scrisse anco a’ deputati, col maggior risparmio il trionfo preparassero, ma il più lauto che mài; aver esso dritto su’ beni d’ognuno; l’erario del principe dover serbarsi pei nuovi casi e per la gloria dello stato.

XL. Sua collera dava sempre in barbarie. A veder le legioni, che assediato già aveano Germanico il padre, e sè infante, andò in furore; e a nefanda atrocità determinatosi, tutte a morte destinò. Ma dagli stessi stigatori di crudeltà rattenuto, a non far una vendetta pel valor di tanti e sì prodi difficile, e pe’ Barbari fatale, che d’ogni lato sboccherebbon contro; non si potò che non s’ostinasse a decimarli. Chiamatili dunque ad aringa inermi, e nudi anco di spada, serrali in mezzo all’armata cavalleria; ma [p. 333 modifica]visto, che addatisi sbrancavano i più, a rivestir l’arme a difesa, fuggì ratto a Roma, in crudeltà e vigliaccheria al pari precipitoso.

XLI. Salda a quell’argine, dall’imbatto anzi più viva, piombò sul senato sua ira: e più che insolente temea pe’ recati sfregi tumulto, più studiò soffocarlo con dannaggi de’ più nobili e atrocità maggiori. Indi minacce e richiami: „Che i Padri al principe nemici, lieti ai suoi rischi, or sua gloria invidiano: che’l senato del meritato onor del trionfo lo froda, mentre a gara le province con celeste culto onorarlo, s’avacciano; ma è già l’ora di vendicar col sangue de’ domestici nemici la sua gloria e lo stato».

XLIL Seppe ciò a Roma tanto più agro, ch’ei poc’anzi intimato avea pena la vita a non parlar di suoi, onori. Che fare, che no, incerti, deliberano spedir Legati al principe dell’amplissimo ordine a pregarlo d’affrettarsi. I quai bruscamente accolti, in alto tuono: „Verrò, rispose, verrò con questa:„ l’else della spada a fianco più volte picchiando. Il terrore poi accrescendo colla popolarità: „Tornerò, disse, ma pe’ soli che ’l bramano, popolo ed equestri; pel senato non son io più nè cittadino, nè principe: e che non m’esca contro senatore„. Omesso o differito il trionfo, ovante entrò nel suo natale in Roma: e, per cattivarsi la plebe, gran somme dalla vetta della Basilica Giulia più giorni le gittò; liberale in quanto sua sevizia o libidine favoria.

XLIII. Ma sovra l’altre ideali cagioni d’ira, la congiura vi fu da Anicio Cereale scoperta. Nè parve bastar punito solo Sesto Papinio di padre consolo. Ei nel delitto, come nel supplizio, ostinato a tacère, fu chiesto ch’alcun complice, vero o falso, riveli, [p. 334 modifica]offertali vita e impunità. O da lui rivelati, o a talento del principe supposti, Betilieno Basso, questore e figlio del soprantendente, e senatori e cavalieri furon presi. Nè però ebbe grazia Papinio, ma da acerbi strazi fu morto.

XLIV. Indi Caio a esame no, ma a sfogo, tormentò altri con flagelli, cordicelle, strettoi, eculeo, fuoco e col suo ceffo; a ciò sol attento ch'a morir tardassero. Nè il gemere pur consentendo, solo respiro a chi soffre e muore, e pur forse de’ franchi sensi, che in estremo spasimo esprime chi piò non ha che patire, temente; fa lor turar di spugne la bocca: e mancando queste, metter in brani di quei grami le vesti, e stoppamela, all’anima serrando il varco per piacer di straziare fin nell’ultimo fiato.

XLV. Nè de’ diurni tormenti sazio, prolungavali a notte, per non interromperne il diletto: e a diporto nelle logge de’ materni orti, che van tra’l portico e la riva, alcuni di quei con matrone e senatori, decollò a lume di faci. La ferale scena con altra piò barbara coronò; facendo la stessa notte da’ centurioni, che mandò per le case, ammazzar degli uccisi i padri, onde non soprasti chi sua crudeltà rinfacci.

XLVI. In tante morti, per nulla notabili, una ve ne fu distinta; che ordinato a Capitone d’assistere alla strage del figlio, chiedendo egli se’l poteva ad occhi chiusi, fu tosto dannato a morte; e già presso al supplizio, fìntosi de’ congiurati, n’esibì accusa. Ma spense tosto la gioia della speme di nuove vittime, il dar per autori e capi della congiura i ministri delle libidini del principe, i prefetti di Roma, e de’ pretoriani, Calisto occhio dritto de’liberti, la moglie stessa di Caio, Cesonia. La libertà guasta da [p. 335 modifica]menzogna alla patria fu vana, a Capitone portò pronta e stentata fine.

XLVII. Ma Caio angosciato e morso da coscienza, di sue iniquità testimone e vindice, flagello de’ più fieri tiranni, di tutto s’aombra, a niun crede, ognun teme: or cieco d’ira, infuria, e vorrebbe tutta Roma in un collo, per punire a un sol colpo e dì, tutti suoi falli di tanti luoghi e tempi; or poltrone imbelle si dispera, vuol morte di Roma e del pretorio i prefetti chiama, con Callisto, e in flebil tuono: „Io son solo, dice, voi tre, io nudo, voi in arme; m’odiate, mi chiedete a morte? eccomi.„

XLVIII. A tai sensi, rinovano scorati la fede, a viver sicuro il confortano; ma non rinfrancan l’anima di timor conquisa. A’ vecchi vizi nuovi ognor aggiunti, cresce la tema: nè ha ritegno il principe girsi armato per mezzo a Roma: e per più follia, in nimistà cerca sicurezza; amico facendosi di nimici tra loro. Politica talor più utile che virtuosa in ferma, nè malvagia monarchia; ma a principe odioso nociva sempre; e poi da sè, la discordia più che la concordia, di delitti è madre.

XLIX. Or il senato mesto pel lutto di tanti uccisi, dolsasi che pur vivessero senatori da Gaio nimicati; tremando dell’implacabil uomo, che tutti per tal indugio fulminar potria. Sì costernato rientrò in grazia con una viltà; che entrando Protogene, principal della Caiana sevizia cagnotto, in senato, e porgendogli ognuno co’ saluti la destra; ei guatando bieco Scribonio Procolo „Tu, disse, nemico della patria salutarmi?„ E senza più, difilaronsi addosso a Procolo i senatori, e cogli stili da scrivere il crivellarono. Sue membra e viscere tratte per le vie, [p. 336 modifica]vedendosi dinanzi Caio, si dichiarò amico al senato; quell’indegnità con infame, ma di tal principe degna, benevolenza rimeritando.

L. Per non darsi vinti in quella gara d’infamità i Padri, decretaron de’ giuochi: e che di Caio il seggio se in curia venia, su ben alto tribunal si locasse lungi da tutti, e di guardie cinto: e anzi le sue immagini si tenesser sentinelle; e a quel sospettoso piacque sì, che confermò al senato sua grazia, e promise beneficarlo. Gran prova fu di tal riconciliazione Pomponio, che per accusa di stato datali da un amico, fu assolto: e premiata una donna non so se d’amicizia o di stupro, legata seco, perchè senza pietà collata, nulla confessò.

LI. Più che rari a que’ dì, più famati furono tai di clemenza esempi. „Ah, Caio„ gridavasi „passò dell’umana virtù le mete.„ Pensan multi ch’ei sia da porre tra gli eroi: molti suo Nume adorano, e’l fanno un Dio. Ei, che per sua vanità, o ad esempio e indotta de’ re d’Oriente, sul fin dell’anno avanti, era nelle province caduto in quel delirio; forte gioì a salire in Roma a quell’altezza; sperandosi meglio difeso dal titolo di Dio, che dalla sola maestà di principe; nè sapea che nume immortale, anco senza onori, è chi è’, con quanti può averne, è in ispregio uom che si fa nume.

LII. A far cominciò dunque il grande, ma lubrico noviziato della divinità. Tutti imita gli atti, gli abiti, le forme de’ numi: nè a sesso badando, Dei e Dee, vecchi, giovani, celesti, terrestri, acquatici, ricopia tutti, e il ciel tutto in sè solo accoglie. Stimando poi augusto il palazzo de’ Cesari per un Dio, fa sua casa Roma; e di Castore e Polluce il tempio reso [p. 337 modifica]sua anticorte, stassi tra lor sovente a farsi adorar da chi entra.

LIII. In tanto farnetico (ch’è il mirabile) qualche umanità ritenne; chè Giove emulando, al dar un dì gli oracoli, un Gallo calzolaio, occhiato, che ridea: „Che ti sembro io?„ dimandogli. E questi: „Il bel matto;„ e la passò buona per la franchezza e pel mascalzone ch’era. Più ingegnoso L. Vitellio, pria di consiglio e d’arte egregio, maestro poi di servitù e d’adulazione, da Gaio richiesto, se la Luna vedea seco a congresso; ei con occhi a teira, in voce tremante, tutto rispetto: „A voi soli numi o Sire, è dato vedervi l’un l’altro.„ Nel che, come pria gli altri in incensar quel nume passato avea, così ad asserir stia divinità, pur con equivoco, li passò poi in favore.

LIV. Ma il nuovo Dio a pochi benefìco, ai più pesante, con inaudite gravezze, e più sconce arti, sotto nome divino tremende, i beni di tutti ingoiasi. I sagrificj stessi, per lo più miniere d’oro, ferono allor povertà; che dicendosi Giove Laziale, un tempio erse al suo nume, e oltre squisitissime ostie, fenicotteri, pavoni, tetraoni, numidiche, galline d’india, fagiani, da stabilmente immolarsi tutti i dì; istituì sacerdoti il zio Claudio, e i più ricchi, che il sacerdozio per dieci milioni di sesterzj comprassero. Ei di sè stesso sacerdote a quel ceto ammise la moglie Cesonia, e ’l suo cavallo incitato, pel nume e pel culto del par ridicolo, ma lieto per l’esito, che nell’oro sguazzava. Pur in tai delizie non fe’ posa al furore; anzi tanto più gli piacque altrui roba e vita, e con insulto, chè astretti eran a ringraziarlo i da lui spogli d’avere o prole. In questa promiscua [p. 338 modifica]turba di vittime, che in giornaliero sacrifizio al nuovo Dio immolavansi, per giovial vita, e morir da forte, ebbe Cano Giulio il primo vanto.

LV. Nè più cogli Dei pio, che cogli uomini, fu Caio; che or con ingiurie e beffe oltraggiàvali, or li traca giù di lor are a farsene far corte al suo tempio, or mozzava lor il capo a surrogarvi il suo. E più a’ più celebri infesto, a’Tespesi il Cupido di marmo involò, opera di Prassitele: da rubar anco Giove Olimpio, miracolo di Fidia e d’arte, se Memmio Regolo, da portento o da stratagemma spaurito, non desistea. Ma che stupir di tai spregi a mute statue, se sfidava a pugna Giove Tonanto con prosunzion di vincerlo?

LVI. Fra tai deliri da pazzo vennero a Roma i Legati de’ Giudei d’Alessandria, da Filone scorti, uom d’eloquenza più che di sapere, a dar quercia: Che opprimeasi gente al culto addetta dell’un Dio, immortale, creator di tutto: le si togliean di cittadinanza i dritti, violavasi sua religione, profanavansi le sinagoghe con laide imagini di Dei fattizj. In tai pianti tanto più vivi, quanto i Giudei son queruli, nè cosa han più cara e delicata della religione, nuove e più forti ragioni di dolere ebbero in Pozzuolo, ove seguito avean Caio, stanze e sollazzi, ognor cangiante.

LVII. Cioè, profanarsi Ianna con culto estrano da Capitone tesorier di Caio: per sue arti, ed empj consigli de’ mentovati Elicone e Apelle, perir per essi il sacrosanto di Gerosolima tempio: spedirsi P. Petronio preside di Siria con truppe a’ piantar nel Sancta l’aureo colosso del Nuovo Giove illustre Caio, o a tutta sterminar la nazione; eseguirsi già in Sidone il sacrilego lavoro; convocarsi i sacerdoti e i [p. 339 modifica]capi ad approvar l’empietà: deserte le città di Giudea, vote le case, esser tutti nella Fenicia a piegar Petronio uom niente crudo, ma che temea spiacer a Cesare, co’lor uffizi, e questi vani, esser pronti a rischi e morte; cui se incorrer doveano, consolavano ai almeno che morrebbono in estero paese, non anco violato il tempio.

LVIII. Ciò udito, a’ Legati punti di dolore, non ben anco inteso il forte del periglio, cade il fiato. Certo dall’aspetto e preghi di tanti infelici commosso Petronio, al principe scrisse in sensi tra pietà e rìspetto: ir lenta l’opra, ma sicura; le religioni più col tempo che colla forza prender piede; i Giudei tanto a lor culto attaccati, a troppo urtarli, delle campagne e della vita dimentichi andrebbon da sè a perire, a gran suo costo, che per tai regioni meditava il passo in Egitto. Caio, ne’ sospetti veggente, attinse: negargli, i Giudei gli onor divini, e Petronio usar arte; ma per tema che l’esercito disertasse, andò colle buone; e lodato Petronio di prudente, esortollo, che fatto il rìcolto, e sopito ogni rischio, accalorisse l’opera e ’l culto al principe dovuto.

LIX. Agrìppa re intanto, ignaro della rimostranza di Petronio, venne a salutar Caio. A vederlo turbato e d’ira gonfio, atterrissi; uditane poi rabbuffo, ch’era sua nazione ribelle, al principe, a suo nume nimica, raccapricciò sì, che svenuto fu ricondotto a casa. La dimane ripreso alquanto forze e spirito, lungo memoriale al principe stese, in cui libertà scusando professava; che amantissimo qual era della patria, nato d’avi, e proavi re insieme e sommi pontefici, rispettoso sempre dell’altissimo al tempio, per sè, [p. 340 modifica]per la patria, per la nazione, la sovrana clemenza e pietà implorava.

LX. Ricordassesi che suoi avi, Agrippa e Tiberio Augusto proavo, Giulia bisavola, avean tutti la giudaica religion favorito: Agrippa in Gerosolima iva ogni dì al sacrosanto tempio, e la veneranda maestà e la santità ammirandone de’ sacri viti, avealo di doni adorno; Tiberio non avea pur voluto restassero nella santa cittadella gli scudi d’oro, di nulla imagine segnati, e di solo titolo a lui nella reggia d’Erode da Pilato dedicati, ma che trasferissersi a Cesarea: Augusto non sol permise a’ Giudei ch’aprisser dovunque lor sinagoghe, e lor offerte in Gerosolima mandassero, ma volle si svenassero per sempre a sue spese ogni dì vittime al sommo Dio: Giulia Augusta della pietà del consorte emula, avea tratto tratto mandato fiale, calici, e più altri doni di prezzo.

LXI. Pregava ei però istantemente, che principe, niente in virtù a’ suoi avi inferiore, l’imiti anco nel favorire i Giudei. Accusava i benefizj da Caio avuti: frante catene, regno concesso: vane grazie e fatali, profanandosi il tempio, pericolando religione, ch’ei chiedea l’antiche catene, anzi morte; viver non potendo se à Caio non piaccia: nè volendo, se spiaccia a Dio, e profanisi suo tempio.

LXII. Placò il principe l’antica amistà e quella nobil franchezza; ma non affatto ritrattossi; a Petronio scrive: non faccisi novità nel tempio, ma che possa ognuno fuor di Gerosolima a sè e a’ suoi alzar templi ed are; e chi s’oppone, puniscasi o si mandi a lui. Tal essendo peste d’empietà e discordie in Roma; di sua indulgenza pentissi; e ordinò [p. 341 modifica]quivi colòsso di bronzo, in oro, da trasportarsi d’imbolìo in Gerosolima, e dedicarsi nel tempio, quand’ei per colà passerebbe ver l’Egitto.

LXIII. Ciò ordinato, i Legati ammise dei Giudei d’Alessandria, più a beffe che per udirli; ciò non fia discaro riferir di piè fermo; onde per lampante esempio appàia che testa egli era. Sendo egli stato negli orti di Mecenate e di Lamia, ordinato avea s’aprisser tutte le ville; volerle vedere. Ivi i Legati accolse; che prostrati lo salutarono imperador Augusto. Ei guatandoli in cagnesco: „E voi„ disse „la divinità mi negate, che tutto ’l mondo confessa e adora; e a un Dio, che nè pur a nome distinguete, fate omaggio?„ Poi stese al ciel le mani, urlò, bestemmiò con orror de’ Giudei; ma la turba degli Alessandrini ripetea: „Gaio Dio, Giove, tutti i numi son lui solo.

LXIV. Insistea Isidoro ch’ogni altro popolo fuor di loro avea sagrificato pel principe. Sdegnati essi all’indegna accusa, esclamano: che son soperchiati; che tre volte al suo salire al trono, per la racquistata salute, per la vittoria Germanica, han sacrificato nel sacro fuoco l’ecatombe, non mezza, com’altre nazioni, ma intera. Tuttavia in ira duolsi Caio, ad altri che a sè aver essi sacrificato; e passeggia, e mira le sale, i gràn tinelli, i ginecei, i solai, un per uno: e qui approva, là condanna, là vuol si cangi, seguendolo tra’ motteggi degli avversari i Giudei. A’ quali a un tratto rivolto: „Perchè non mangiar voi porco?„ riso e plauso degli Alessandrini; scusa da’ Giudei su i patrj riti; buffona il principe, e tosto in serietà, „Che giustizia pretendete in Alessandria?„ [p. 342 modifica]

LXV. Essi la preparata aringa recitavano a provar lor dritti per quarant’anni di possesso, quando ratto ei fugge, e su e giù per la vasta reggia, ordina si chiudan le finestre a vetro bianco simile a pietra trasparente. Poi bel bello a’ Giudei ritornando: „In somma che dite?„ Riepilogando essi il già detto; eccolo tosto al tempio, che d’antiche pitture ornava. Tornato in fine, nè sì fiero, ma impietosito: „Infelici!„ conchiuse „o più che malvagi, imbecilli, a non capire come partecipe io sia della natura di Dio!„ Dopo che, parte; e i Legati congedansi, stomacati a tanta leggerezza; ma lieti, chè non pur della causa, della vita anco disperavano.

LXVI. Uscente l’anno pagò Apelle delle male arti il fio; e stretto in ceppi e più giorni alla ruota martoriato, onde a lungo soffrisse, quanto fu prima a lussuria mantice, tanto servì a crudeltà di giuoco; non raro, ma sempre inefficace esempio; se di più incentivo a peccare è la fortuna presente, che di freno la tema d’infamia avvenire. L’anno stesso Ponzio Pilato, due anni pria rilegato a Vienna, diè fine da sè a’ suoi dì, neri per la memoria dell’antica dignità, pe’ suoi rimorsi, per insoffribil noia.

LXVII. Caio Cesare la quarta volta e Senzio Saturnino entran consoli con infausti auspicj, chè sacrificando Cesare a calende di gennaio, mancò alla vittima il fegato. Altri prodigi pur si sparsero, più per tedio del principato, che come veri. Ma non tacerò quel che Plinio famoso storico naturale riporta; nè i soli fatti veri, ma anco i riferiti da autori di conto, se bene men verisimili, riportar deve un annalista. Tornando dunque Caio da Astura in Anzio, fu voce che tutta la flotta facendo vela, [p. 343 modifica]la sua cinquereme sola stè ferma. Stupito ognuno che ostacolo si frapponesse allo sforzo di quattrocento remi, fu chi usci di nave a cercarne; e trovata una remora attaccata al timone, mostrolla a Caio, che dallo sdegno, ch’un mezzo piè di pescetto lo fermasse, passò allo stupore; come stretto di fuori al legno potesse tanto, tratto dentro, nulla.

LXVIII. Bazzecole per altro, da non far breccia in Caio, che tanto le sventure agognava, quant’altri le felicità; uso dolersi della sciagura de’ suoi tempi, non nobilitati da fame, peste, rotte d’eserciti, incendi di città, rovine di paesi, qual sott’altri imperadori. Ma sovra lui tornato a Roma caddero i mali che a’ popoli pregava. Da diverse ragioni il nefando attentato ordissi; caddevi Emilio Regolo da Cordova, per odio al principe; Annio Minuciano, per vendicar Lepido, e sottrarsi all’imminente colpo; Cassio Cherea, d’antica austera probità, di cui non v’ha di meglio al bene, nè di più audace al male; per sua negletta virtù, per la stessa benevolenza di Caio, più nimico.

LXIX. Ciascun d’essi, chiunque sapea offeso da Caio, si fe’ socio; non a causar periglio, ma a più fortificarsi colla lega. Il più invasato, Cherea tribuno de’ pretoriani, a osservar tutto, le libidini di Caio, gli arcani dei sacri riti, l’asprezza delle taglie, il lutto del popolo, i suoi propri torti (che per umanità e moderanza a esiger l’imposte, dal principe, scemo di tutto il virile per ostentarsi donna, di mollezza venia tassato, e ove il segno chiedea, Venere, Cupido, Priapo, n’avea sempre); a tutto esagerar per delitto e giusta cagion di congiura; con lodi ed esempi ad animar i complici. [p. 344 modifica]

LXX. Per poco non guastò lor tela il caso; che un tal Timidio, di fellone accusò Pompedio, insigne senatore per cariche esercitate, allor tutto in poltrire su i dogmi epicurei, ma pur tinto di congiura per aver con oltraggiosi sensi beffato il principe: e chiese a tortura esaminassesi Quintilia, per cose da teatro, venal bellezza, pratica di Pompedio, e più altri, famosa. Assentì Caio: e a far acerbo al sommo il martore, Cherea ne incaricò, che più tormenti userebbe, più che abborìa le sì rinfacciate colpe di mollezza.

LXXI. Fu tal nuova un fulmine a’ congiurati. Molti, per intender che speme, o timore per lor v’era, a Quintilia s’affisero, che portavasi a cullarla. Ella, più de’ più forti coraggiosa, presse col piede il piè d’un congiurato, e ad occhio cennò che sarebbe salda a tacere in tutti i strazj. Cherea avvenutosi in grande anima, tanto più scempiolla, che vedea questa la certa scorciatoia a dar al principe l’ultimo tuffo. Quintilia poi mal concia, ma salda e magnanima, condusse a Caio. A vederla egli, impietosito. Pompedio assolve, e lei compensa dello spasimo e della guasta beltà con oro.

LXXII. Ma Cherea ardente pel rischio e per la violenta crudeltà, va da Papinio tribuno, e da Clemente, capitan della guardia, e sì parla: „Alla sicurezza del principe sin qui noi travagliammo: spegnemmo col ferro gli insidiatori di sua vita, o con tai martori li cruciammo, che pietà farebbono a’ più inumani; ed è questo, è questo di nostr’armi il grand’obbietto?„ Arrossò Clemente, cui sul volto leggeasi la vergogna che di quel governo patia; ma tacque per non rovinarsi coll’odio del principe. [p. 345 modifica]

LXXIII. Più ardito Cherea, credendo a vincer facile chi mostra rossore, duolsi: d’esser essi non pur le lance del fierissimo principe, ma l’amici; contro libertà e patria armati, del sangue romano tuttodì bruttarsi; nè con tanta infamia comprar anco sicurezza con principe sì ombroso, e d’umana carne affamato. Coraggio una volta, che la comun salvezza assicuri.

LXXIV. Lodalo Clemente; ma: „Silenzio e tempo,„ dice „io pel peso degli anni a tant’opra men atto, troverò più certi mezzi niuno ti parlerà più da galantuomo;„ e si divisero di diverse idee occupati. Clemente riflettea su ciò ch’avea detto e udito; Cherea, indarno quasi tentata del prafetto la fede, più precipitoso tira dalla sua Corn. Sabino tribuno e Annio Minuciano di cospicua dignità: senatori v’aggiugne, cavalieri, soldati: Callisto v’entrò anco, primo nella grazia di Caio, e de’ liberti il più ricco; tanto più pronto a tutto quanto di sua fortuna più superbo e più avido; del tradimento la vergogna e’ palliava coll’atrocità d’un delitto non so se vero o falso, cioè d’un ordine datoli da Caio d’avvelenar Claudio.

LXXV. Tanti congiurati cresceano ardire, ma i consigli ritardavano; chè ognun l’intendea, com’avviene a suo verso. Cherea solo opinava: „E’ d’uopo, sovra tutto, far presto; indugio porta periglio; si son perduti comodi incontri; poteasi Caio uccidere al suo salir in Campidoglio a sacrificar per la figlia: precipitarsi dall’alto della reggia nel gittar danaro al popolo: opprimersi quando solo e incauto sue secrete sacre funzioni celebrava. Del resto non abbisogno io già di soci o d’armi, ho dal ciel [p. 346 modifica]forza, da solo e nudo uccider Gaio, e salvar la patria.„

LXXVI. Applaudon tutti all’intrepidezza; ma pregano, per troppa fretta non pongasi in rischio il progetto, onde il riparo al male, altro maggiore e irreparabile ne tragga. Esser ornai i giuochi Palatini tempo attissimo al tiro meditato; in cui Roma attenta agli spettacoli, la berrovaglia niente sulle sue, o dall’angustia impedita de’ luoghi, dava onde ferir Gaio a man salva. Quetossi Gherea, se ben impaziente, e col tempo l’ira fomentando, il concertato dì primo de’ ludi attese. In fin venpe; ma per vari accidenti che frastornaro, nulla partorì: nè pure i quattro seguenti per costernazione e disparere de’ congiurati.

LXXVIl. Cherea, fremendo, convocatili in corpo l’incoraggisce, ricordando la giurata fede, il timor di tradimento, di Gaio il furore che faria d’ogn’erba fascio, l’immortal gloria di lor impresa. Fatto poi silenzio, e sorpreso a vederli spericolati e muti; in qualche sdegno: „Che badate,„ riprese, prodi campioni? è già de’ giuochi l’ultimo dì; Caio svenati i nobili tutti, i migliori, parte per Alessandria, a far pompa per terra e mare di sue libidini, e dello scorno di Roma. Massimi orrori a udirsi! enormi vergogne a tollerarsi!. L’Egitto stomacato di quel mostro ne trarrà forse vendetta, e la farà a noi di mano nel glorioso incarco. Sordo a’ vostri avvisi, sacrificherò io me oggi alla comun salute, certo dell’esito, e che sola infelicità e vergogna a me fia, se vivendo, d’altra mano che dalla mia Caio pera.„

LXXVIII. D’ira e rossore accesi tutti la fè [p. 347 modifica]rinnovano; venia al ritardo col mostrar cuore conciliando. Qui il duce Cherea s’arma di spada, e va a palazzo a prendere, alla militare, il segno. Non più lieto mai nè affabile il principe; o che natura del mal presaga gli ultimi sforzi facea di virtù, o perchè più dolce ghigna fortuna più che fella aguata. Poichè il dì stesso 27 gennaio era stato là tratto L. Cassio Longino d’Asia proconsole da lui di provincia richiamato per avviso della fortuna d’Anzio: si guardasse da’Cassj. Coll’imprigionarlo, e a suo grado ucciderlo, sicuro ei si credea della vita e del trono; nè vedea che gabban gli oracoli, non difendono.

LXXIX. Fatti dunque a D. Augusto i sagrifizj usati, a’ giuochi assistè. V’era in più coi tribuni Cassio Cherea, di Cassio Longino più da temere: a seder gli altri congiurati, a farsi cuore intenti, e a dileguar quel che già si bucinava della vicina festa. Da sanguinósa azion teatrica, e da piena idea di fìnta morte, ingazzullito Caio, uscito al bagno, e a pranzo sulle sette, era co’ nobili garzoni, di Asia chiamati a rappresentar teatrali opere, quando Cherea chiesto il segno della milizia, e avutone un laido: „Te„ disse „la ricevuta;„ e un fendente gli menù tra omero e collo. Egli sbalordito cerca scampo; ma gli è sopra Corn. Sabino, e lo strammazza col motto della congiura gridando: „Ripeti„. Giacendo Caio, e sclamando: che sia vivo; a un tratto da trenta ferite è spento. Disse altri che Cherea a più colpi gli diè sul collo, con dir pria: Sta qui:„ e di dietro Corn. Sabino passogli il petto; certo il colpo di morte lo recò Aquila.

LXXX. Perì Caio su’ ventinov’anni, dopo quattro [p. 348 modifica]in circa d’impero. Avrebbonlo i genitori formato a virtù, se a mostruosi vizi nol trainava l’indomabil sua indole. Fu d’alta statura; il resto mostruoso; mal colore, grinza fronte, occhi affossati, crudi, torvi, deforme capo a capelli posticci, setoloso collo, sottili stinchi, piè smisurati. Rendea fiero ad arte il volto, per sè orrido e tetro, e allo specchio componealo a terrore. Ma più fiero era l’animo, testa balzana, indole volubile, d’incredibili cose avida. Garzone ancora, stuprate le sorelle, dicesi che di Antonia la casa ebbe a scuola di libidine: giovane apparò a Capri l’eccessi della voluttà, de’ sospetti i misteri, le sanguinarie leggi. Principe gabbò pria colla liberalità, gaiezza, popolarità, e altre larve di virtù, che danno in vizi. Per mal talento poi, e libidine di dominare, a soddisfarsi fe’ smodate strane voglie, a usarsi a nefandezze; presovi gusto, a cercar di peggio; e mostrò in corto regno che possano gran vizi in gran fortuna. Coll’invidia le scienze corruppe; col lusso adulterò l’arti; coll’esempio fe’ guasto de’ costumi; colla baldanza funestò di libertà i residui; rovinò quasi l’impero colla stoltìzia e crudeltà; inetto cittadino, furioso principe, soperchievole, prodigo e crudele, religioso ed empio: di vita, di morte, di memoria, infame1.


fine del libro ottavo

  1. Vedi qualche tratto del carattere di questo bestial uomo, nel libro VI, cap. 20.