Annali (Tacito)/IX
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LIBRO NONO
SOMMARIO
- Anno di Roma dccxcv. Di Cristo 42.
Consoli. Ti. Claudio Cesare II. e C. Cecina Largo.
- An. di Roma dccxcvi. Di Cristo 43.
Consoli. Ti. Claudio Cesare III. e L. Vitellio II.
I. Cajo estinto, e scappati soppiatto gli uccisori in casa Germanico al Palazzo vicina, i Germani, guardia del corpo, al tumulto e allo strepito accorsero. L’innata lor fede e ferocia, lor viva memoria o speme della liberalità di Caio, correr li fa a tutta briglia alla vendetta. Asprenate senatore, primo a incontrarsi, va in pezzi. Norbano nè da sua dignità nè da’ pregi aviti salvo; difendendosi, muor da uomo: da poltrone Anteio vilmente, avido di vendicar le domestiche onte collo spettacolo del cadavere. Più altri rei e non rei, trucidati.
II. Va intanto la fama del caso al teatro: e, per l’indole o fortuna d’ognuno, fa vario colpo. La plebe crede sàlvo, o estinto piagne il principe ai giuochi intento; gli schiavi, i fabbri d’iniquità, temono per le dinunzie e male arti: patrizi e nobili, schivi del crudèl governo brillan entro, fuor tristi; i complici della congiura tacciono; molti di spacciar fole vaghi, o sperando ne’ garbugli, davan ferito Caio, ma vivo, e in man di chirurgo; altri, che tutto sangue è nel Foro, il popolo a vendetta destando, e a far man bassa sugli ottimati.
III. Crescea quinci il terrore; ma più, quando i soldati germani cinsero a spade nude il teatro, e all’ara infilzati degli uccisi i teschi, mostraro qual sovrastava nembo. Ognun pregava perdono e vita. La temerità, che in casi disperati può assai, improvviso recò sereno e sicurezza; chè un tal Arrunzio, banditor famoso d’incanti, ond’era ricco, in gramaglia, e con funebri lai, va in teatro gridando: „È morto Cesare„; poi girando per la soldatesca, le intimò a ripor le spade. Così a questi il furore, agli altri lo spavento, mancò di colpo.
IV. Di par guisa cessò il tumulto per città. A’pretoriani, che ivan per tutto tracciando gli omicidi, e al popolo costernato, escì incontro Valerio Asiatico consolare, è in piena udienza; „Oh fossi stato io a ucciderlo„, sclamò. A tanta franchezza queti gli spiriti, in pubblici rimbrotti a Caio ruppèro. Crebbe l’ardire, quando il mentovato Clemente rimandò Minuciano, e gli altri senatori complici a sè addotti; protestando esser Caio per sua mano spento, non de’ Romani; all’ucciso principe infestissimo, se pria timido.
V. Ma Senzio Saturnino, e Pomponio Secondo, consoli, a più grave obbietto fisi, la Curia sdegnando per dirsi Giulia, occupato il Campidoglio e ’l Foro, e ordinato all’urbane coorti di vegghiare a sicurezza del senato, editto proposero ontoso a Caio, con promessa al popolo di scemar l’imposte, a’ soldati di regalo, se ognuno a casa ritraessesi, da trambusti e ruberie cessando. Adunati poi i Padri, della forma trattaro del governo. Chi volea abolito il nome de’ Cesari, distrutti i templi, rimessa la libertà; chi la continuazion dell’impero; e questi in vari partiti chi un principe chiedea, chi un altro, giusta loro spemi e fortune. Ognun del suo progetto pugnando, il resto del dì e la notte fer correre, e uscirsi di mano libertà.
VI. Caso, non consiglio portò Claudio, all’impero. Atterrito alla nuova del fatto, era egli corso alle logge del palazzo, sofficcatosi tra le portiere; quando di là a caso passando un soldatello, e visto i piedi, curioso chi fosse, il riconobbe, e vedutoselo per timore a’ piedi, lo salutò imperatore, e ai compagni il menò. Dal furore alla venerazione a un tratto passando, mettonlo in lettiga, e a vicenda reggendola, al campo lo portano, tristo e smarrito, e da chi l’incontrava, commiserato, come innocente tratto al patibolo. Fra’ baluardi accolto in mezzo alle guardie passò la notte in timor più che speme.
VII. Poichè i Padri fra libertà e nuovo padrone incerti, dibatteanla ancora; e Senzio Saturnino console tutti a libertà avea quasi animati, ad abbracciar esortando quell’inaspettato dono del cielo, della fortezza di Cassio Cherea frutto, a segnalar quel dì, glorioso ad essi, a’ posteri lieto, per tutte età future: „Badate a’ mali della schiavitù da Giulio Cesare introdotta, sotto Augusto e Tiberio aggravata, venuta al colmo sotto Caio. Lo scettro, nemico a virtù, è capriccio, è despotismo: la repubblica sugli studi e premj de’buoni cittadini ha base, è in voi, che riviva libertà, o eterno giaccia„. Finì: „Che’ che ne pensate: di libertà i vindici, Cassio Cherea massimamente, dei condegni onori fregiate„.
VIII. Diè la presenza di Cherea peso al discorso: e a notte già piena, venuto ai consoli, chiese il nome, e n’ebbe libertà, a comun gioia, per innovarsi quel distintivo della consolar podestà e della repubblica, da tanti anni interrotto. Poi, a tutto sterpar di Caio il germe, Cherea Giulio Lupo tribuno spedì Cesonia e la figlia a tor di vita. Era la madre a questa a lato, presso al morto marito, di sangue lorda e dolente, ch’ei non avesse suoi consigli ascoltato. A vedere il Tribuno (cui cercava indarno far pietoso ver l’ucciso principe) star duro, e intimarle morte, intrepida nudò il collo, e cielo e terra scongiurando, porselo al ferro a que’ pianti, e costanza, se a donna è a credere, delle crudeltà del marito, e degli apposti delitti innocente protestandosi. La figlia fu sbatacchiata al muro.
IX. Intanto rapportasi a’ Padri di Claudio l’avventura. A non autenticarla col silenzio; mandan tosto Legati Veranio e Brocco, tribuni di plebe, a persuader Claudio a nulla attentar contro l’autorità del senato; a ricordar i guai dello scorso governo, da lui spesso, provati, onde scevre di viver sicuro e glorioso in repubblica anzi che’ farsi con taccia e rischio estremo ad imperare. Aver la repubblica milizie, armi, e mille soccorsi; e, ch’è più, propizi i Numi (de’ quali è proteggere il giusto e l’onesto) a difendere della patria libertà i vindici.
X. Al minaccioso ceffo de’ pretoriani, smarriro i Legati; e sapendo inferiori le truppe consolari, a piè di Claudio prostesi, preganlo a non esporre a guerra e a strage Roma; se ama l’impero, vada al senato a palesar suoi sensi: a fronte di sempre odiosa, spesso luttuosa tirannide, un principato prenda a lieti auspici, e a comun benevolenza appoggiato. Già Claudio, di poco spirto e talento, pendea dalla moderazione; ma l’incoraggì la ferocia de’ soldati, d’Agrippa re la sagacità, la stessa agonia di regnare, che negl’imbecilli anco può: „forza e necessità mi strigne„, rispose a’ Legati.
XI Nel pusillanime non si fidando, l’arti sue celava sì Agrippa, che tener mostrando dal senato, sottomano trafficava per lo scettro. Da’ Padri chiamato a dir parere sull’importante caso, venne a Curia e: „Che n’è di Claudio„? dimandò, facendosi nuovo e saputone, pronto affermossi a morir pel senato, e per la libertà; „Ma, rematico è l’affare; vi vuol truppa e oro„. V’è tutto,„ rispondono i Padri. E Agrippa, „Truppa sì, ma nuova, nè disciplinata; quella di Claudio è di veterani e sperti: è da gir con piè di piombo: piacevi che parli io a Claudio? lo persuaderò a rinunzia„.
XII. Da lui venuto, informato dell’ondeggiar del senato, della diffalta di truppe e d’altro, che fa della repubblica il nerbo; e a sensi lo sprona degni della casa regnante. Dalla facilità della cosa e dal suo utile vinto Claudio; risponde a tuono a’ Legati: „Che ’l senato coi passati principi abbia ira, è ragione; sarà tutt’altro sotto me, che per età, fortuna, esempi, indole, ho scuola migliore: io l'impero, comune con voi arò il potere; nè temer dovete da uno del vostro corpo e partito„. Congedatili poi parlò a’ soldati, e fattasi giurar fedeltà, quindicimila sesterzi a ciascun promise; primo dei Cesari ad ingaggiar con premj lor fede.
XIII. Alla risposta di Claudio, da’ consoli furon convocati al tempio di Giove Vincitore i Padri. Molti il tracollo di libertà prevedendo, ascosersi in Roma, o preser campagna, per provvedere a sicurezza meglio ch’a dignità. Non furon che cento gli adunali, ma in soggezion della milizia, ch’a gran voci chiedea un principe, non volendone tanti, poco e mal gradito, per la libertà perorò Pomponio console: gli altri trattarono del principato; poichè v’aspiravano alcuni, tra gli altri Marco Vinicio, per nobiltà e per la moglie Giulia, insigne, e Valerio Asiatico più che d’autorità, d’ardire; ma l’un dell’altro in timore non fer mossa; e poi crescea di Claudio il partito a momenti, e temeasi che, dandosi all’armi, Roma gisse in aria, o disertando già i soldati, fospur tratti a vituperosa morte. Onde convennero in Claudio i Padri e la truppa; ringhiandor in van Cherea che finisser li tanti sforzi per la libertà, e ucciso un frenetico, s’assuma uno stolido; ch’e’ recherà loro se vogliano, la testa di Claudio. Sabino pur minacciava di prevenir colla morte tal infamia.
XIV. Vane bravate; più che tardi all’ossequio, più al servaggio proni van giù i Padri, e corrono, dietro Pomponio, al campo. Ma i soldati per astio al consolo, promotor di libertà, sguainate le spade, eran già per finirlo, se non sel mettea Claudio da lato. Altro che civiltà co’ senatori, anzi ripulse, beffe, busse; e Aponio toccò ferite. In tali intempestivi non dicevoli rigori prorompea il principe mal pratico a regnare, quando sorvenne Agrippa, e l’avvertì: „Per ora non con onte, con onori è a punir il senato„.
XV. A tutto facile, a palazzo i Padri chiama, ov’ei per mezzo a Roma in lettiga è portato, da soldati cinto, altieri e insultanti al popolo per aver dato all’impero il capo. Malgrado l’editto di Pollione, nuovo prefetto del pretorio, che non escissero in pubblico Cherea e Sabino, vi furon essi; più nella mira di schernir il governo, a quello spregio di legge, che di tentar novità. Giunto a palazzo, parlò Claudio di Cherea cogli amici; che di forte lodatolo il dier reo di morte, ad esempio; e già ita oltra l’adulazione, è quegli dannato alla testa, non per uccisor di Caio, ma per empi consigli contro Claudio. Franco, nè alterato pur di colore, a fermezza Lupo esortando, d’impresa sazio e di pena, ma non sì forte, va al supplizio, e vuol che lo stesso ferro il boia usi ond’ei Caio spense. Si in faccia a morte intrepido è fluito d’un colpo; più ve ne vollero per Lupo men di lui costante. Sabino, sdegnato l’offerto perdono e dignità, troncossi la vita, a sfregio avendosi sopravvivere a Cherea.
XVI. Intimidito alla costoro ferocia il principe, a punir si fe’ i soldati più ardimentosi: a cattivarsi con benefizj i senatori, e altri suoi contrari; nè ancor sicuro di vita e scettro, visitar facea a gran rigore chiunque a salutarlo venia: nè esciva a pranzo che tra guardie in armi, e facendovi da ministri i soldati; altre pur ne inventò per timore; adottate poi a maestà de’ sovrani. Ma pose freno a’ sospetti il torre il delitto di fellonia, perdonar l’antiche offese, minuir non poco, a più farsi grato, le imposte.
XVII. S’accrebbe favore al produrre due libelli di Caio, opera di Protogene, intitolato uno il pugnale, l’altro la spada; contenenti i distintivi e’ nomi de’ più scelti senatori e cavalieri da uccidere: e quelli colle celebri lettere, che Caio bruciar fìnse, bruciò in pubblico, e Protogene a Roma sacrificò. Addoppiò anco a sè lode e general benevolenza, a Caio indignazione per l’inaudita malvagità, al sommerger gran cassa di veleni, tra la più secreta suppellettile di Caio trovata; e tal n’uscì peste, che se ne disse infetto il mare a danno de’ pesci, dalla marea gittati morti ne’ vicini lidi.
XVIII. Qui a dirsi tutti dal principe salvi; a decantar nel fratello accolte le virtù di Germanico, la speme del roman popolo; ei poi, a ricusar non che i divini, i soperchi onori, a usar le sole insegne dell’impero, poche e moderate statue permettere: „Queste„ dicea „imbarazzano i tempj, le strade, i pubblici e privati edifizj, i cittadini„. Con tal buoni tratti sodatosi il trono, badò seriamente a cancellar di quei due di la membranza, ne’ quai si stè in forse di cangiar forma al governo. Quanto dunque si fe’ allora e si disse, dichiarò in perpetuo obliato e perdonato; e, come al principe accrescon rispetto gli uffici di religione e pietà, decretò a Livia ava divini onori e pompa circense, con carro ed elefanti; a’ parenti pubbliche esequie; al padre i giuochi circensi nel dì natale. Nè trascurò senza onore e grata menzione Antonio, dicendo nell’editto: Con tanto più ardore voler ei si celebrasse del padre Druso il natale, quant’era pur quello di suo avo Antonio.
XIX. Aggiunse alla madre un cocchio da girvi pel Circo, e titolo d’Augusta, da lei, più di virtù che di lode, amica, rifiutato; e nuovi onori alla memoria del fratello in ogni occasion celebrata. Ribandì1 Agrippina e Giulia. Gran rispetto anco a’ primi imperadori professando, giuro non istituì più sacro e frequente, che per Augusto. Compì a Tiberio l’arco di marmo, al teatro di Pompeo, decretato già dal senato, ma omesso. Tutti annullò di Caio gli atti, e ne spiantò a notte le statue; ma vietò l’infamarlo, e far festa il dì che fu ucciso, se ben primo di suo principato; editto che salvava la dignità del principer, l’odio ai misfatti.
XX. Nè studiò meno a mettere in pregio a’ re esteri il nuovo scettro; ad Antioco Comagene, e parte di Cilicia, da Caio data e tolta; a Mitridate Ibero, re d’Armenia, ch’era in ferri, pria libertà, poi il regno, rendendo. Diè anco a Polemone re del Bosforo la Cilicia, per dare il Bosforo a Mitridate, germe del grande. Ma, come esimio d’Agrippa il merito, fu la ricompensa; oltre al confermarlo ne’ regni già avuti, la Giudea e Samaria v’aggiunse, a lui l’insegne consolari, al fratello Erode le pretorie accordando, e più privilegi ai Giudei.
XXI. La stessa bontà le città provarono, cui le statue rese, da Caio rapite. Nè schiavo d’interesse, vietò l’istituir Cesare erede a chi avea parenti. In fine, ch’è ben difficile in nuovo governo, con giusto mezzo tra gli estremi di rigore e di lassezza, vari fe’ decreti, per osservanza delle leggi, tranquillità de’ cittadini, moderanza ne’ giuochi; gran modello e sprone insieme ei stesso di modestia nel rispetto a’ consoli e benignità ver tutti.
XXII. Bell’alba certo, ma tosto offuscata per le libidini di Messalina, insolenza de’ liberti, poca testa di Claudio; che debole di natura, servilmente educato, più letterato e colto che a principe di mezzano animo sta bene, poco di suo giudizio, e per la maestà dell’impero, il più d’altrui impulso oprò, o da cieco timore o da impeto; e sarebbesi a stento tenuto in trono, se non reggessero da sè qualche tempo i gran reami, e non avessero i Legati degli eserciti posposto un’ovvia, ma turpe fortuna a un più glorioso ossequio.
XXIII. Spiccò tra questi Sulpizio Galba della superior Germania Legato. Benchè da molti a novità impinto, e a gran colpo, saldo in dovere, difender anzi volle, che usurpar l’impero; e, vinti i Gatti, con questo, e colla fede, l’ultima grazia meritò del principe. Rival nell’onore P. Gabinio, della bassa Germania prefetto, debellò i Caici. Per colmo di giubilo la sola aquila ch’ai nemici restava dalla disfatta di Varo, ei riportò; indi detto Caicio. Claudio poi in sicuro, senza pur veder campo, per le due vittorie è salutato imperadore. Col sopraffino dell’adulazione volsero in suo vanto i liberti le sollevazioni di Mauritania, anzi la mòrte di Caio attutate: e ’l persuasero a prenderne le trionfali.
XXIV. Ma tratto più reo meditava Messalina, che per izza contro Giulia, di beltà, nobiltà, parentela con Claudio, insigne, soffrir non sapea quell’anima altera, a sobbarcarsi incapace all’imperiante fortuna. Feminil astio da pria; ma vinse, all’usato, la forza; e a nuovo esigilo balzata fu Giulia di vari delitti, anco adulterj, più infamata che convinta. Anneo Seneca in questi involto, ha confino in Corsica; facile a scusarsi per fama di dotto e per l’alterezza di Giulia; se con ingegnosi scritti, preci adulatorie, amari sarcasmi, non conciliava ei stesso fede all’accuse.
XXV. In tai scombugli, diè Claudio a Gn. Pompeo Magno Antonia, delle sue figlie: Ottavia promise a L. Giulio Silano, con poca solennità e peggior esito. Diè a’ generi il sol grado de’ venti; e alle ferie latine la prefettura di Roma. Tardi li abilitò alle magistrature cinqu’anni pria del tempo. L’anno stesso nacquero, dispari d’origine e di fato, di costumi e studi pari, intimi d’amistà, Britannico e Tito; con mirabil giuoco di sorte, che d’ambo le vicende regolar parve sì, che l’un più dell’altro si fer desiderare: Britannico da Claudio e Messalina ai dì venti del paterno impero; Tito da Vespasiano e da Flavia Domitilla, a’ 30 decembre.
XXVI. Claudio Cesare la seconda fiata, e Cecina Largo consoli, giurarono negli atti d’Augusto. Vietò Claudio il giurai’ ne’ suoi: e prorogata d’un anno la carica di Cecina, ei dopo due mesi rinunziò; giurato nulla aver fatto contro le leggi, con più vanità che verità; chè, console o no, assiduo a giudicare, talor dalle leggi deviava per equità, per leggerezza talora, e quasi da scemo. Fe’ però nuove leggi utili, da buon politico: Che i rettori di province, usi restar a lungo in Roma, vadano in residenza pria d’aprile; nè della conferita dignità mercè gli dicano; protestando sè esser il principe, essi dell’impero i cardini: che presso lui grazia e lode avranno a tornar di provincia dopo egregio governo. Moderò la legge Papia Poppea, già da Tiberio mitigata, ma ancor duretta in quel lusso di Roma; ed esentò dalle pene de’ celibi i sessagenari che sposavan donna sotto a’ cinquanta. Provvide a’ pupilli, e ne appoggiò a’ consoli la cura, ch’era de’ pretori. A spedir le liti, uni pure gli atti legali, tra’ mesi di verno e state pria divisi. In fine per ben della camera, tre pretorj istituì, per esigerne i dritti, e littori v’aggiunse a più decoro. A religione più intento, i sacrifizj eleusini in Roma volle, dal peso oppressa di sacri culti; più lodevole nell’abolire i barbari riti (a’ cittadini già sotto Augusto vietati) de’ Galli, dal fanatismo de’ Druidi a placar avvezzi con umane vittime i numi, e nel tutta proscrivere tal superstizione. Poichè questa, soggiogato il mondo, nobilissima vittoria a’ Romani restava, di snidar le mostruose religioni, e’ vinti assoggettare alla ragione, e farli con dolce forza felici.
XXVII. A guerra intanto Svetonio Paolino faceasì nome in Affrica; poich’Edemone liberto avea ripreso l’armi a vendicar Tolomeo re da Caio Cesare ucciso. Di volo entrò Svetonio in Mauritania, per non dar sosta all’ardire. Atterriti i Barbari dal romano esercito, la prima volta che ’n lor casa pugnava, diero le spalle. Incalzati, che cercavano scampo; eccoti Atlante celebre ne’ poeti.
XXVIII. Svetonio, ad imitazion di Polibio bravo storico, che scorsi avea d’Affrica i lidi, veder volle il paese, e primo de’ romani duci, l’Atlante varcò d’alcune miglia; luoghi visitando, solo sin là per viril lussuria in rinomo. Sgannatosi, più che s’internava, delle favole, nè pur orma vide d’Egipani o Satiri; ma l’ime radici trovò del monte d’alti boschi folte, di nuova specie d’alberi, altissimi, senza nodi, levigati, di foglia quai cipressi, d’acuto odore, vellutata, nè a seta inferiore; la vetta, anco a state, di neve carca. In dieci posate quivi giunse, e tirò oltre ad fiume Ger, tra deserti di nera sabbia sparsa di macigni, come adusti; e v’ebbe, se ben di verno, caldi estremi; toccò le contigue foreste, da elefanti, fiere, serpenti a torme, infestate: e vide abitarvi i Canarj, che vivèan di viscere di fiere, minuzzate.
XXIX. Dopo tai scoverte, e atterriti più che domi i ribelli, tornò Svetonio a Roma, per poi provarsi con più pertinace nimico. La mauritana impresa compì Gn. Osidio Geta; e in più vittorie sovra Salabo, de’ Barbari duce, rintanatosi invano a’ deserti, si venne in fine a capitolare. In due province partissi, Tingitana e Cesariense, la Mauritania; destinativi per rettori due equestri. A conciliar gli animi insieme, e ad assodarne il signoraggio, fe’ Claudio colonia il castel Tingi, nomato, Giulia Trasferita2; lo stesso onor conferendo a Cesarea, già reggia di Giuba, e a Larache, gran temi d’antiche favole. Smembrati anco i veterani, fu eretto Castelnuovo, dato il Lazio a Tipasa, la cittadinanza a Rusucurio. Vinta poi e fatta in pezzi una truppa di Musulani, attentati turbar la Numidia, restò questa in pace.
XXX. In tanta gloria di Roma tra’ Barbari, piativa essa il pane, più pel lusso, e pe’ reati della Caiana stoltizia, che da sterilità di terra. Buono per natura, e timoroso della plebe, non più insolente che nell’abuso di quell’occasion di tumulti, alla pubblica fame pronto riparo diè Claudio, i mercatanti coll’esca del lucro allettando, e addossandosi il rischio del mare. Gli onori a più sprone aggiunse; a’ cittadini costruttori di navi da traffico accordando franchigia dalla legge Papia Poppea, a’ Latini la cittadinanza, il dritto de’ quattro figli alle donne; che poi intanto variar di leggi, da necessità e dall’uso protetti durarono.
XXXI. A prevenire i mali sul rischio che, rotto il mare, e incagliato il trasporto, altro nuovo caro tornasse, due opere di pari indicibil dispendio, di vario utile ed esito assunse. Che col dare scolo al lago Fucino, tentò indarno accrescer la campagna di Roma da infinite ville qua e là di dì in dì più ritretta; di scialacquo, reo, e contro a lusso, impotente. Con più felicità al porto d’Ostia diè mano, da Divo Giulio più volte stabilito, per difficoltà omesso, a compier serbato all’ottimo Traiano. Calcitravano gli architetti, ma vinse la sovrana autorità. Immenso scavo si fe’ che empissi di mare, con giunta di portentosa invenzione; affondandosi ivi, per ergervi sopra un Faro come l’Alessandrino, la massima delle navi, su cui d’Egitto portata avea Caio di Valicano la guglia, tre ordini all’altezza di torri fabbricativi sopra di pozzolana. Tra ’l lavoro, memorando avvenne raro spettacolo, smisurata orca di fiera dentatura in porto entrando. Più giorni di cuoi satolla, che di Galli a venendo naufragarono, s’affondò nello scavo, a volteggiar inetta. Dietro all’esca correndo, dai Rutti gittata al lido, col dorso fuor d’acqua uscia come nave capovolta. Di stupore pria, indi di trastullo fu il mostro; e più soldati v’ebber zuffa, presente il principe dai pretoriani scortato, a vista del popolo. Selva di lande gli trasser contro i legni, che giravanli attorno; e uno d’essi, sbuffando la bestia, coperto d’acqua, vi perì.
XXXII. Altro gener di giuochi vide Roma, per furor d’uomini non di fiere, e pel disonor del principe, infami, che finiron tosto in pubblico lutto. Poichè gli spettacoli in repubblica istituiti a far virili gli animi e i corpi, prevalendo la monarchia, cangiaronsi in crudeltà; e dal veder sempre sangue i principi a barbari capricci usaronsi. In tai giuochi gladiatori spogliò Claudio l’innata, e l’acquistata colle lettere sua umanità, più facilmente, quanto vantavasi vindice della schiavesca audacia, e di quel sangue il popolo gioiva. Spose dunque alle fiere schiavi e liberti, sotto Caio e Tiberio, famosi da false accuse contro i padroni; rei certo, ma da punirsi altramente; e tanti ne periro, che fe’ portar altrove la statua di Augusto quivi sita; per non dover sempre veder ella stragi, o star velata; impudente ad ordinare e mirar cose, che a scorno avea si facessero anzi la statua di Augusto.
XXXIII. A tante stragi incallito sgozzar fe’ sovente gladiatori, massime reziarj, per vederli in viso trafelanti. Da’ facinorosi e plebei saltò poi a’ migliori e più nobili; da Messalina e da’ liberti a crudeltà spinto, e per lor ressa ad audacia, sul timor d’imminente rischio, se mai barcollava. A tali aguati presero C. Appio Silano, reggente la Spagna. Dal principe chiamato, a Roma erasi reso, e sposata la madre di Messalina, sperar potea tutto, se men egli era di virtù, o men questa libidinosa. Ma abborrendola, perchè nè pur al materno talamo la perdonava, in odio ella volse il negletto amore, implacabile quanto brutale, e mancando reità da opporli, indettatasi con Narciso, fe’giocar l’impostura, eseguendo così le concertate parti:
XXXIV. Fingendo stupore, entrò Narciso anzi giorno da Claudio, affermando aver sognato Appio che assaliva il principe: „Il sogno stesso ho più notti fatto io,„ ripiglia da attonita Messalina. Poco stante, per misure prese, annunziasi ch’entrava con violenza Àppio, cui il dì prima era stato imposto di presentarsi; qual se s’avverasse a puntino il sogno, l’ordine fu, si chiami tosto e s’uccida. Il dì dopo, Claudio, non che del tradimento, della frode ignaro, narrò tutto fil filo al senato, e ’l liberto ringraziò, ch’ancor in sonno a sua salvezza vegghiasse.
XXXV. Qui in ira tutti, e in pavento di principe, per poca testa, crudele. I grandi che più corron rischio, e speran di più, meditan novità. Annio Viniciano che le brama, e per manco di truppa, non può, per lettera Furio Camillo Scriboniano, Legato di Dalmazia, ad abbottinarsi istiga. E più facilmente vel trasse, ch’egli aspirava all’impero, nè indegno n’era, e legioni e gran soccorsi avea. Dall’autorità mosse del generale, e dal lecco della novità, giurano a lui. Più senatori e cavalieri del partito, vanno in Dalmazia.
XXXVI. Più gonfio Scriboniano pe’ buoni principi d’amica fortuna, stimando che ’l timido Claudio anco senza guerra sbigottirsi potea, con onte e minacce gli scrive: „ Ceda l’impero, e ’n privato ozio si viva.„ Già ondeggiava quella lieve canna, e coi primai conferiva se ubbidire o no; quando giunse nuova: „Esser in fumo la fortuna di Scriboniano, nè potuto ornarsi l’aquile delle legioni, nè sverre e muover le Bandiere; i soldati da coscienza e da vergogna, di lor perfidia pentiti, aver adorata di Claudio l’immagine, rinovato il giuramento; Scriboniano forsennato esser fuggito in Lissa, e quivi in grembo alla moglie ucciso da Volaginio il dì quinto dalla ribellione„.
XXXVII. Da tai riscontri l’abbiosciato principe rinfrancato, a’ primi gradi militari sollevò da fantacino Volaginio; e ad animare a fedeltà la soldatesca, oltre i premj usati, volle che la settima e l’undecima legione dal senato s’appellassero Claudiane, Pie, Felici; con lode di provvido principe, se puniti gli autori pel delitto con gli altri dissimulava o li obbligava colla clemenza. Ma Messalina e i liberti, preso tal destro ad avventarsi contro vite e averi, a smodata severità l’adizzaro. Viniciano, e più altri, col troncarsi i giorni il giudizio delusero; il resto, senatori, cavalieri, uomini, donne, custoditi o carcerati: chiamati a deporre non solo schiavi, e liberti, ma ingenui pure, esteri e cittadini: messi al martoro anco senatori e cavalieri, benchè salendo al trono giurasse Claudio di non collar libero. Egli a’ consoli in mezzo, in seggio curule o tribunizio, assistendo i prefetti pretorj, presenti i liberti, riferiva al senato, la lesa maestà vendicando.
XXXVIII, Più donne, oltre gli uomini, giustiziaronsi in carcere; altre, ch’è peggio, quai cattive, carche di catene traeansi a’tribunali, e morte gìttavansi sulle Gemonie; Ma le teste degli uccisi eran solo fuor di Roma esposte. A’ figli donossi la vita; a certi i paterni beni. Ma l’odio del rigore crebbe dall’impunità dei più rei, che col favore e coll’oro compraronla da Messalina e da’ liberti; pel delitto infami e per la grazia.
XXXIX. Pochi forti la ferale scena illustrarono. Tra’ quali merita nome Galeso, di Scriboniano liberto, che tratto in senato parlò molto e franco: ed a Narciso, che surse in mezzo, e osò interrogarlo, che farebbe se Scriboniano regnasse, con forte risposta l’insolente bocca suggellò: „Dietro standoli tacerei.„
XL. Ma d’ogn’istoria degna è Arria, di Cecina Peto moglie. Da più pregi distinta, a Messalina molto in grazia, potea ella dal marito ritrarsi involto nella congiura, e sopravvivere. Ma posposta a morte vita, sull’imbarcarsi Peto, ucciso Scriboniano, per menarlo a Roma, pregò ella i soldati a tor lei pure: „Dar dovete„ disse „a consolare valletti che’l cibino, il vestano, calzino; farò tutto io.„ Non ascoltata, noleggia una barchetta peschereccia, e in quel guscio d’uovo segue il gran naviglio.
XLI. Tosto giunta a Roma, va ad aringar presso Claudio: e la moglie di Scriboniano, accinta all’accusa, sgridando: „Io,„ disse, ascoltar te, in cui grembo Scriboniano fu ucciso, e pur vivi?„ Tanta franchezza ammira, e teme il genero Trasea: e quasi dell’avvenir presago, pregala non darsi morte, onde a morir astringa col marito la figlia, se tal sorte gli tocchi. Più coraggiosa Arria più che la figlia amava, „Mai sì, rispose, ove tanto, e in tal armonia viva ella teco, com’io con Peto.„
XLII. Addoppiasi a tai sensi la cura dei suoi, e le fan più guardia. Se n’avvede ella e duolsene: „Che è ciò mai? Ben far potete ch’io muoia male; che non muoia, no;„ e rittasi in piè, dando impetuosa del capo al muro opposto, cadde perduta dei sensi, ma costanza serbando; chè a sè tornata,„ vel protestai, disse, che trovata avrei qualunque dura strada a morte se una facile mi negavate.„ Sì sforzandosi a morire incontrò sorte; chè intimata morte al marito, abborrendo egli altrui colpo, e pur non saldo a darselo, col pugnale già tastando il petto, presente Arria; che strettolo in mano, tralissesi il seno e cavatolo: „Te’, non duol, Peto„ disse e spirò.
XLIII. In dissimile, ma pur singolar caso, andò chiaro Lucio Ottone, che saldo in dovere, certi soldati nell’Illirico (che nella ribellion di Scriboniano pentiti, uccisi avean lor uffiziali, come autori di fè mancata a Claudio) osò punir della vita, e ciò anzi le principia, sè presente; benché per ciò stesso a maggior grado promossi altri da Claudio sapesse; gloria mercandone cogli sperti di militar disciplina, ma cadendo di grazia al principe. Questa non riebbe solo, ma aumentò a gran lode d’antica severità, a massima d’intera fede; i rei disegni contro lui scoprendo d’un cavalier romano, come cadrà a taglio di dir l’anno appresso. In questo, morto un dei tribuni, gli altri, in faccia pur a’ consoli sonaro a senato per surrogar il nuovo.
XLIV. Sotto Tiberio Claudio Cesare, il terz’anno, e L. Vitellio, il secondo, consoli, era all’eccesso il novero de’ dì festivi e solenni. Ripresse Cesare, non estinse, il disordine cominciato da pietà, cresciuto colla licenza, pullulante tutto di per adulazione; anzi peggiorando il costume, rinverzì con maggior danno di religione e dello stato. Abolironsi pure i vituperj che restavano di Caio, reso quel che a torto avea egli donato o tolto. Riebber anco i soprantendenti delle vie colla dignità il danaro, con multe ed incanti da Corbulone estorto. Temprata un po’ la legge, fu ordinato, i rettori di province pria di mezzo aprile escano al lor governo.
XLV. Ma s’usò rigor co’Licj che, rinnegata l’antica modestia, erano in ruinosi discordj con morte d’alcun Romano. Lor si tolse libertà, merito di lor fede e costanza quando tutti i mari i pirati infestavano. Fu la Licia annessa alla Panfilia, tanto allor fida, quanto stata era co’ pirati a parte anzi la vittoria di Gn. Pompeo.
XLVI. Occupato in tal causa Claudio in senato, parlò latino a un Licio, cittadin romano, che non ne sapea; sdegnato, il cassò di cittadinanza; vario sempre da imbecille principe tra vitupero e onore; che or abborrendo l’iniqua arte d’assassinare, vietava si violasse con accuse il dritto di cittadin romano, or per niente il togliea, o sì vilmente il prostituiva, che si dicea comperarsi per vetri rotti. Con più licenza, e a qual sia prezzo vendealo Messalina, e i liberti; onde a decadere andò un titolo, con utile dello stato e lode di Roma, saggiamente da’ maggiori conferito a’ primari e più ricchi d’estere nazioni.
XLVII. Nè di tai ruberie paga Messalina, ma vie più cieca di passion di dominare, la più viva in donna, le cariche dell’impero d’accordo co’ liberti a sè richiamando, le prefetture dell’esercito e delle province vendea, e sì caro, che nell’impotenza di comperare, adunò Claudio in Campo Marzo il popolo, e ivi fissò di tutto le tariffe; a suo pubblico sfregio, a gran solletico delle libidini, allor più vive e ardenti, che da più molli rimedj titillate.
XLVIII. In fatti, dopo ciò, rotto ogni argine Messalina, oltre a libidini, a ribalderie la diè per mezzo, della dignità resa ardita; la pudicizia, vendendo; i più nobili de’ due sessi a brutali sensualità stimolando, con amarli se cedeano, se ripugnavano odiarli: Claudio sviando col dolce degli spettacoli, e sì di feminili vezzi assediandolo, che pubblici sendo a comune stupor e sdegno tai disordini, ei sol ne ignorava; e a Mnestere istrione, che l’oscenità temea di Messalina, ordinò le ubbidisse; e Giusto Cutonio, capitan della guardia, che vendicar la pubblica infamia pensava con dinunziarla, di suo cenno, per l’odio di Messalina, fu morto. Per simili arti, nè si sa per che reato, indifese, di ferro o fame periro due Giulie, la figlia di Druso e l’altra di Germanico, di Divo Augusto pronipoti.
XLIX. Tai scempi della real casa colla morte di Claudio coronar meditava un cavalier romano. L’attentato a gran lode indagò e scoperse, per tradigione di schiavi, L. Ottone, caduto l’anno pria di grazia del principe, come dissi. Fu il reo precipitato da’ tribuni di plebe e da consoli del Tarpeo. Poi trattossi d’onor fare a L. Ottone j e rarissimo il senato glie ne fe’, statua ergendogli in palazzo. Claudio anco, come più v’avea interesse, più gli fu largo, tra’ patrizj ascrivendolo, e con enfatica lode: „È uomo„ aggiunse „di cui a me bramar non saprei figli migliori.„
L. Ecco in fine un soggetto di guerra che da tanti anni mancava. Berico e altri, per sedizione, di Bretagna fuggiaschi, fer vedere a Claudio, facile or a vincersi per interne discordie ed inesperta età dei nuovi re l’isola, da Divo Giulio prosperamente tentata. Piacque lor parlare; tanto più che cercava il principe l’onor del trionfo, nè cansava Messalina l’occupazioni da velar sue libidini. Di più, tumultuavano i Britanni pe’ non resi disertori. Ebbe dunque ordine Aulo Plauzio di passar l’esercito di Gallia in Bretagna, mentre Cesare elefanti e altri attrezzi allestia.
LI. Riandando le legioni quanto poco in Bretagna fatto avea Divo Giulio, quante in Oceano n’avea sofferte Germanico, alla strania spedizione oltre mare, zarosa e vana, nicchiavano. Plauzio, uom del mestiero, pratico del soldato, a mosse odiose restio, dalla lunga tracalo a speme e disio di vittoria. Impaziente Cesare manda Narciso a dar pressa; che ad usurpar uso la persona e i dritti del principe, monta sulla tribuna di Plauzio. Alla soldatesca, altezzosa, razza puntigliosissima, fa afa il prosontuoso liberto, e „Où où i Saturnali!„ grida; e beffandosi del prìncipe da scena, di Plauzio suo duce si gloria, a cui cenno ir pronta ovunque.
LII. Plauzio, a non far rattiepidir quel disdegno, che tanto può, massimamente in armi, mettesi tosto alla vela, e ’n tre l’esercito parte, per fare a’ suoi, più facile, a’ nemici più terribile, l’approccio. Da vento in prora rispinti, tenner duro, per onta di cedere: e animati da una face, vista scorrere da Est a Sud, giunsero a posar le navi sul piano e nudo lido; perchè al contrario vento sicurati i Britanni, eransi iti a lor casa scioperati. Ma udendo lo sbarco de’ Romani gelarono da paura, come a Barbari accade, nè tornar osando, a venir alle mani, cacciaronsi per selve e pantani, a stancar Plauzio col tenerlo a bada, qual già Divo Giulio.
LIII. Ma ei persuaso che così i suoi perderebbonsi, e prevarrebbe il nemico, dà tosto all’armi e la caccia a’ Britanni, fiutandoli all’orme: e cavatili di tana, così sbrancati, ne fa strage, ch’a pena in corpo avrian saputo reggere. Vinto Catarataco, ucciso Togodunno, figli di Cunobellino testé morto, salvaronsi fuggendo, ricoverandosi parte da’ Boduni soggetti ai Catuillauni. Lasciata ivi guarnigione, varca Plauzio il fiume, e sorprende spensierato il nemico, qual difeso da muro di bronzo: invader lo fa da’ Galli, guazzar usi in arme i fiumi. Si risparmino gli nomini, si saettino i cavalli, ei penserà al resto. Tutto s’esegue. Sgomentati all’inaspettato assalto i Britanni, van su’ calessi; ma d’ogni lato trafitti i cavalli, iti giù e fracassati, senza trar colpo muoiono a torme.
LIV. Fl. Vespasiano intanto a gran cose nato, col fratello Sabino legato, valica il fiume, attacca improvviso il nemico, dall’urto de’ Galli e dalla perdita de’ suoi costernato, e molti n’uccide. Di che non avvilito il Britanno, irritato anzi e ’l furor consultando, di sua pazienza pentito, a guerra accingesi, differita al dì dopo. Furiosa fu la mischia: pendea la vittoria; e già i Britanni coglieano in mezzo Osidio Geta, quando rovesciò questi su loro il ranno, e sì rubesto li battè, che non anco console, ottenne le trionfali.
LV. Riuscito vano il valore, all’arte volgonsi i Britanni; correndo alle bocche del Tamigi, crescente per la marea, luogo a pratici sicuro, periglioso ad ignari, e passano il fiume. I Romani incalzandoli incalliti corser rischio; ma i Galli, resi quindi arditi, nuotano, mentre altri van pel ponte; e di conserto, dato addosso ai Britanni, che non aspettavansi quest’altro salato, ne fan macello. Gioia e lutto fu la vittoria; chè dando essi caccia senza riserva ai fuggitivi, nelle memme traviati e inghiottiti, gran perdita fero.
LVL Plauzio, non parendoli d’aizzar da temerario que’ calabroni, nè dal morto Togodunno, nè da loro stragi umiliati, ma d’ira e ferocia gonfi, mette presidj ne’ posti presi, e accampatosi a destra al Tamigi, scrive tutto a Claudio, di costui ordine, e che v’era di speme o rischio. Aggiunge: „È forte la nazione; ma se tutto sia in concio a guerra, e Cesare con sua presenza e autorità le truppe assista, è certa e degna del principe la vittoria.„
LVII. Claudio all’onor del trionfo inteso tutto, civile e militar governo al collega Vitellio accomanda, per tosto partire alla britannica impresa; se noi tardava il morbo di Galba, a lui carissimo, come dicemmo, per fede e militar scienza. Riavutosi Galba, a grand’apparato scioglie d’Ostia ver Bretagna, a tenzonar più col mare che co’ nemici; poiché due fiate fu per annegarlo forzato rovaio, presso Genova e all’isole di Iores. Toccata in fine Marsiglia, andò per terra a Bologna; indi imboccò al Tamigi.
LVIII. Tra l’acclamazioni de’ soldati dall’aspetto del principe, a gloria più ch’a letizia accesi, passa il fiume: e affrontatosi co’ Britanni, là tratti alla nuova di sua venuta, attacca zuffa; e più colla sovrana maestà che con atroce pugna li supera. Lieto dell’incruenta vittoria occupa Camuloduno di Cunobellino reggia; e, o li s’arrendono i popoli, o soggiogali a forza. In sedici di spesso gridato imperadore, e più acquistato per controtempo, che Divo Giulio per fama di guerriero, lasciatovi Plauzio e Vespasiano, che col senno e valore la felicemente cominciata opra coronassero, rendesi a Roma.
LIX. Cresciuto di nuovi stati l’impero, crebbe la romana erudizione, per la mirabile, ma nota alleanza di Marte e Minerva. M. Agrippa, di cui non ebbe forse Roma il miglior figlio, impreso avea di dar al pubblico un mappamondo; Divo Augusto perfezionato avea il Portico, da Ottavia cominciato sul disegno ed istruzion d’Agrippa, che quel mappamondo chiudea; magnifico spettacolo degno, di popolo trionfatore. Pur non anco scritto avea in geografia un Romano. Tal opera da M. Tullio Cicerone spesso tentata, sempre omessa, ne so se a’ privati più utile o al pubblico, eseguì si Pomponio Mela, che se da’ prischi autori per antichità di studi è vinto, vinceli tutti d’eleganza.
Fine del libro nono