Annali (Tacito)/VII
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LIBRO SETTIMO
SOMMARIO
- Anno di Roma dccxc Di Cristo 37.
Cons. Gn. Acerbonio Procolo e C. Ponzio Negrino.
- An. di Roma dccxci Di Cristo 38.
Cons. M. Aquilio Giuliano e P. Nonio Asprenate.
I. Udito morto Tiberio, tremò Roma d’altro sopraffino artifizio a comun rovina. L’altro dì fattane certa, più rattenuto, più violento scoppiò l’odio, con onta d’aver temuto anco morto il fierissimo tiranno. La plebe nel timore sbardellata, come in giubilo e speme; a gavazzar di gioia, chi grida: „In Tevere Tiberio;„ chi: „Madre terra, inferni Dei, fate loco sol tra gli empj al morto,„ chi: „Uncino e Gemonie alla carogna;„ irati tutti alla fresca atrocità, per la sevizia contro ai condannati, che differiti al decimo dì, che tal morte seppesi, pietà imploravano, assente il nuovo principe. Vane preci; strozzaronli i custodi a non trasgredir l’ordine, e gittaronli sulle Gemonie, la pristina crudeltà regnando ancora.
II. Calmò gli animi lettera al senato di Caio Cesare, col testamento di Tiberio, da Macrone recata, che ordina ti decreti sacro culto all’avo: verrà ei presto a Roma al maneggio del governo coi Padri. Voglian bene al giovane, rampollo di Germanico, e n’abbian cura. Ma fea pratica Macrone si acclamasse principe Caio; casso il testamento, in cui già di due anni chiamò Tiberio i due nipoti del pari eredi: e Claudio, mancando essi, con lascio di circa due milioni di sesterzj. Al testamento e a Caio prìncipe tosto i Padri aderiro, di dispor dell’impero superbi; a vendicar l’antica macchia, e a comprar colla stessa onta il nuovo favore. De’ divini onori al morto, a trattar differirono venuto il principe.
III. Portasi intanto da’ soldati di Tiberio il corpo da Miseno a Roma. A torrenti d’ogni parte accorron di gioia ebbri i popoli, più per omaggio al nuovo padrone, che a solennità del mortoro. Non lagrime e piagnistei; ma per tutto un morder confuso l’odiato principe, e feste e lodi a Caio, che in gramaglia segue la bara. Ei tra altari e vittime e torchi accesi, e tra’ ministeri della feral pompa, incede, di suo onor godendo; e incita, col mentir viva pietà e tristezza, a più malmenar l’avo.
IV. Entrato nottetempo in Roma, a gran lagrime con parca loda Tiberio a mane celebrò, pria di biniciarlo nel pubblico funerale; gran cose d’Augusto, maggiori di Germanico; alcune di sè, proferite. Indi va co’ Padri in senato: e con breve e modesta prolusione, dolendosi dell’età tenera del coerede, e promettendoglisi padre, a furor di popolo, annullata di Tiberio la volontà, di comun voce è acclamato principe. Nomi vari d’onori ad Augusto graditi, in ispregio a Tiberio, dall’indefessa adulazione a Caio affastellansi. Nulla accettò, moderanza fosse o arte; col farsi in tutto popolare, d’accrescer tentando i già accesi comuni studi ver la memoria del padre, e compassione alla quasi distrutta casa.
V. A farli ’più vivi, corre tutto rispetto a Palmarola e a Ponza; a traslatar della madre e del germano le ossa, in mar burrascoso, da più spiccar la pietà, e di sua mano nell’urne riponle. Con pari scena, alzato stendardo a poppa della fusta, pel Tevere in Ostia, indi a Roma, portate da’ più distinti equestri di bel giorno, e tra la calca, con due trofei, in mausoleo le chiuse, lor ordinando pubblico anniversario, e alla madre i circensi, con carro onde trarsi in pompa. In membranza, poi del padre, chiamò il settembre, Germanico, più non curando i celesti onori all’avo già chiesti.
VI. Colla stessa premura per gli avanzi di sua casa, in un decreto di senato, ver l’ava Antonia combinò quanti onori a Livia Augusta s’eran dati: destinò suo collega nel consolato Claudio, il zio, allora cavaliere. Adottò Tiberio il fratello il di della viril toga, e ’l chiamò principe della gioventù. Per le sorelle stabili che in ogni giuro s’aggiugnesse: „ Nè me propio e miei figli amo più di Caio e sue sorelle.„ E ne’ rapporti de’ consoli si premettesse: „Che a C. Cesare e sorelle torni in bene e felicità„.
VII. Tai principi d’impero tra male e bene indecisi, nè di rilievo a fronte del più serio, ammira il popolo, che non sa di virtù, l’esalta, quali presagi di felicità, ne dà grazie agli Dei, si fuor di modo, che ne’ tre prossimi mesi, anco scarsi, più di censessantamila vittime s’immolaro. Cesare da innata leggerezza e del lusingar de’ piacentieri, vano, gonfio pur de’ tesori di Tiberio, ne’ vizj de’ gioveni principi trabocca novità: disfar del passato governo il buono e ’l cattivo; a lode più che a regnare per mente.
VIII. Non più già ombre dell’antico rigore; amnistia per condannati e rilegati senza divaro, e pe’rei di prima; obliate fin le domestiche onte, recati nel fòro i processi circa madre e fratelli1 giurando nulla aver letto, nè tocco, mandali in fiamme. Vuole si cerchino, si spargano, si leggano, l’opere con decreti di senato proscritte, di Tito Labieno,2 Cordo Cremuzio, Cassio Severo: „È mio interesse, dice, tutto ai posteri si tramandi„.
IX. D’autorità pur non curante, volle a’ magistrati le mani sciolte, senza appello a sè; che rimessi nel primo piede i comizj, desse suo voto il popolo; e i conti dell’impero, soliti esibirsi da Augusto, da Tiberio celati quai misteri, si pubblicassero. Contro i vizi stessi forte, non ben sodo in virtù, pregato a non dar in fogna, le spintrie3 scacciò di Roma. Usò anco rigore contro i cavalieri, levando a nome il cavallo a chi avea taccia o pecca; se questa era minore, taceasene il nome nella rassegna.
X. Sodisfatta, in tai castighi la plebe pel discredito del vizio e la dignità de’ rei, lo fu di più per la liberalità, onde pagò di Tiberio i lasci, se ben nulli per l’abolito testamento, dando al popolo quarantacinque milioni, ai pretoriani mille nummi a testa, cinquecento all’urbane coorti e a’ vigili, trecento a’ legionari e agli altri del molo fuor d’Italia, o dei presidi in piazze minori; aggiugnendo del suo mille sesterzi per pretoriano e sessanta danari al popolo, già promessi al vestir la toga virile, e per tema di Tiberio sospesi, coll’usura perciò di quindici danari a testa. Con pari fede e senza cavillo pagò i legati di Livia Augusta, da Tiberio soppressi; stravagante vizio in entrambi al pari biasimevole; in uno di tarda, nell’altro d’affrettata prodigalità.
XI. A parte furo della gioia i re esteri. Agrippa sul finir di Tiberio da Caio la corona implorando, e però in ritorte, riebbe libertà; e a terger dell’ingiuria la macchia, e in premio insieme dell’amistà, regalato d’una catena d’oro d’ugual peso della ferrea, e dichiarato re, le tetrarchie ebbe di Filippi e di Lisania. Ad Antioco fu resa Commagene, per morte del padre fatta di dritto del pretore; aggiunta al regno, la maremma di Cilicia, e risarcito di cento milioni di sesterzi.
XII. La lieta fama del nuovo governo, aggrandita per le province, udì Artabano, fiero per Tiridate scacciato, pel ricovrato regno: e co’ maneggi di Vitellio, più per odio a Tiberio che per affetto a Caio, senz’altra ostilità, passato l’Eufrate tratta di pace; e a più obbligar l’interposta fede, all’aquile romane e all’immagini d’Augosto a Caio fe’ onore, e diè staggi i figli; sua dignità obbliata, a sfogar l’antiche ire.
XIII. Dell’impero i tripudj per l’impensata pace crebbero all’entrar Caio e Claudio al consolato a calendi di giugno. Non mai più viva gara, i consoli in beneficenze, Roma in ossequi tutta fervente. Parlò in senato il principesse, dato carco a Tiberio d’ombroso, cupo, sozzo, libidinoso, gretto, sordido, brutalmente crudele, irreligioso, nemico dell’onor dello stato, emular promise avo e padre in virtù; Che, educato fra l’armi e allievo qual è del senato e popolo romano, non a sè vivrà, ma alla patria; co’ buoni e miseri indulgente s co’ malvagi sol implacabile; non porrà mano al governo, se non a difender religione, privato diritto, pubblica libertà; ciò bastargli, ciò solo ei bramare, l’onor del suo principato, l’illesa maestà dell’impero, la sicura felicità del popolo; sensi più rari a udirsi, più avidamente accolti. E perchè principe che ottimo parca, tralignar non potesse, decretò il senato leggessesì ogni anno tal aringa, qual se frenar vaglia l’adulta licenza de’ sovrani il membrare lor virtù di pria.
XIV. Cesare intanto, del futuro al buio, a fatti più ch’a parole, a destar indignazione contro a Tiberio; a raccender gli antichi rancori; ogni studio a porre nella liberalità, umanità, magnifìcenza e simili, rare o ignote nell’altro principato. Abolì il crimenlese; nè sol cassò la nuova legge di tortura a schiavo contro a padrone, ma regalò d’ottantamila sesterzj Liberta, che resse al martoro senza fiatar del padrone a danno. Ludi celebravansi, e d’altre spese alla reale si fea pompa. Tra’ quai, più speciosi che lodevoli fatti, un egregio detto uscigli; chè rifiutata una memoria sulla sua salvezza: „Nulla disse, io feci da meritar odio, nè ho orecchio per delatori.„
XV. Da religione anco ebbe loda. A’ 30 agosto dedicò egli in trionfal abito il tempio ad Augusto da Tiberio eretto, inno cantando i più nobili donzelli e donzelle; e a far più celebrata la sacra funzione, al senato, agli equestri, a lor mogli e figliuoli corte bandita, e mancia di trecento sesterzj diè al popolo; la pubblica allegria con ogni genere di musica, e con giuochi, avvivando.
XVI. Più lieti spettacoli seguiro nel natal del principe la dimane. Uscì egli in muta a sei, pompa non più praticata; nulla per altro obliando onde far fede di sua riserva e popolarità, nè pur diè il segno a’ ludi, semplice spettatore tra le sorelle e socj augustali: tutto vietato che scemar l’allegria, permesso quanto accrescerla potea. Pugnaro oltra l’uso i cavalli: fu d’intermezzo il torneo di Troia, e tanta caccia, che quattrocento orsi e altrettante fiere di Libia vi restaro.
XVII. Roma, di spettacoli ingorda, fastosa dell’idea del rinato primo splendore, le concepite spemi di Germanico e di sua casa ricordò qui, le decantò sorpassate. Me’ che sapea ognuno, pubblici e privati onori inventava. Tra’ pubblici decretossi aureo scudo da portarsi ogn’anno in Campidoglio pel collegio de’ sacerdoti, seguito dal senato, cantando in musica nobili donzelli e donzelle, inno delle virtù del principe: con decreto che il dì che prese l’impero intitolassesi: Feste di Pale, come dir, nuova fondazion di Roma.
XVIII. Fine al consolato non alla letizia fero i consoli a’ 13 settembre surrogati. Sparsesi anco per le province la festa; ovunqne tanto più lieto vivendosi, quanto più tetro, e in rigore sotto Tiberio. Ma Caio, di natura malotico, va già a trarsi la maschera di virtù, presa da tema dell’avo’: e a darsi per gradi a crapola, a donne, a lusso; tal che dieci milioni di sesterzj fe’ valer una cena, e diè quasi fondo all’immenso tesoro di Tiberio, dumila settecento milioni di sesterzj.
XIX, Frutto di libidini, un morbo l’invase, fiaccato già da mal cardiaco, or da ebbrezza, e più turpi eccessi strutto. Occulti ancóra suoi vizj, pubbliche le virtù, qual se il padre della patria, e la patria stessa pericolasse, fu pianto, fu ‘ feriato, vegghiando tutti al palazzo. Tal era il fanatismo, che P. Afranio Polito, plebeo, sua vita per la salute del principe votò: Atanio Secondo, cavaliere, offrissi per gladiatore. Stesesi per le province il lutto, dalle navi di ritorno d’Italia sotto l’autunno vievia del perigliò struite.
XX. Reso Caio a salute, come più v’era a gioire ch’a dolersi, e’ già in campo l’adulazione, più viva ne fu la letizia. Ma l’animo più che il corpo, spesso, libidine attaccando, in Caio sano di corpo, d’animo ancor egro, nè sofferente cura, rimisero i vizj il tallo: gloria, ambizione, (vie certe ad infamia, se virtù non le guida) gli vinse la mano: boria di passeggiar sul capo a tutti. Il primo suo delitto poi tutti sorpassò quei dell’andato governo.
XXI. Chè repente, per un tribuno di soldati, Tiberio, fratello e figlio insieme, per gelosia di stato, nè pur al senato scrivendone, a tradimento uccise; per appiglio di trama da quello fattali sendo infermo; coscienza di delitto in Tiberio chiamar osando, che ’n assidua grave tosse tolto un rimedio, olisse d’antidoto, come a prevenir suoi veleni. Voller taluni, ch’astretto uccidersi, per non violar buia la cesarea maestà, il gramo giovane di colpa incapace, come di darsi morte, offrì spontaneo il collo al taglio, ripugnando i manigoldi, chiese, ove ferirsi per escir di vita; e mostrogli dove, cacciatovi il ferro, dilefiò.
XXIL Dal chimerico delitto reso audace, va il principe in pubblici eccessi. Da Atanio Secondo, di cui poc’anzi, il voto esige: al suo pugnar con ferro, assister nè lo libera, se non vincitore, e a gran preci. Afranio Potito a morir tardo, cinto di verbene’ e d’infide dà in mano a putti, che a sciorre il voto lo menino per città, sin che traggasi giù d’un bastione.
XXIII. Peggio finì M. Silano; ei di virtù, più che d’affinità con Caio, illustre gli fea da aio (arduo mestiere co’ buoni princjpi, co’ malvagi funesto), e nell’antica autorità, onde appo Tiberio valea, fidando e nell’amor di Caio a Claudia figlia testè morta; al principe, non anco in libidine radicato credendolo, venia ricordando: Virtù fa amar dà’ popoli, alfine a’ vizj è l’odio. Quell’importuno satrapo, e, se pivi dura, insoffribile, con ingiurie Caio, poi con calunnie addenta: nè indur valendo Giulio Grecino ad accusar l’ottimo uomo; controvando, che messosi in mar turbato, non avealo seguito Silano, per occupar Roma, se mal ne gl’incoglica, a segarsi con rasoio la gola astrinselo. Sposò poi Livia Orestilla moglie di Calpurnio Pisone: è ’l dì dietro promulgò d’avere incontrato nozze a norma di Romolo e Augusto; pochi dì poi la ripudiò.
XXIV. Stupido a tai novità il popolo, non fiata, di sue recenti virtù persuaso ancora; e supponendo anzi bonario, ragione in lui di tai rigori, che crederlo un altro. Ei stesso non anco efferato, nè disaccorto, spogliate l’altre virtù, popolarità e munificenza ritenne: e a farsi lodar vindice di libertà e di pubblica allegria, aggiunse per sempre a’ saturnali un giorno ch’appellò giovenile. Già, nel sen di libertà, d’un sol di celebravansi quelle memorie di sempre agognati, non provata mai felicità; due n’aggiunse Giulio Cesare, furieri di schiavitù: a quattro nel pieno di questa, poi a cinque crebbero; nè fu mai più lieta di libertà la membranza, che spenta essa affatto.
XXV. Aquilio Giuliano e Nonio Asprenate, nell’anterior principato designati, entran consoli, negli atti giurando d’Angusto e Gaio, omesso Tiberio distruttor del Germanico seme; uso poi serbato, nè v’entrò più suo nome. I consoli, e ogn’altro, a’ giuri aggiunsero: Esser loro più cari Caio e le sorelle che sè stessi e’ figli: per essi tutti eran anco i voti. Pur, al solito de’ critici casi e de’ preludi di sollevazioni, fu chi sparse portenti: Che Macaone schiavo il primo gennaio al letto salì di Giove Capitolino, e gran disastri presagiti, si diè morte.
XXVI. Non vi fer badare più lieti auspicj, e la sovrana generosità. Fu allora che pubblicaronsi i conti dell’impero, rimisersi al campo i comizj, con più altri atti popolari; poichè i soldati incaricò Cesare di spegner gl’incendj; e risarcì con danaro i danneggiati; co’ benefizi s’aggradi le province, e aggregò all’equestre ordine, pel lussò e pe’ cennati processi dicresciuto, fuor d’Italia molti di polso per parentele ed agi; a taluni anco la senatoria veste, se ben senza merito di magistratura, accordò, arra di dignità: e per alleviar de’ giudici il peso, alle quattro prime la quinta decuria aggiunse. Quel che più gradì Roma, la ducentesima degl’incanti d’Italia rimise.
XXVII. L’ultime faville di sua languènte virtù spensero due a suo brobbrio, a pubblico scempio nati, Elicone e Apelle; questi d’Ascalona, per teatrali opere e stupri infame; egizio l’altro, per sue giullerie e malizie più anco iniquo. Ad ambi legato Caio a fil doppio, l’onor, le vite, le fortùne de’ cittadini ad aver a vile, a far pompa d’oscenità, dimesticarsi co’ delitti, a capriccio rovesciar sacro e profano; a tal nequizia salendo, che fatto pessimo in un punto, fu tutto dì peggiore. Chi di mia penna a tal passo ha scandolo, l’abbia anzi, che tal mostro vivesse, che dei più rei anco; a’ cui eccessi deh tal marchio d’infamia la storia imprima, che pari non ne veda l’età futura!
XXVIII. Danno omai nel ridicolo i vizi dell’insano governo; fatto ballerino e commediante sotto Apelle il principe, la maestà, le cure dell’impero posterga: tutto negli spettacoli, venir fa le più scelte partite d’atleti d’Affrica e Campagna, di Libia e d’altri rimoti paesi le fiere: all’anfiteatro di Tauro, circo, steccati, e d’essi noiato, e radendo case, a teatri posticci, il popolo trae pensile in giro a’ giuochi gladiatorj, circensi, scenici, troiani, a naumachie, a cacce. E ciò, di e notte, per fanciullerie illuminata nella Vincitrice del Mondo; pel circo, di minio e borace lastricato, guidando i cocchi i senatori, e ’l principe stesso il suo d’argento.
XXIX. Baie sin qui, non orrori: ma di corto per l’adulazion de’ Padri, in licenza, pel popolar plauso, passate in laidezze; non vergognandosi essi, dal principe chiesti, di far teatrali, e micide leggi, e decretate, che ne’ gladiatori spettacoli non a duello, ma a truppe, come in battaglia si pugnasse. Nè più con sudore, ma col sangue e colla vita combattesi; e tra’ plausi di quell’anime vili e del popolo alle sue stesse stragi, lo spietato principe chiama chiunque in campo, e vi fa vittime venzei cavalieri. Nè mai di sangue sazio, nè sempre bastando i dannati alle fiere, fa prendere gli spettatori, è mozze le lingue, da non parlare e destar pietà, a quelle gittarli: nè ’l, pazzo furore, se non in più lievi stragi, allenta.
XXX. Macrone il primo diè in pania. Persuaso che sì folle governo farà sua rovina e de’ promotori, a Caio, cui tre fiate a morte sotto Tiberio sottrasse e portò al soglio, suggeria moderazione, clemenza, umanità. Più odiosi in Macrone già consiglier d’adulterj, eran tai avvisi, nè pur in Silano, socero di provata virtù tollerati. Pur dissimulò Gaio, per gratitudine o per tema de’ pretoriani. A disfarsene poi con onore lo deputò in Egitto. Ma come pèsa la memoria de’ benefizj a’ sovrani, l’òdio pe’ misfatti vive eterno; di gratitudine e di rancore in un si sciolse, intimando morte a Macrone. Ennia la moglie pur uccise (con cui da privato se l’era intesa d’amore), una colla prole, onde non resti dell’odioso tronco radice.
XXXI. I privati scempi divenner pubblici a rimpolpar l’esausto erario. Contro senatori singolarmente, e’ più ricchi, la prese, colpandoli clienti di Sciano, spie contro madre e fratelli: mise fuori processi fatti creder bruciati; e a molti fe’ delitto capitale il suo malore dell’anno scorso. Niun ordine giudiziale, con condanna o senza, confiscati i beni, gl’inquisiti abbattea lo stesso colpo; stigati gli accusatori da’ premj, dall’impunità, dalla rapacità del principe.
XXXII. Aggrevò, non medicò il feral male, Drusilla estinta, tra le sirocchie a furore amata. A Cassio Longino, poi a M. Lepido sposata, avealasi impudente, ad esempio de’ re barbari, presa a moglie, creandola sua universal reda e dell’impero, quando fu a morte. Da strana tristizia, per perderla, oppresso; bandì feriato e pubblico mortoro, ma coll’istessa stravaganza in lutto, che in libidine; nè v’intervenne, nè le fe’ gli ultimi doveri; a pudor sì ribello, che nel comun lutto e tra tutte le mostre di tristizia in tal funerale con pubblico elogio di M. Lepido, divertiasi egli senza decenza nel suo Albano a dadi, a spettacoli, a tali altre leggerezze.
XXXIII. A un tratto, di duol furibondo, fatto misantropo, in lunga barba e crine, le coste d’Italia e Sicilia ramingo scorre. Cangiatosi poi, da Siracusa a rompicollo torna a Roma, fermo di non piagnere, ma onorar Drusilla. Quanto a Livia il senato fatto avea d’onore, fu di colta dato a lei; e stabilito, abbia culto divino, sua effigie d’oro ergasi in senato, un’altra al tempio di Venere con dari maestà e ossequio; le si alzi poi tempio: le statue sacrino uomini insieme e donne, queste giurin pel suo nome, e ’l dì natalizio celebrisi con ludi alla megalense, con banchetto del senato e de’ cavalieri.
XXXIV. In Roma, e per le province prese piede l’onor di Drusilla: nè arrossì Livio Geminio senatore di giurar fermo, in senato averla veduta ir in cielo; adulazione derisa qual farnetico, pur d’un milione di sesterzj premiata; del principe a pari obbrobrio e del senatore. Quel ch’è senza esempio, fu tal culto fatale; che se con gioia alcun l’adorava, uccideasi come lieto di sua morte: se con dolore, uccideasi qual poco al nume devoto; nè si escia tra le due.
XXXV. In sì furiosa incostanza saldo pur in libidini, di subito amore a Lollia Paolina arse. Dell’avita ricchezza non men che di sua beltà goloso; di provincia la richiamò, ov’era, di Mèmmio Regolo consolare, generai dell’armi, allor moglie: e da lui a sè condotta, la sposò, a cederla, come padre la figlia, obbligandolo. Con singolar nesto di rapine, la nuzial solenne pompa le dovizie spiegò del romano impero e d’Oriente. Il prodigo principe i tesori ostentava accolti sovra uccisi e proscritti; carca ella splendea di smeraldi, margarite e altre spoglie delle province, e regali de’ re d’Oriente, dell’avo, M. Lollio mal acquisto.
XXXVI. I maluriosi imenei scena seguì degna dell’antica Roma, e’ d’età migliore. Caio, più agli esteri ch’a’ domestici affari inteso, diè popoli e regni in tutto il decoro della prisca maestà. Poichè assiso nel seggio curule trai consoli in fòro, di veli a seta, secondo alcuni, tramezzato l’Iturea con decreto di senato a’ Soemo assegnò: a Cotys l’ Armenia Minore; a Rimetalce la Tracia intera, tra lui e Cotys pria divisa; a Polemone il paterno regno.
XXXVII. Permise anco ad Agrippa, tutto suo, di visitare il regno l’anno prima accordatogli, con promessa di rendersi, tosto finite sue bisogne a Roma. Da Pozzuolo a seconda dell’Etesie passò questi ad Alessandria, gentilmente accolto da Fiacco Avillio govemador d’Egitto; che poi, per invidia alla dignità, per odio a’ Giudei, l’insolente plebaglia portata a beffar gli strani, se non istigò, certo non ripresse. A tal ella venne, che per onta al re, un tal marzocco, di nome Caraba, mise su in real abito e treno, e gli fe’, qual a signore, omaggio.
XXXVIII. L’atroce insulto, a privati, non che a re, intollerabile, ebbe per giunta l’empietà contro i Giudei d’Alessandria commesse. Trattavasi di Sinagoga profanata, di case a saccomanno, di rapina universale: e capi della nazione frustati, e molto popolo ucciso o arso; e ostacol messo da Fiacco a ragguagliar il principe degli onori dalla nazione in corpo decretatili; ogni crudeltà in fine, onde gente in nulla rea, a’ Cesari fedele, perisse. Agrippa dal suo oltraggio, da’ disastri de’ suol inacerbito, ne riferì a Gaio.
XXXIX. Non atteso, al solito, il fin del governo, manda ratto il principe. Basso, con una coorte a prender Fiacco, e menarlo a Roma. Il centurione varcato il Faro entra alla sorda in Alessandria, e sorprende Fiacco che in niun sospetto è a pranzo; con istupor di tutti, e gioia tanto maggior de’ Giudei, che il castigo pe’ delitti cadea in dì festivo da loro omesso, per cattivaggio de’ capi. Dopo burrasca, per sentir tutto di suo disastro il peso, trovò in Roma ad accasar sue colpe gli stessi stigatori, Isidoro e Lampone.
XL. Oltre l’accuse porte da Agrìppa e dai Giudei, rinfacciavaglisi tra più altre reità, la benevolenza di Tiberio, i voti pel nipote, la confidenza di Macrone, la speranza lui vivo, morto il duolo; la provincia pria non male, poi, pe’ vecchi odj a Caio empiamente retta; e pensavasi a rilegar Fiacco in laro; quando, a’ preghi di M. Lepido, fu bandito in Andro, incameratine i beni.
XLI. Mentre la calma alle province, col punir le violenze, il senato procura, con nuovo prodigio d’arte promove il principe lo splendor di Roma a pubblico uso e privato piacere. Poichè, più di Q. Marcio re e d’Agrippa avo, osando, ordinò archi, e forar monti e appianar valli, per portar da quaranta miglia l’acque Cerulea e Curzia, da sessanta il nuovo Anione a Roma; e alzarle a livello, da scorrere per tutti i colli in bagni, vivai, case, canali, orti, ville. Opre che, a gran lena intraprese, con pari leggerezza interrotte, a somma lode abbonì Claudio.
XLII. Spensersi a que’ dì due lumi di lor età, Antonia e Giulio Grecino: quella delle famiglie Antonia, Ottavia, Claudia, la nobiltà accogliendo, pe’ pregi del marito e del figlio chiarissima; più chiara spiccò per esemplar vedovanza: e passava dell’umana condizione il segno, ad aver altro nipote che Caio. Secondando natura, lo serbò essa all’impero, ottimo principe formollo: non reggendo a sue bestiali scostumatezze, quando più non l’ascoltava, con quel fatai motto: „Pensa che tutto, e ver tutti mi lece,„ d’angoscia struggendosi, o, giusta altri, di veleno, mancò; per vita e per morte al pari celebre, di maggior fama per gli onori dopo morte negatile.
XLIII. Inferiore di dignità, non di virtù, fu Giulio Grecino: insigne d’eloquenza e filosofia, di magnanimità, spregio di lusso, incorrotta libertà. Buon senatore, miglior cittadino che sotto Caio tornasse conto, fu da lui morto, per disubbidirgli in un accusar l’innocente M. Silano. Tanta sua gloria per vita e morte, coronarono del figlio Gn. Giulio Agricola l’egregie virtù. Peggio finì Passieno, da trama della reda.
fine del libro settimo