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344 | DEGLI ANNALI |
LXX. Per poco non guastò lor tela il caso; che un tal Timidio, di fellone accusò Pompedio, insigne senatore per cariche esercitate, allor tutto in poltrire su i dogmi epicurei, ma pur tinto di congiura per aver con oltraggiosi sensi beffato il principe: e chiese a tortura esaminassesi Quintilia, per cose da teatro, venal bellezza, pratica di Pompedio, e più altri, famosa. Assentì Caio: e a far acerbo al sommo il martore, Cherea ne incaricò, che più tormenti userebbe, più che abborìa le sì rinfacciate colpe di mollezza.
LXXI. Fu tal nuova un fulmine a’ congiurati. Molti, per intender che speme, o timore per lor v’era, a Quintilia s’affisero, che portavasi a cullarla. Ella, più de’ più forti coraggiosa, presse col piede il piè d’un congiurato, e ad occhio cennò che sarebbe salda a tacere in tutti i strazj. Cherea avvenutosi in grande anima, tanto più scempiolla, che vedea questa la certa scorciatoia a dar al principe l’ultimo tuffo. Quintilia poi mal concia, ma salda e magnanima, condusse a Caio. A vederla egli, impietosito. Pompedio assolve, e lei compensa dello spasimo e della guasta beltà con oro.
LXXII. Ma Cherea ardente pel rischio e per la violenta crudeltà, va da Papinio tribuno, e da Clemente, capitan della guardia, e sì parla: „Alla sicurezza del principe sin qui noi travagliammo: spegnemmo col ferro gli insidiatori di sua vita, o con tai martori li cruciammo, che pietà farebbono a’ più inumani; ed è questo, è questo di nostr’armi il grand’obbietto?„ Arrossò Clemente, cui sul volto leggeasi la vergogna che di quel governo patia; ma tacque per non rovinarsi coll’odio del principe.