Amore nell'arte/Bouvard
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◄ | Riccardo Waitzen |
BOUVARD
Discouraging weight upon me, like a mountain,
In feeling, on my heart as on my shoulders
A hateful and unsightly mole-hill to
The eyes of happier men...
Byron, The deformed trasformed.
Bouvard! Chi era Bouvard?
Forse taluno de’ miei lettori tenterà ancora, non indarno, di far rivivere nel suo cuore le memorie vaghe e lontane che vanno annesse a quel nome; forse ricorderà tuttavia una storia misteriosa che ha per lungo tratto agitato le giovani fantasie di quei tempi, e ricevuto da tutte le anime sensibili un omaggio di pietà e di affetto.
Io stesso mi arrovello di richiamarmi alla mente le circostanze di questo racconto pietoso, come le memorie lontane dell’infanzia, come le visioni fantastiche di un sogno: — bello e fuggevole com’esso, severo e malinconico come tutto ciò che ha creato il sentimento e l’ amore.
Vi furono alcune vite che la natura aveva destinate alla pubblicità, alcune intelligenze che il cielo voleva collocate nella luce per dirigervi le masse come ad un faro luminoso, e tuttavia quelle vite si spensero ignorate nel mistero, quelle intelligenze si consumarono sdegnose nelle tenebre. — Esistono due forze nella natura? — la forza positiva che crea e predestina, e la forza negativa che reagisce e distrugge? Domandatelo all’uomo, domandatelo al segreto della sua vita intima, domandatelo al genio sventurato!
Bouvard fu un genio sventurato. Il suo nome tramontò così rapido come l’astro precoce della sera; la sua vita fu il passaggio di una meteora abbagliante che si spegne a metà della sua curva, e s’invola agli occhi meravigliati che la mirarono.
Io non tesserò qui un racconto immaginato: scriverò la storia di un uomo che ha sofferto, la storia di una vita la cui azione si concentrò tutta nel dolore, la cui catastrofe ha colmato di orrore e di pietà tutti gli animi generosi che la conobbero. — Scrivo per me stesso, scrivo per dare alle memorie della mia gioventù la durata della mia esistenza, per riserbarmi negli anni dell’aridità il conforto ineffabile delle lacrime.
Chi non ha visitato il paese della Savoja, il suo suolo a sbalzi, le sue valli ripiene di nebbie e le sue montagne di pini e di granito, non conosce quel punto della terra dove la natura ha riposto il segreto della sua malinconia. Sulle montagne di Crest-Voland gli uccelli hanno una voce più dolce, il rigogolo canta nelle siepi con delle note tristissime, e vi ha in tutto il territorio del Ciablese una specie di reatino, il cui grido appena sensibile si assomiglia al lamento di un moribondo. Lungo i ciglioni delle montagne, le rive tappezzate di viole bianche che la superstizione ha collocato tra i fiori di cimitero, spiccano, come nastri candidi ondeggianti, su quel verde cupo delle eriche, ove delle folate di farfalle grigie aleggiano intorno a quei cespugli a migliaia.
Bouvard nacque in quel luogo, nacque in una capanna: — suo padre suonava la gironda e faceva ballare una marmotta nera della valle di Champagneux. — Fu un triste acquisto quello che la famiglia di Bouvard aveva fatto colla nascita di questo fanciullo: in fatto egli era rachitico e infermiccio: la deformità lo aveva segnato colle sue tracce ributtanti, e non gli aveva lasciato nulla di regolare, nulla di attraente nel viso, nulla di vago nell’occhio e nella voce: — parea che la natura lo avesse per metà ripudiato non consentendogli che la pura fruizione della vita.
A sette anni, Bouvard cominciò ad avvedersi della derisione che gli fruttava la sua deformità, e si sentì trafitto nel cuore, immaginando e indovinando forse il destino di tutta la sua esistenza. Le prime avversità dell’infanzia lo fecero inclinare alla meditazione e all’isolamento; e forse dovette a questa sventura precoce lo sviluppo straordinario della sua sensibilità, fors’anche il suo genio medesimo; — chè, se il dolore crea o modifica i grandi ingegni (e la sventura nei sommi è causa e non accidente od effetto), la sua azione debb’essere più efficace nei primi anni della vita, quando la società non ci ha ancora armato il cuore di punte per schermircene, e lo spirito vergine e puro ritiene le impronte incancellabili della natura.
Egli era costretto a separarsi da’ suoi compagni, e si assideva la sera lungo le rive dell’Isere a veder scorrere le acque e tramontare il sole dietro la foresta di Gresy.
«Com’è bello il sole! — aveva detto una volta a sè stesso Bouvard, — come sono belle queste farfalle e questi uccelli che fanno qui il loro nido! — Ecco un magnifico fiore di giglio; quale precisione in tutte le sue parti, quale esattezza nella disposizione delle sue foglie, quale flessibilità meravigliosa nel suo stelo!» — E nel chinarsi a raccoglierlo, aveva intraveduto la sua immagine nella superficie trasparente del fiume, — la sua immagine brutta, laida, ributtante... Bouvard sedette sopra la riva e pianse lungamente con abbandono. Egli avrebbe almeno desiderato un cuore, cui confidare il segreto delle sue prime sofferenze; e forse la tenerezza melanconica di sua madre aveva compreso quanto tesoro di affetti si rinchiudesse nell’animo delicato di quel fanciullo, forse nella madre avrebbe trovato un’amica, ma quell’amica doveva essergli presto rapita; — a dieci anni Bouvard era rimasto solo nel mondo.
Un giorno suo padre gli aveva detto: — Mio caro figliuolo, tu hai dieci anni compiuti, e quantunque tu sia alquanto malaticcio e la tua figura non sia per verità delle migliori, le tue forze sono ora abbastanza sviluppate, e puoi bastare, d’ora in avanti, a te stesso: — io conto di andare nella Francia, ed è tempo che noi ci separiamo; prenditi la mia marmotta e la mia gironda, è assai più di quello che io potrei darti, ma il cielo compenserà almeno colla tua fortuna il sacrificio generoso di tuo padre.
Bouvard prese la via di Bonneville, e dormì la prima notte in un canneto lungo la riva del torrente. Era una bella notte di agosto, egli non aveva veduto mai tante stelle, nè inteso così bene quel rumorìo che fanno le locuste nelle stoppie, e quei mille suoni soavi e ineffabili che producono le foglie in una notte serena di estate. Parve a Bouvard di sentire in sè stesso qualche cosa di inusitato: — egli non aveva sonno, egli non aveva paura, non stanchezza, non disagio, si sentiva calmo e tranquillo — un sentimento infinito di benessere gl’infondeva per tutte le fibre una dolcezza non mai provata fino allora: — era pensieroso ad un tempo e sereno.
— Sentiamo, diss’egli, è ben questo un grillo che canta; — perchè canta egli questo grillo?... e che cosa fanno lassù tutti quei luminari che il buon Dio accende tutte le sere?... e queste piante?... e questo usignuolo che sento gorgheggiare da lontano? — In verità, io non avevo mai osservato che ci fossero tante belle cose nel cielo, e che i grilli cantassero di notte così dolcemente. Oh! egli deve essere pur buono il Signore se ha creato tante cose meravigliose.
Bouvard cadde in una profonda meditazione; — egli pensò a sua madre e alla sua capanna, e a quel mondo sconosciuto nel quale stava per entrare così fanciullo: — a poco a poco i suoi sensi si assopirono, — egli porse attenzione a tutta quell’armonia malinconica che blandiva il suo orecchio come la nenia d’un bambino, — a quel fremito degli steli, — a quel susurro degli insetti, — a quel lamento delle acque, — alla voce del vento e delle foglie: la sua anima acquistava una strana sensibilità, il suo udito una potenza di sensazione ineffabile: — egli distinse le note più delicate, i tuoni più melodiosi, le cadenze più dolci; e gli parve d’aver indovinato il segreto della grande musica della natura. Egli prese la sua gironda e suonò una vecchia aria lamentevole che aveva ascoltata un tempo da suo padre: — non vi era nulla di più semplice di quella musica, nulla di più monotono di quel suono; ma pure egli vi trovò tanta dolcezza che i suoi occhi si riempirono di lacrime, e quando ebbe finito, si avvide che stava inginocchiato pregando.
Fu una grande rivelazione quella che la natura aveva fatto in quel momento a Bouvard: egli aveva compreso di essere artista; per una potenza straordinaria di intuizione, egli aveva presvelato il mistero di tutta una vita.
— Una fiducia illimitata di sè stesso, un’avidità irresistibile dell’avvenire agitarono da quell’istante il suo cuore: — egli si sentiva superbo di sè, superbo della sua arte divina, egli comprendeva bene che non aveva ancor nulla conseguìto, ma che avrebbe tutto conseguìto col tempo.
Bouvard si addormentò che era assai tardi, e sognò degli angeli e dei fiori, la sua capanna e le sue montagne, le rondini bianche dell’Isere, e le sue rive fiorite di ranuncoli... egli sognava ancora, quando si sentì battere sulle spalle, e nello svegliarsi vide due uomini seduti presso di lui, e di cui uno era intento a guardarlo.
— Piccino mio, gli disse costui che pareva il più anziano, tu stai, a quanto mi pare, guadagnando male il tuo pane con questa brutta marmotta e con questo cattivo strumento, e sei pur molto giovane per andartene così solo nel mondo: io ti darò bene un compagno, — eccoli qui il mio amico Jeanin, dal quale devo separarmi oggi stesso: egli è una persona di distinzione e non ha che un piccolo difetto, una menda di nessuna importanza per l’arte sua: è cieco da tutti e due gli occhi, ma ci vede bene colla mente, e ci sente meglio colle orecchie, chè non è già uno stordito il mio amico Jeanin, e ti farà toccare delle buone monete col suo violino. Veramente il tuo viso non mi fa troppo l’elogio di tua madre, ma tu hai l’aria di un buon fanciullo, e il cielo ti sarà grato se farai una buona compagnia al mio amico. Suvvia, sciogli subito il laccio a questa tua marmotta scodata, chè non va bene tentare la tua fortuna con questa patente di povertà, — porgi la mano al tuo compagno, e vattene alla buon’ora, chè io devo trovarmi per mezzogiorno sulla via di Villaz, lungo il canale.
Bouvard considerò questo avvenimento come un favore straordinario della fortuna, e gli parve pure che vi fosse qualche cosa di dolce nella missione di carità e di amore che il cielo pareva affidargli coll’alleanza inaspettata di quel cieco.
Egli non si era ingannato.
Sette anni dopo, si leggeva sui giornali di Ginevra:
«Bouvard, il celebre suonatore di violino, darà questa sera un’accademia musicale nel nostro teatro. L’ingegno straordinario di questo giovane artista, e la fama universale che lo precede, ci esimono dall’aggiungere per lui alcuna parola di elogio e di raccomandazione.»
⁂
Rivediamo ora Bouvard nella seconda fase della sua vita, — Bouvard, non più il piccolo savoiardo, — ma l’uomo di mondo, il giovane elegante, l’artista straordinario.
Quali saranno ora le sue passioni, il suo cuore?
Il lago di Lemano giace calmo e tranquillo, il cielo è sereno e stellato, e la luna si riflette nelle sue onde. È una di quelle notti di silenzio e di amore, in cui tutto ciò che vi ha nel creato si agita e vive di questo sentimento. Che dice il susurro del vento che increspa leggermente le acque? che dicono le acque al vento? — Perchè le migliaia di foglie di quell’albero tremolano mormorando tra di loro? La goccia di rugiada che discende dal cielo a collocarsi nel calice vagheggiato del fiore, per quale attrazione ha saputo percorrere la sua via verso di lui, nel vasto universo che l’ha creata? Porgiamo attenzione a questo linguaggio degli enti sconosciuto agli umani. Noi v’intendiamo il bisbiglio dell’insetto che compie le sue nozze fra i petali profumati della rosa; — il ronzìo della farfalla notturna che aleggia intorno alla sua compagna nel suo nido di foglie e di seta; — la voce dello zeffiro che prepara la fecondazione misteriosa de’ fiori; — il fremito delle alghe che si curvano ad accarezzare le onde fuggevoli del torrente; — il linguaggio segreto delle stelle, — il mormorìo degli steli e delle gemme, — i baci delle fronde, — i numeri infiniti che svelano nella natura il sentimento universale e prepotente della vita, l’amore.
Ma quanti sono tra gli uomini che intendano questo linguaggio? E non è l’uomo tra tutte le creature la sola che abbia spesso prostituito l’amore e sagrificato sull’altare dell’egoismo questo celeste sentimento? Non chiedete all’uomo dell’amore, non gliene domandate che un’ombra, — un’ardita apparenza che finge, che asserisce, che giura... Vi fu un tempo in cui gli uomini si amavano, prima che la famiglia, fanciulla vergine e pura, toltasi dalle foreste e dalle capanne per venirne a nozze colla società, non s’incontrasse per via coll’oro, garzone petulante e avventuriere che le fece violenza; e da quello sconcio nacque l’egoismo, mostro scellerato e insaziabile, che divora gli affetti nati da lui stesso, come Saturno divorava un tempo i suoi figliuoli.
Pure, a quella guisa che vediamo, tra le cento braccia inaridite d’un albero fulminato, sopravvivere talora un ramo solo e rivestirsi di fiori così leggiadri, che mai quell’albero ne aveva dato di tali nella pienezza della sua gioventù e della sua primavera; non altrimenti l’amore sbandito dal seno dell’umanità, si è rifuggito nel petto di pochi uomini che lo custodirono nel segreto del loro cuore. — Domandate a costoro come si ami, — cosa si speri dall’amore, — domandate loro se si può amare impunemente. — Oh! la gioventù è severa, e la società non lo è meno nelle sue leggi..., evitate dunque la lotta, insozzate la vostra anima, e gettatele ai piedi la vostra corona di rose, prima che essa ve la strappi dal capo per collocarvi il suo serto di spine e di cipresso.
Sulla superficie tranquilla del lago si culla leggermente una barca abbandonata, — i due remi che le pendono dai fianchi imprimono nelle onde due solchi paralleli d’argento che si riempiono, e si rinnovano senza sparire e senza lasciare alcuna traccia di sè, — emblema della vita. — Perocchè, chi crede che l’avvenire esista? chi crede che esista il passato? Il presente soltanto esiste, ed è quel punto impercettibile che li riunisce: il tempo è una catena che si snoda dall’abisso del futuro, e si riaccoglie nella voragine del passato. Ma forse la parte che sparve tornerà a ricomparire? — il serpente che si morde la coda. — Chi sa se il tempo trascorso non ritorni colle sue circostanze di luoghi e di avvenimenti? Le leggi che governano le evoluzioni degli astri e dei mondi, perchè non governeranno altresì le evoluzioni del tempo? Tutto parte da un solo principio di vita: piccoli mondi in un gran mondo, piccole esistenze in una grande esistenza... oh! sì, — il tempo ritorna, o l’eternità non sarebbe che un vaneggiamento dei mortali. — E puossi concepire l’idea dell’eternità ove vi ha qualche cosa che muore?
Forse sono tali i pensieri che agitano la mente di Bouvard seduto con abbandono nella sua barca. — Bouvard così giovane, incomincia a provar quella malattia di cuore che nasce dalle speranze deluse, e che si alimenta nella solitudine degli affetti.
Le prime pagine del libro della vita contengono racconti deliziosi, profezie e presagi di felicità senza fine, ma le pagine di mezzo ne preparano al disinganno, le ultime alla rassegnazione; e spesso si butta il libro, e non si vive che delle memorie di ciò che si lesse. Bouvard ha fatto ciò che tutti gli infelici hanno fatto: — ha divorato le prime pagine con isdegno, ed ora si riposa sconsolato a mezzo del libro. Ma egli non le lesse, no, quelle pagine, le ha indovinate: — egli non ha accelerato il suo disinganno, ma lo ha prevenuto, — egli non ha trovato nei piaceri dell’esistenza che una prostituzione indegna della nostra natura, un mondo fittizio che ci sfugge, e pure ci accarezza, una menzogna che ci degrada e pure ci alimenta... Quale è infatti l’epoca della vita che si rimpiange? Quali i giorni in cui osammo chiamarci felici? La gioventù... E pure l’età che l’ha seguìta, che ne ha fatto conoscere gli errori, ci ha snudato quel mondo apparente e menzognero de’ suoi colori fatui e abbaglianti, ci ha mostrato la vanità di quelle passioni, la piccolezza di quelle gioie, la nullità di quei piaceri, il ridicolo di quelle aspirazioni, la sorgente crudele di quei sogni, che ci promettevano godimenti infiniti nella vita virile. Ma se noi abbiamo conosciuto quell’inganno a profitto della verità, perchè oseremo rammaricarne?
Certo una condanna crudele pesa tuttavia sui nostri capi: — ovunque l’albero della scienza dilata i suoi rami, e alletta gli uomini a raccoglierne i frutti proibiti, sembra rinnovarsi la sentenza terribile che il cielo fulminò sui nostri padri: ogni passo che l’umanità ha fatto finora sulla via della verità e del progresso, ha segnato un punto di allontanamento dalla via della sua felicità e del suo perfezionamento morale. Avviene dell’individuo ciò che avviene delle nazioni, avviene delle vite parziali ciò che avviene dell’esistenza delle masse. La gioventù sfugge colle sue gioie a quegli uomini, cui uno sviluppo precoce dell’intelligenza e l’abitudine fatale della meditazione hanno svelato troppo presto la grande nullità della vita, e insegnato che la verità è un fantasma nudo, che la nostra sola avidità di raggiungerlo lo riveste di colori abbaglianti e di forme celesti, e che non le rimane che un solo conforto disperato, — quello che ritrae da sè stessa.
Bouvard non ha che diciannove anni, e già ha trasvolato collo sguardo su tutto l’oceano tempestoso dell’esistenza: — egli vi scorge la gloria, la fama, l’agiatezza, la vita elegante e fragorosa, tutte onde clementi che sembrano assicurargli un posto tranquillo e sicuro; ma non è là ch’egli desidera di riposarsi, egli vaneggia un altro lido lontano e insperato... oserà egli nominarlo? oserà dirlo a sè stesso? Bouvard desidera un affetto, un affetto ardente come la sua anima, com’esso infinito, un amore di cui saziarsi o morire.
Egli era nato per amare. — Vi sono delle vite che non furono mai che una rivelazione continua, incessante di questo sentimento. — Bouvard aveva amato prima sua madre, e con essa la sua capanna, i fiori e gli uccelli delle sue montagne, poi la sua marmotta da cui si era diviso con delle lacrime, poi il suo cieco compagno e i poveri villaggi della Savoja che aveva percorso con esso.
Egli è a lui sopratutto, che aveva rivolto per molti anni le sue cure pietose e il suo affetto. Quel vecchio gli aveva tenuto luogo di un mondo: — vi aveva trovato la severa tenerezza del padre e la confidente espansione dell’amico. Il povero Jeanin era stato un tempo un artista conosciuto, poi amareggiato dal livore dei cattivi, poi ingratamente obliato, e aveva voluto fare di Bouvard un alievo destinato a rivendicare il suo genio. Egli è altresì a quell’esempio che il giovinetto aveva piegato il suo cuore ad una tenerezza infinita, ad una sensibilità senza conforto, ad una generosità d’animo troppo grande e troppo spesso vilipesa dagli uomini. Nelle loro peregrinazioni per quelle campagne essi amavano talora di dormire nelle notti d’estate a cielo scoperto, e d’inspirarsi alla musica della natura; — e se entravano qualche volta nei villaggi, non era che per farvi intendere quell’armonia che ne avevano attinta, come un’emanazione improvvisa del loro genio, come un tributo dovuto a quegli uomini che li soccorrevano nei bisogni della loro vita materiale. Compiuta la loro missione, essi ritornavano ai loro campi, — e spesso Bouvard conduceva il suo compagno ad assidersi lungo le rive dei torrenti, o in quei seni remoti delle valli dove il vento agita continuamente le grandi foglie di cerri, e dove erano molti usignuoli che cantavano nelle notti serene fino al mattino.
— Vedi tu il sole? — gli domandava il vecchio qualche volta, — è egli ancora così luminoso, come quando io lo vedeva nella mia fanciullezza? Dammi la tua mano, lascia ch’io tocchi il tuo viso e i tuoi capelli; che io senta se le tue fattezze sono quali erano pure le mie in quel tempo.
Fanciullo com’era, Bouvard dormiva la notte profondamente, e spesso nel suo sonno l’udiva discorrere con sè stesso, o pregare. Una notte l’intese suonare così dolcemente, che mai il giovane aveva udita una musica così sublime: — egli pensò che uno di quegli angeli, di cui gli aveva parlato una volta sua madre, fosse disceso ad apprendergli quell’armonia che si doveva sentire soltanto nel cielo: — poi l’udì gemere e mormorare alcune preghiere, — poi non udì più nulla. — Si destò al mattino ch’egli dormiva ancora, — attese che si destasse, indugiando egli, lo scosse..., era morto! Bouvard pianse alcuni giorni, poi lo seppellì assieme col suo violino, sotto tre grandi alberi che crescevano lì presso, lungo un torrente che metteva nel Rodano, perchè avendogli egli detto che era del paese di Montelimart, pensò che le acque ne avrebbero col tempo restituito il cadavere alla patria.
Fu un nuovo avvenire quello che si aperse allora al suo sguardo; quantunque modesto, Bouvard aveva la coscienza del suo genio, egli sentiva di essere artista, sentiva di poter dare saggio di sè in ben altri luoghi che non fossero quei poveri villaggi della Savoja. La speranza di rinvenire suo padre bagattelliere girovago nella Francia, lo trasse quasi suo malgrado a quel paese. Entrò nel territorio della Saona, suonò la prima volta a Bourg, poi a Maçon, a Moulins, a Never; riscosse ovunque degli applausi, ovunque destò l’ammirazione la più insperata, a Melun gli furono gettate delle corone, e poichè egli si trovava così vicino a Parigi, entrò in quella città, allettato da quella vita fragorosa e felice nella quale anelava di lanciarsi.
Vi passò quattro anni; — il piccolo savojardo, il povero suonatore di gironda, era divenuto un giovane elegante, un artista ricercato, l’elemento morale di quelle grandi riunioni: l’eletta società si contendeva Bouvard come il genio vivente dell’arte, come una di quelle grandi individualità della scienza, di cui si ambisce la predilezione e la stima.
Fu in quei grandi centri che egli aveva studiato gli uomini e, più di loro, sè stesso. Egli avea bene veduto dovunque delle mani sporte a stringere le sue, dovunque aveva ascoltato delle parole di omaggio, egli s’era accostato alle labbra il veleno melato dell’adulazione; ma di quell’esistenza fittizia pareva sdegnarsi la sua anima, e quando volle un cuore, un cuore soltanto, conobbe che vi era un deserto intorno a lui, che l’amicizia rifuggiva da quella vita apparente e simulata, e che la sua deformità lo condannava all’isolamento dell’amore.
Vi furono in tutti i tempi delle donne che sacrificarono la loro fama alla bellezza disgiunta dal genio — nessuna che la sacrificasse al genio disgiunto dalla bellezza. La donna, questa quintessenza di polvere la più perfetta tra le opere della creazione, non nasconde spesso sotto la maschera irritabile del pudore che le traccie più delicate della sensualità. Nelle passioni di amore, l’uomo è quasi sempre guidato nella sua scelta dalla virtù, la donna non lo è mai che dall’avvenenza. Nessuna di loro ha confortato del suo affetto di amante la vita di qualche grande sventurato: una tomba recente, — la tomba dell’infelice Leopardi, — accusa in faccia all’umanità l’egoismo sensuale della donna.
Bouvard si avvide troppo presto che egli non poteva sperare dell’amore, e conobbe ad un tempo che questo bisogno si era talmente inviscerato nella sua natura, che non avrebbe potuto attutirlo che colla morte. Sdegnato di quella vita apata e clamorosa ove tutto si tributava all’apparenza, pensò che la solitudine lo avrebbe collocato in maggiore armonia con sè stesso, pensò che aveva ancora qualche cosa ad amare, le sue memorie. Egli era quasi ricco: diede un addio alla vita pubblica, partì inavvertito e venne pellegrinando alle sue montagne. Ma quivi pure gli erano riserbate delle disillusioni inattese: tutto era mutato nel campestre teatro della sua infanzia; le nevi disciolte avevano fatto scoscendere qua e là gran parte di quelle rupi; i montanari avevano recisa una foresta prediletta di pini dove veniva a riposarsi nei giorni canicolari dell’agosto, poche pietre rimanevano della sua capanna ove le lucertole verdi guizzavano ai raggi del sole, — e come venne alla tomba del suo amico, trovò che il terreno smosso e inumidito dalle acque, era tutto fiorito di quei ciclamini vermigli che crescono sulle montagne, e ne raccolse alcuni che portò seco per tutta la vita, come l’unica reliquia sopravvissuta al naufragio della sua felicità e della sua giovinezza.
Fu su quella tomba che egli compose le più belle melodie che mai il genio della musica avesse saputo inspirare, come un tributo alla santa memoria dovuta di quell’uomo che gli aveva appresi i primi erudimenti dell’arte, svelati i misteri più sublimi dell’armonia.
Ma come nessun uomo è capace di rimanere lungamente infelice, Bouvard pensò che il soggiorno d’una grande città lo avrebbe distolto dalle sue meditazioni sconfortanti, e quasi stordito e calmato nel suo dolore. La fama della Nuova Eloisa, — il più bel libro d’amore che mai sia stato scritto, — era ancora diffusa e fiorente tra la gioventù appassionata di quei tempi; egli aveva divorato quelle pagine con una specie di febbre e di delirio; la vita del grande socialista si approssimava allora al suo tramonto, splendido e maestoso come uno di quegli astri che si circondano di maggior luce prima d’involarsi alla vista degli uomini. — Bouvard volle baciare quelle zolle che avevano data la vita a Gian Giacomo, e venne a Ginevra.
Ecco come noi lo rivediamo in quella città, nel silenzio di una notte stellata, solo, abbandonato sopra una barca in mezzo alle onde tranquille del Lemano. Che fa? Che medita il giovane in quell’istante?
Vi sono dei periodi di effervescenza nello sviluppo dello spirito umano, in cui l’anima si sublima e si eleva ad una grandezza smisurata non concepibile che a sè sola. Che è la parola perchè si attenti a manifestare quegli slanci? Non sono che le piccole passioni, le sensazioni inerenti alla materia quelle che la parola può esprimere: ma ciascun uomo ha in sè qualche cosa che non rivela, che non può rivelare; ciascun uomo è più grande di quanto lo appaia, di quanto forse lo creda egli stesso. E che è ciò che noi chiamiamo genio, se non la facoltà di concepire e di estrinsecare, con quanta maggior verità è possibile, questa vita profondamente intima e spirituale dell’uomo?
Bouvard guarda le stelle, il cielo, la superficie immobile del lago, i salici che si curvano sulle rive, i pesci che guizzano inseguendosi, gli acari fosforescenti che scintillano nelle onde commosse dai remi; e da questo spettacolo svariato attinge delle idee che egli sente, che egli comprende, ma che non saprebbe pure manifestare a sè stesso. È il linguaggio arcano che vi ha tra noi e la natura, e che Iddio non ha concesso all’uomo di esprimere.
Ma gli occhi del giovine si rivolgono con insistenza a quei lumi lontani che appaiono sulle rive come tante scolte immobili nella notte, a quelle ville disseminate lungo la spiaggia, a quelle finestre socchiuse e illuminate che nascondono mille misteri di felicità e di amore. Sotto ciascuno di quei tetti vi ha una famiglia, vi hanno dei cuori che si amano, che sperano, che gioiscono, la cui esistenza non è tutta tessuta di dolore... Oh! sentirsi nati ad amare, possedere un cuore capace di amare un universo, e cercare indarno in questo deserto della vita qualche cosa che risponda a questo appello incessante dell’anima! — sempre indarno! — eternamente indarno! Bellezza, crudele bellezza! — perchè fu concesso a te sola l’impero assoluto dell’amore? perchè sei tu l’unica rivelazione, l’unica forma sensibile di questo sentimento? — Perchè, esclama Bouvard, — perchè rinchiudere la mia anima in questa creazione abortita dalla natura? Perchè darmi questo profilo di Etiope, questo naso da Ottentotto e questa bocca di Lappone? Poteva la deformità rivestirmi di spoglie più ributtanti? Oh la terribile condanna che associa al bello morale il brutto sensibile, e lo destina a rivelarlo!
Dopo quella notte Bouvard si ammalò, risanò a stento, partì improvvisamente da Ginevra e venne pellegrinando in Italia.
Vi passò tre anni: fu a Venezia, a Roma, a Firenze, e finalmente sostò a Napoli, dove, ricco di fama e di danaro, aveva determinato compiere la sua carriera di artista nel mistero e nell’isolamento.
La più grande disillusione e la più inattesa lo aveva colpito in quegli ultimi anni del suo trionfo: — egli si era sdegnato della sua arte. A che crearsi con essa un mondo ideale e fantastico che la società gli contendeva di raggiungere? a che accarezzare i suoi inganni, palliare la sua sventura, eccitare la sua sensibilità, se gli era nota la vanità di questi rimedii, e se l’orgoglio suo gl’imponeva con insistenza di rifuggirne? A che profondere quei tesori di armonie, quelle esuberanze dell’arte, ad una folla spensierata che lo copriva di oro, che lo acclamava artista divino, ma a cui avrebbe chiesto indarno un solo di quegli affetti che egli aveva eccitato con tanta potenza nei loro cuori? Essi avevano ammirato in lui l’artista, non l’uomo, — il genio, non il delicato sentire che l’accompagna, non l’ineffabile martirio che lo sconta. — Il giovine si sentì prostrato, si sentì invaso da uno scoraggiamento che indarno avrebbe tentato di superare: — vivere per sè stesso e a sè stesso; — obliare, — odiare anche — fors’anche odiare; giacchè l’odio può ben contendere la sua voluttà a quella dell’amore: — ecco l’estrema risoluzione di Bouvard, ecco il conforto disperato che si riprometteva da questo disegno.
Si ritrasse allora in una villa remota presso Posilippo e visse lungo tempo ignorato. Forse l’oblio avrebbe cancellato per sempre il suo nome dalle pagine della fama, se un avvenimento misterioso non ve lo avesse segnato con caratteri indelebili, se una catastrofe di terrore non avesse rischiarato d’una luce fosca e spaventevole il tramonto precoce della sua vita.
Bouvard aveva venticinque anni e non aveva amato: aveva bensì desiderato di amare, — aveva vagheggiato un affetto di donna come si vagheggia l’affetto ideale di un angelo, — lo aveva chiesto al cielo come un forsennato avrebbe accettato una intera e lunga esistenza di spasimo per un breve e fuggevole momento di amore. Oh! a venticinque anni, l’amore non è più una vaga aspirazione, non è più quel sentimento variabile, indeciso, estesissimo che si sviluppa nella prima giovinezza, ma è una nuova sensazione che si comunica a tutto il nostro essere, che riassume tutte le fila spirituali e fisiche della nostra esistenza. La vita, quale fu concessa agli uomini, sta nel giusto equilibrio dello spirito e della materia, e l’amore vero e potente si libra con essi senza propendere: ogni affetto che sfugge a queste leggi si oppone alle leggi della natura. — Egli è a venticinque anni che si ama la donna, a quindici non si è amato che l’amore.
Ma se l’anima di Bouvard era delicata e sensibile, era pure ad un tempo severa. Se egli non poteva disconoscere la propria deformità, non disconosceva però l’elevatezza del suo spirito e della sua mente: un affetto comune era un affetto indegno di lui; egli si sarebbe consumato nella tremenda solitudine delle sue passioni, anzichè accettare l’amore di una donna che non avesse saputo comprendere quanti tesori di poesia e di affetti si celassero nel suo cuore lacerato.
Allo sguardo di chi ama, la virtù non si rivela che nella bellezza. Il bello ed il buono sembrano partecipare della stessa natura, accoppiarsi e manifestarsi a vicenda — si direbbe che il buono è il bello morale, che il bello è il buono sensibile. Bouvard stesso si era ingannato come tutti gli uomini fanno: — egli non aveva conosciuto come una forza inesplicabile li tenga spesso disgiunti, e come questa fatale contraddizione si riveli distinta e frequente più che mai nella vacua natura della donna. Per quanto poco si abbia vissuto nella società, o attinto leggieri erudimenti dall’esperienza, si avrà osservato che le favolose bellezze di ogni tempo si segnalarono per difetto di merito morale, spesso ancora per malvagità di cuore o per vizio sfrenato: — sono le bellezze mediocri quelle che annoverano i migliori caratteri di donna e i più dolci, e forse perchè il loro numero è più diffuso; ma la deformità sfugge da questi limiti, e accenna quasi sempre a bontà estrema o a malvagità estrema. Bouvard, volendo cercare una virtù, cercava una bellezza, e la rinvenne.
In una sera d’autunno egli sedeva lungo la riva del mare, in uno di quei piccoli seni deliziosi che formano qua e là le acque incavando le rupi che le cingono, e contemplava il tramonto del sole dietro le scogliere addentellate di Lacco, quando una barca venne a passare all’improvviso rasente la spiaggia. Una donna attempata sedeva a prora leggendo, e poco lungi da lei una giovane bellissima stava silenziosa meditando, cogli occhi rivolti al cielo in atto di abbandono e di rapimento mentre una mano che cadevate giù come morta pel fianco della barca, sfiorava colle dita bianchissime le onde che la cingevano come d’un mobile smaniglio di perle e di argento. Una vela candidissima gonfia dal vento, quella luce di paradiso che si riflette dal sole nelle onde nell’ora del tramonto, e che le onde riversano a torrente sulle rive, componevano il fondo di quel quadro maraviglioso, che passò e sparve dinanzi agli occhi del giovane, come una creazione istantanea della sua fantasia, come la celeste visione di un sogno. — Quella donna non aveva veduto Bouvard, ma lo aveva guardato, — lo aveva lungamente guardato; — i suoi occhi fissi ed immobili parevano versare in lui quei sentimenti che forse nasceano dal pensiero di un essere lontano ed amato, — parevano dirigergli quelle aspirazioni che erano tutte pel cielo, e che la fanciulla avrebbe indarno tentato di rivelare alla terra.
Bouvard sapeva di non poter essere amato, ma troppo grande era ancora in lui la fede del sacrificio nella donna, perchè non credesse di poterlo essere per compassione. Una seduzione credeva egli esistere in lui, quella dalla sventura, ed egli vi attribuiva l’onnipotenza della bellezza. No, egli non è vero che l’amore inspirato dalla compassione possa generare l’avvilimento in chi lo riceve: ella è la più orgogliosa, la più nobile e la più durevole delle passioni, forse l’unica che il cielo benedice, e che non spegne che colla vita, perchè soltanto colla vita si spegne la sventura che l’ha generata.
Bouvard attribuì a sè quello sguardo. « Ella mi ama, egli disse, ella ha indovinato che io soffro. E potrebbe egli, quel viso di angelo, mentire un sentimento che non fosse di pietà e di tenerezza? Potrebbe ella amare un felice?... la felicità petulante, scherzevole, menzognera!...» E poi egli aveva veduto altre volte quella donna, l’aveva veduta ne’ suoi sogni, ogni notte, da diciassette anni: — era il genio fantastico della sua arte, la creazione severa della sua musica, l’ente concretizzato, vivo, sensibile, palpitante, che egli si era composto nell’estasi delle sue melodie e delle sue meditazioni.
E invero ciascuno di noi si crea fino dai primi anni della vita l’ideale della donna che vorrebbe amare, ciascuno di noi crede che esista un’anima sorella, le cui sembianze, le cui aspirazioni ci sono note, e verso la quale ci sentiamo attratti, nostro malgrado, per tutta la vita. Quell’amore che si strugge da sè senza posarsi, non è che l’incognita attrazione di un essere che la lontananza, che la società e la fortuna ci contendono; e spesso si vaga di amore in amore senza raggiungerlo, sempre ansiosi e sempre insoddisfatti, amanti sempre, e senza mai amare, portando seco fino alla tomba quel vuoto tremendo che i mille affetti passeggieri dell’esistenza non hanno avuto potere di riempiere.
Quando Bouvard si avvide della sua passione, provò come uno sbigottimento, come una voluttà che sentiva del dolore, come una nuova intuizione della vita, a cui si accoppiava il presagio lontano di quelle sventure che il cielo gli aveva destinate con quell’affetto. Quella donna era sparita: l’avrebbe egli riveduta? E dove? E quando? E rivedendola, si sarebbe ella risovvenuta di lui? l’avrebbe amato? Quell’intervallo di tempo non avrebbe modificato il sentimento di pietà e di amore che il giovane aveva creduto di leggere nei di lei occhi?
Oh! quell’istante in cui l’amore si rivela per la prima volta ad un’anima, è il momento più solenne della vita. E qual’è quell’uomo che può averlo dimenticato? Per quanto numerose sieno state le nostre passioni, per quanto indegne di noi, nessuno potrà mai obliare quell’istante in cui conobbe per la prima volta di amare. È lo svelarsi di questo sentimento che segna il principio della vita morale di ciascun uomo.
Non accenneremo ai cambiamenti avvenuti nelle abitudini e nel carattere di Bouvard dopo quel giorno. Egli passò tre mesi senza rivederla: aveva corse e ricorse tutte le vie di Napoli come un demente, era stato a tutti i teatri, aveva frequentati tutti i centri di riunioni senza avere indizio alcuno di lei e senza quasi sperare di rinvenirla, quando un mattino la rivide in una carrozza elegante che attraversava la via di Chiaja, verso la Villa. — Bouvard non ebbe il tempo di meditare al partito più conveniente cui poteva appigliarsi per raggiungerla: — trascinato da una forza irresistibile, l’insegue alla corsa..., si affatica..., resiste..., le sta al paro per lungo tempo: — ma già il suo ardore si scema, — le sue forze lo abbandonano, ed egli si arresta sfinito sulla via. Passò un altro mese: — la rivide una seconda volta e collo stesso esito, — la rivide una terza e, ahimè! pure indarno; ma i suoi sforzi furono finalmente coronati: — egli giunge un giorno a seguirla fino alla sua dimora. — Egli conosce finalmente il suo soggiorno, il suo nido, quel punto invidiato della terra su cui vive una donna adorata..., oh! gioia! — osa chiedere di lei: — si chiama Giulia, — non ha che diciassette anni, è fanciulla, è ricca, è felice, e il suo cuore è puro come la sua anima, è libero come la luce che lo circonda.
Da quel giorno Bouvard divenne audace, ardì sperare di essere amato, ardì meditare di palesarle la sua passione, e di affrettarne l’opportunità col prestigio della sua arte e della sua fama. Non andò a lungo che per esse furono superati quegli ostacoli che gli contendevano di avvicinarla, e giunse finalmente quell’istante sì ardentemente anelato, in cui avrebbe potuto inebriarsi della sua vista e leggere con sicurezza nelle pagine ignorate del suo destino.
Giulia apparteneva ad una famiglia patrizia, presso la quale convenivano il fiore dell’aristocrazia e le celebrità più elette nel campo dell’arte e della scienza. Fu ad una di quelle serate artistiche che Bouvard venne invitato: egli vi fu accolto con gioia, udito con trasporto, applaudito con frenetici entusiasmi... ma, oh Dio! era essa ancora quella Giulia che egli aveva veduto la prima volta dalla riva del mare nell’ora melanconica del tramonto?... quella fanciulla sì bella, sì dolce, sì compassionevole, quell’essere gentile e pensieroso che gli era apparso come una visione di cielo nelle ore tremende del suo sconforto? Colei, quell’angelo, quella fanciulla adorata, non era più che una donna comune, lieta, incurevole, folleggiante, sorridente a tutti quegli esseri fatui e leggiadri che se ne contendevano l’affetto; — una creatura della società e del piacere, ricca di gioventù e di bellezza, baldanzosa perchè felice, e felice perchè troppo insensibile, troppo esente da quella infermità di mente e di cuore, che ci rende pietosi a tutti i mali della società, ovunque sieno sentiti, e ci costringe a dividerli.
Forse Bouvard non si era ingannato credendo che la fanciulla lo avesse riconosciuto, e avesse riso del suo affetto e della sua deformità. Il contegno di Giulia sentiva troppo della derisione e della noncuranza, perchè egli potesse almeno lusingarsi di non aver tradito il suo segreto..., quel segreto sì dolce, sì caro, sì lungamente vagheggiato, e la cui rivelazione lo opprimeva ora di rossore e di avvilimento. E infatti, quel giovane che aveva inseguito come un insensato la sua carrozza, che le aveva prostituita la sua dignità e il suo orgoglio, che aveva preteso in sì strana guisa e con sì strana insistenza al suo cuore, era lì muto, umiliato, tacitamente deriso... E che era egli per Giulia?... lui..., quell’artista quasi ignorato, perchè sdegnoso di ammirazione, quel povero fanciullo della Savoja, quel giovane timido, sofferente, deforme?
Bouvard comprese troppo tardi come un accecamento fatale lo avesse lusingato di un affetto che la sua deformità gli rendeva impossibile d’inspirare. La sua deformità..., essa sola, — sempre essa..., quella inesorabile condanna, quella terribile distinzione, quel marchio indelebile della natura, che nè l’arte, nè il cuore, nè l’ingegno avevano avuto potere di distruggere. Un orribile desiderio balenò allora attraverso alla sua mente, — il desiderio di una deformità più mostruosa, di una bruttezza sì spaventevole, che, spingendo gli uomini a rifuggirne, avesse potuto saziare in lui l’avidità ineffabile dell’odio, quella nascente avidità che aveva già surrogato nel suo animo la prima e nobile aspirazione dell’amore.
Tale è la vicenda degli affetti, e quelli soltanto che furono miti e volgari si spengono soventi nell’apatia: ma niuna via di mezzo è concessa alle grandi passioni, e l’odio e l’amore, che ne segnano i due punti culminanti, si alternano nella pienezza del loro vigore senza mescersi e senza arrestarsi. Egli è tuttora mal deciso quale sia veramente la più nobile e la più giusta di queste due passioni, poichè l’una ci viene dal cielo e l’altra dalla terra, e l’una predomina nella società e l’altra nella vita privata, ma egli è ben certo che, nella maggior parte degli uomini, è l’odio soltanto che finisce per riempiere quel vuoto che non ha potuto riempiere l’amore.
Noi non diremo che Bouvard odiasse: — la sua vita avvenire non offrì circostanze sì palesi da poterlo asserire con sicurezza; forse lo aveva solamente desiderato, e ciò è desolante nella nostra natura, che i buoni desiderino sempre indarno di diventare malvagi, e i malvagi buoni. Si muore egli dunque quali si è nati? E che è questa fatale predestinazione che la nostra volontà non ha potere di distruggere? Bouvard amava ancora Giulia: — per una strana contraddizione dell’anima umana, per la potenza irresistibile che il bello esercitava sopra di lui, egli amava ancora quella fanciulla: — ma non era più la Giulia ideale, la creatura celeste, pensante, amorevole de’ suoi sogni; — egli amava una donna, una donna viva, folleggiarne, voluttuosa, l’immagine palpitante della gioia e del godimento. — E perchè avrebbe egli dovuto odiarla? Per quale diritto aveva egli osato pretendere al sacrificio della sua beltà e del suo cuore? Se l’idea di tale sacrificio, se il sentimento dell’amore nobile e disinteressato, dell’affetto isolato dalla materia, possono essere concepiti sulla terra, essi non sono punto della terra, e spesso lo svelarsi di questa verità rigetta per sempre nel fango quelle anime delicate e sensibili che vi avevano una volta creduto.
La vita di Bouvard si ravvolse da quel giorno in un mistero così imperscrutabile, che noi non potremmo accennare, neppure per supposizione, ai mutamenti avvenuti nel suo spirito e nel suo cuore. Non fu che l’ultimo istante della sua esistenza, che gettò una luce incerta e tetra sul suo passato, e rannodò in qualche guisa le fila spezzate e disperse del suo destino. Ove egli abbia vissuto e in qual modo, — ove esulato, si ignora. Sparve nella pienezza della sua gioventù e della sua gloria; — il suo soggiorno fu rinvenuto deserto, i suoi specchi infranti, distrutto ogni oggetto che aveva potuto riflettere a’ suoi occhi la sua immagine: — ogni traccia che egli aveva lasciata di sè, accusava l’esaltazione della sua mente, e qualche proposito irremovibile e disperato.
Noi non lo rivedremo più che nell’ultimo giorno della sua vita.
Quattro anni dopo quest’ultimo avvenimento, — in un mattino profumato di maggio, nella stagione che invita la natura all’amore, — si ornavano di gramaglie le porte di un sontuoso palazzo... Giulia, la ricca, la nobile, la leggiadra patrizia era morta, — morta alla vigilia delle sue nozze; involata alla terra da una malattia improvvisa e crudele, in tutta la pienezza de’ suoi inganni e della sua fede, in tutto il vigore della sua gioventù e della sua bellezza.
Allora da una piccola finestra di una soffitta in una casa di fronte, si affacciò una figura d’uomo, i cui lineamenti alterati dal dolore si contrassero in un sorriso amaro e terribile. — Quell’uomo era Bouvard. — Il pallore sepolcrale del suo volto, l’incolta abbondanza dei capelli e della barba, lo sguardo immobile e lucido, quell’espressione tetra e indefinibile di cui la sventura aveva velate le sue fattezze come d’un velo funerario, rivelavano il segreto di quei patimenti intimi e soprannaturali che intessono quaggiù molte vite, e che rifuggono sempre dalla confidenza e dalla pubblicità, fieri e sdegnosi d’ogni umiliante compassione e d’ogni conforto impossibile. E infatti, checchè egli avesse sofferto, rimase pur sempre un mistero. Amava egli ancora Giulia? Non aveala obliata in quei quattro anni di separazione? Era egli sempre vissuto presso di lei? Certo è ch’egli non abitava quella soffitta che da due mesi, e che la povertà più desolante era venuta spesso in quei giorni a visitare la sua modesta dimora d’artista.
Bouvard guardò, vide, lesse la funebre iscrizione, osservò il drappo nero che ornava le porte della fanciulla defunta, lo osservò con una muta indifferenza, senza affliggersi, senza stupirsi: — si sarebbe detto che quella sciagura non gli si palesava inattesa, che egli l’aveva preveduta, invocata, affrettata forse col desiderio. Certo il cattivo genio di cui favoleggiano gli uomini non avrebbe sorriso più tristamente, non avrebbe dimostrata una compiacenza più malvagia e crudele. Il giovine rinchiuse la finestra preoccupato da un pensiero insistente, da un’idea fissa, confortevole, lungamente blandita. «Affrettiamo, egli disse, affrettiamo il momento anelato... apparecchiamo per le mie nozze;» — e un istante dopo, gli ultimi arredi della sua soffitta, i suoi libri, la sua musica, le ultime reliquie della sua fortuna erano scomparse. Bouvard aveale mutate in oro e con esso aveva acquistato dei fiori.
La stagione erane feconda. — La famiglia infinita dei giacinti fiori di gioventù e di primavera, le prime rose simbolo dell’amore nascente, le gemme dell’arancio che intessono le corone delle fidanzate, le stelle mobili del gelsomino che simboleggiano l’amore pudico, le lavande che significano amore ardimentoso, le azzalee e le cardenie fiori di passione e di sentimento, ornarono in sì grande quantità e con tanta profusione di olezzi quell’umile soffitta del giovane, che la si sarebbe creduta una di quelle dimore favolose, dove le fate attiravano alle loro nozze la gioventù incauta e ardimentosa, destinata a perirvi in un’ebbrezza di voluttà e di profumi.
Bouvard attese con una gioia sfrenata a questa strana trasformazione della sua soffitta: — egli volle conoscere il linguaggio di ciascun fiore, volle collocarli egli stesso, alternarli con dei veli azzurri e rosati; e vi aggiunse, sorridendo tristamente, alcuni steli di ramerino fiorito che esprimono l’amore corrisposto. — Centinaia di lumi erano apparecchiati a versare torrenti di luce su quei veli e su quegli strati enormi di fiori: — e come il giovane ebbe compiuto i suoi apparecchi col più diligente mistero, si compiacque di quella vista deliziosa e allettante, e disse con trasporto a sè stesso: «Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba ad un tempo..., la vita e la morte..., il gelo del sepolcro, e il fuoco dell’amore sì lungamente represso...; certo non fu mai stretto sulla terra un connubio più degno degli uomini, e la stessa divinità potrà forse invidiarmi le mie nozze».
Noi domandiamo esitando: era Bouvard colpevole? Il dolore non aveva già alterato la sua ragione? quell’anima che fu un tempo sì pura, sì candida, sì generosa, poteva essersi così miseramente trasformata? poteva ella concepire nella piena lucidità della sua potenza un così orrendo progetto? Noi non lo affermiamo. La sua natura dovea certamente aver subìta una dolorosa modificazione: — la povertà, i disinganni, lo scetticismo sociale, l’isolamento dovevano, senza alcun dubbio, aver provocato in lui quella rivolta che ci trae a reagire contro la divinità e contro noi stessi, ma la sua colpa non fu certamente che la conseguenza d’uno sconvolgimento istantaneo della sua ragione. Il suo delitto fu espiato dalla sua vita, e l’espiazione lo precedette; vi fu in esso dell’amore, direi quasi del genio; — le fasi dell’esistenza umana hanno poche pagine più sublimi, e le nostre passioni si elevarono di rado ad una potenza più smisurata: — si può dire che l’ultimo giorno di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua vita.
Le notti nel mezzogiorno dell’Italia hanno in sè qualche cosa di voluttuoso e di molle; — il cielo è più elevato, l’azzurro più trasparente, le stelle più numerose e più lucide, — i fiori delle magnolie caduche e dell’arancio che si schiudono due volte all’anno, impregnano l’aria dei loro profumi delicati, e vi ha in essi qualche cosa che gli altri fiori non hanno, vi si sente l’amore, vi si respira la gioventù e l’abbandono. Ho domandato più volte a me stesso, perchè il cielo abbia destinate quelle ore al riposo: ma forse la notte è la scena più calma e più meravigliosa della natura per ciò solo che è in essa che gli uomini amano. Oh la sublime epopea della notte! Io vorrei conoscere se i morti conservano ancora sopra il loro giaciglio di pietra una parte della loro vita morale; se quella polvere, — poich’ella esiste, — ha la coscienza dell’esistere. Nella grande oscurità che avvolge tutti i segreti della natura, io credo che nessuno possa sorridere di questo pensiero: la superstizione ha pure i suoi diritti, giacchè è dalle sue tenebre che uscirono in ogni tempo i primi barlumi della verità e della luce. Ma avete voi mai passato una notte in un cimitero? — Il silenzio vi è più tetro che in qualunque altro punto della terra, e non per ciò vi sembrerà meno di sentire qualche cosa che vive, che pensa, che si agita sotto di voi. — Certo se i morti vivono, la debb’essere una vita di solenni meditazioni... E come passano essi quelle lunghe notti d’inverno?... quegli anni infiniti della loro muta esistenza?... Alla pioggia, al sole, alla neve... Povere anime! — No, egli non è vero che la morte uguagli tutti i destini; la ricchezza ha preparate le sale sepolcrali, e vi mantiene ancora un raggio di quella luce, di cui essi erano così avidi nella vita.
In una di quelle più splendide dimore fu collocata la salma di Giulia, e la giovine riposa sopra il suo lenzuolo di gramaglia come in mezzo ai veli del suo letto verginale. La sua bellezza ha nulla smarrito delle sue seduzioni; un abito bianco, leggiero, quasi vaporoso, ricopre le modeste sue forme; i suoi capelli neri e disciolti sono trattenuti sulla fronte da una corona di tuberose ancora fresche, le sue mani bianchissime le cadono dai fianchi coll’abbandono soave del sonno, e solamente i suoi piedi diritti e riuniti fanno fede dell’orrida rigidità della morte.
Bouvard penetra in quel luogo colla gioia scolpita sul volto, con quella trepidazione affannosa ma dolce che ci accompagna al primo convegno colpevole della donna desiderata. Il ribrezzo non lo trattiene, non frena la sua impazienza, non ammorza l’avidità irresistibile della sua passione: — ma ogni indugio può essere fatale al suo disegno, — è d’uopo affrettarne l’esecuzione: — il suo oro gli ha procurato dei complici..., egli invola il cadavere della fanciulla, e pochi istanti dopo è lasciato solo con lei nella sua dimora solitaria e segreta.
Allora il giovane la adagia con dolcezza sopra uno strato di fiori, — poi s’inginocchia e la guarda..., quell’abito candidissimo, quelle lunghe trecce disciolte, quel corpo che si abbandona e quasi si affonda coll’immobilità della morte in un letto profumato di verzura, — quella luce abbagliante che vi tinge ogni oggetto del colore dell’oro e del topazio, formano uno strano spettacolo che esalta e rapisce la mente immaginosa di Bouvard. — Ma egli non ha ancora osato sollevare il velo che nasconde il suo volto: — egli trema di quelle sembianze, teme che la morte ne abbia già alterata la bellezza, paventa quello sguardo fisso e severo che deve rinfacciargli, colla sua terribile immobilità, il suo delitto. Mille pensieri si agitano allora nella sua anima conturbata, il pensiero della sua vita sofferente, dell’inutile suo amore, del suo genio infelice, di quell’abbandono di sè stesso che lo trasse di giorno in giorno, sempre esitante e sempre sfiduciato fino a spegnere la sua vita in una colpa: — giacchè egli sente la prossimità del suo fine, giacchè egli ha deciso irrevocabilmente di morire..., morire presso di lei, — presso di quella donna al cui fianco non ha potuto trascorrere quell’esistenza avventurata e innocente che era stata il suo sogno d’un istante.
A questo richiamo gli si affacciano tutte le memorie della prima giovinezza, di quegli anni confidenti e felici, quando l’avidità dell’ignoto gli dipingeva di mille colori vaghissimi le scene future della sua vita: — quelle illusioni, quei sogni, quella fede balda e sicura, quel sorridere cortese della fortuna, — quell’amore universale che avrebbe voluto spargere delle rose sulle teste di tutti gli uomini, — quel vagheggiare un nido e una famiglia e perpetuare la nostra esistenza in altri esseri nati da noi, — quell’ideare il bene e compierlo, e prefiggerselo all’unico scopo della vita..., aspirazioni menzognere e crudeli! Nulla gli è rimasto di ciò: egli ha sofferto, egli soffre, ecco tutto, ecco la sintesi delle sue speranze, — egli ha dinanzi un cadavere, e l’ultimo de’ suoi giorni sta per compiersi con un delitto. — Bouvard si commove e piange. — Vi ha in quel periodo di calma morale che precede la morte un istante di lucidità straordinaria nel nostro intelletto, durante la quale si va svolgendo dinanzi ai nostri occhi tutta la tela tenebrosa del nostro passato. Gioie, dolori, predilezioni, memorie, affetti, colpe, tutto ripassa dinanzi a noi, tutto vi è evocato dalla inesorabile coscienza; e felici coloro le cui rimembranze soavi e confortevoli non lasciano nulla a rammaricare della vita!
Bouvard ha rivolto lo sguardo sul suo passato, e non vi ha scorto che un deserto senza limiti, una landa senza oasi, senza acqua, senza verzura, senza sorriso di cielo: — ventinove anni sono trascorsi, ed egli non ha raccolto un solo di quei fiori di cui la natura fu sì prodiga a tutti gli uomini; — egli non ha spiccato dall’albero dell’esistenza che un solo frutto, un frutto amaro e velenoso, il più crudele fra quanti ne maturino sui suoi rami, — il frutto della derisione.
A questo pensiero la mente del giovane, smarrita nell’abisso delle sue rimembranze, ritorna d’improvviso a sè stesso, alla sua deformità, a Giulia: — egli osserva quel corpo inanimato e leggiadro che gli sta dinanzi, — quella creatura sì lungamente desiderata, — quella fanciulla che fu un tempo sì bella, sì lieta, sì incurevole, il cui amore lo avrebbe consumato nell’esuberanza della sua felicità, il cui odio lo ha tratto invece per una ostinata potenza di volontà a sopravviverle.
E d’onde procedere quello sgomento incomprensibile che ci arresta dinanzi a un cadavere? Che è egli questo rispetto ipocrita e vano che ci trae silenziosi, e dimessi dinanzi a un mucchio di polvere che si dissolve? Oh! la sfacciata impudenza che curva le ginocchia degli uomini all’aspetto delle reliquie di un essere, di cui si è talora manomessa la felicità, e avvelenata a mille riprese la vita!
Ma non è tale la posizione di Bouvard: egli solo ha sofferto, egli è la vittima; egli vorrebbe elevarsi a giudice sopra di lei, ma un interno convincimento gli dice che non gli anni misurano l’esistenza, ma la felicita, la sola, la irrevocabile felicità ch’egli ha perduto: — quella fanciulla è morta, ma fu felice; egli vive, ma soffre, — egli non le sopravvisse che per rimembrarlo.
L’anima del giovine si agita crudelmente a questo pensiero, che lo ripiomba ne’ suoi propositi di vendetta: — quel cadavere sembra ora stargli dinanzi minaccioso..., forse egli vede, egli sente, egli sorride, egli si agita sotto il suo lenzuolo funerario... Bouvard si rialza impetuoso, e strappa il velo che copre il viso della fanciulla. — Dio! quale bellezza irresistibile! — E può il volto d’una defunta essere ancora così bello? Un’espressione di calma celeste si diffonde sulle sue sembianze, le guance sono tuttora leggermente rosate; la fronte candida e pura, le labbra e gli occhi socchiusi, l’epidermide trasparente e bianchissima: — non vi ha nulla di spaventevole in lei, nulla che possa essere più vago, più dolce, più allettante nella vita..., essa riposa, — essa dorme — come dormono i fanciulli a sette anni, quando non si sognano che delle nubi, delle farfalle e degli angeli..., tutte cose che volano, volano, e vanno verso il cielo.
Vi sono due soli e grandi avvenimenti nell’esistenza che possano dare ai nostri volti un raggio di quella bellezza celeste che sfugge a qualunque manifestazione, e sono l’amore e la morte, — due cose sorelle, — l’estasi dell’uno, e la calma che succede all’altra. Coloro che hanno amato e che furono amati lo sanno: — quella bellezza non è della terra e non dura, è qualche cosa di aereo che si posa un istante sulle nostre sembianze e svanisce, — essa si vede, ma è inesplicabile: — è forse una luce di lassù che discende a benedire i due atti più solenni della vita, l’amore che ci rende degni del cielo, e la morte che ci concede di raggiungerlo.
Io ho pensato più volte che se tutti gli uomini si innamorassero ad un tempo, la società sarebbe in un attimo trasformata: l’età dell’oro non sarebbe più quella favola allettante di cui si ride come dei sogni dei fanciulli. — Ogni uomo che ama è buono e grande. — I poeti sono uomini che amano.
A quella vista Bouvard si arresta colpito dall’entusiasmo: l’incanto di quella bellezza lo rapisce ed eccita la mente fervida ed immaginosa del giovane. Nel suo atto violento, egli ha scoperto una parte del seno della fanciulla: — essa gli appare come una statua rovesciata di Fidia, come una di quelle immagini di vergine greca che il turbine ha divette dalla loro base, e che s’incontrano talora mezzo sepolte tra i corimbi e le foglie oscure delle ellere, nelle isole solitarie dell’Egeo. Divina bellezza! — E perchè non gli è dato di rianimarla? di spirarle il soffio della vita che Dio ha riserbato a sè solo? Ma Giulia lo odierebbe vivendo: — e non lo ha ella deriso?
Il giovane rimane lungo tempo silenzioso, — poi il suo volto assume un’espressione tetra e risoluta, — egli si curva sopra di lei, egli vuole abbracciarla... «Nessuna donna, egli dice, si è data mai con maggiore abbandono ad un uomo...» Bouvard sorride seco stesso di questo orribile pensiero, — china il capo sopra di lei e ne bacia le labbra irrigidite dalla morte. Quale contatto! Egli si scuote, egli trasalisce inorridito, egli raccapriccia di quel gelo; e ricade prostrato dinanzi alla fanciulla. Allora egli piange, egli invoca, egli prega, — vorrebbe amarla, adorarla come una santa, e lo trattiene la memoria del suo passato; — vorrebbe odiarla, e lo arresta quell’immagine soave di angelo. Alcuni istanti dopo egli vaneggia e delira, — egli ripete ad alta voce il nome di Giulia, il nome della fanciulla adorata, e si abbandona al suo dolore disperato e selvaggio. — Poi l’asfissia dei fiori assopisce a poco a poco i suoi sensi, inebria e confonde la sua ragione: — egli prova come delle vertigini, — vede come degli oggetti che si muovono, — ode un bisbiglio di voci incomprensibili, — ripassano dinanzi a’ suoi occhi delle strane figure che lo guardano e sogghignano..., egli si agita, vorrebbe avventarsi contro di esse, tenta di rialzarsi brancolando nel vuoto, — e ricade spossato presso il cadavere della fanciulla.
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Certo, Bouvard non incontrò una morte così subìta, nè così violenta, poichè i vicini raccontarono al mattino di aver inteso nelle ultime ore di quella notte dei gemiti e delle grida soffocate; — ma ciò che aveva colpito maggiormente la loro immaginazione, era stato un suono di violino, da cui erano rimasti affascinati e sedotti come da un’armonia soprannaturale; — nè mai s’indussero a credere, per quante prove ne venissero lor date, che quella musica fosse stata l’opera di un uomo.
Tale fu l’ultima creazione di Bouvard, l’ultimo lamento della sua anima, l’agonia sublime del suo genio. Vi erano in essa tutte le voci della natura, vi era il bisbiglio del vento e l’aleggiare dell’uccello, il susurro dei piccoli steli e il fremere dei grandi fusti dei cerri, lo scorrere del filo d’acqua e il frangersi delle onde dell’oceano, — vi era tutto ciò che il suono ha di aspro e di dolce, di soave e di orribile. — Sfortunati coloro che udirono quella musica! La voce degli esseri più diletti, la parola di padre pronunciata la prima volta dal labbro del fanciullo, la prima rivelazione d’amore della donna adorata, non hanno avuto più nulla di soave, nulla di allettante per essi.
Il domani la fama di un sepolcro violato si diffonde per la città; — si cerca il cadavere di Giulia, — gli indizii de’ suoi complici guidano alla soffitta di Bouvard; — si chiama, nessuno risponde, — si batte, nessuno apre: — allora si atterrano le porte... orrendo spettacolo! — tutti quei fiori erano calpestati e dispersi, molti oggetti infranti, i veli della fanciulla lacerati, — dovunque le traccie di una lotta disperata e inuguale.
Non era Giulia morta? o le preghiere del giovine avevano avuto potere di rianimarla un istante?
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Scheggie e frantumi di violino giacevano sparsi sul pavimento, ed un corpo deforme, inanimato stringeva convulsivamente il cadavere della bella Giulia... — Bouvard era morto!
fine.