Ricordi storici e pittorici d'Italia/Avignone

Avignone

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Le sponde del Liri Napoli
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AVIGNONE

1860.

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I.

Esiste un prestigio magico in quel nome di Provenza, e questa contrada irradiata dal più bel sole, rinomata per il suo bel canto, ricca di vigneti e di olivi, irrigata da uno stupendo fiume, animata da mille ricordi dei tempi antichi esercita tuttora un vero fascino sopra gli abitanti dei paesi settentrionali. Lo splendore dei canti de’ suoi trovatori l’illumina tuttora, come i raggi di un sole sanguinoso; imperocchè quella splendida epoca della poesia del medio evo, è profondamente tragica, anzi orribile per lo sterminio degli Albigesi, di quegli eretici coraggiosi, di quegli eroi del pensiero, il quale insanguinò la poesia provenzale, la libertà delle repubbliche municipali della Francia meridionale, la civiltà di quelle contrade. Fu quello uno dei punti culminanti della storia del medio evo; i contrasti di quell'epoca sempre decisi e pronunciati, lo furono maggiormente ancora colà ed in quel periodo di tempo; libertà e dispotismo; amore poetico, voluttà, ed inquisizione, fiori, feste, e roghi; Giraldo di Borneil e Pietro di Castelnau; Bertran del Bornio e S. Domenico. Si aggiunga l’attrativo di una lingua melodiosa, illustre, la quale poco a poco venne scomparendo del tutto, di una lingua la più antica fra le lingue romane, nella quale si scrisse e si portò prima che si fosse formata la lingua italiana; della lingua d’oc o di Occitania, dalla quale ebbero origine quasi per contatto geografico le tre lingue principali di razza latina, l'italiana, la spaguola, e la francese. [p. 116 modifica]

Non havvi per avventura in tutta la Francia una provincia, la quale meriti in grado uguale di essere studiata attentamente. Se non chè la strada ferrata corre troppo rapida, e quella contrada curiosa, le sue roccie rossiccie sormontate da antichi castelli, le sue città cupe e malinconiche, le sponde ridenti del suo fiume, i suoi aranceti, i suoi vigneti, passano non meno rapidamente davanti al viaggiatore che i ricordi storici evocati dall’aspetto di quelle regioni, Bosone di Arles, Raimondo di Tolosa, Simone ed Amaury di Monfort, i conti di Beana e di Oranges, Innocenzo III, Carlo d’Angiò, Ludovico VIII, S. Domenico, i trovatori, i santi, gli eroi, i sette Papi di Avignone.

La Provenza del resto, ha tutt’altro che l’aspetto di un paradiso; in molti punti la si potrebbe paragonare ai deserti dell’Arabia. Suoi campi sono aridi, sassosi, arsi del sole, spesso di un aspetto selvaggio, bizzarro, malinconico cupamento severo. Allorquando vidi questa regione arida compresi come avesse potuto essere teatro di guerre fanatiche di religione; come quivi, su questa terra bruciata dal sole, dovesse crescere una razza di uomini apassionata, come quivi, del pari che nelle Calabrie, dovessero regnare le passioni le più svariate, ascetismo, entusiasmo, arditezza di concetli filosofici, amore di libertà.

Risuonano ancora quivi le imprecazioni delle terribili crociate contro gli Albigesi, gli Ugonotti, delle guerre delle Cevenne, delle conversioni tentate da Ludovico XIV per mezzo dei suoi dragoni? Quasi si direbbe, che le città deserte, le castella che sorgono in rovina in cima alle rupi, sembrino parlare tuttora di quelle epoche, come dei saturnali sanguignosi della ultima rivoluzione; e non fanno per certo lamentare la caduta della tirannia feudale. Se non chè non sono soltanto le castella rovinate, le quali portano questa impronta severa, e malinconica; la posseggono pure i villaggi, le città fabbricate con una roccia di colore giallo-rossiccio, che si direbbe infuocata, al mirarla fra le fronde magre dei gelsi, e degli olivi. Neanco [p. 117 modifica]nei monti più selvaggi dello stato pontificio, nei monti volsci, nella Sabina, neanco nella Corsica, non ho veduto villaggi ugualmente cupi, ugualmente malinconici. Sono per lo più fabbricati alla rinfusa, senza ordine; le case costrutte di piccoli e rozzi sassi, coi tetti acuminati, sono piccole, a forma quasi di capanne; qua e là si scorge una finestra senza impannata, chiusa unicamente da imposte di legno. Le strade sono piccole, strette, oscure, incassate, meritano a mala pena quel nome, perchè le case o disseminate qua e là senz’ordine di sorta, od ammontichiate le une sopra le altre, non si prestano alla formazione di strade regolari, e sembra piuttosto trovarsi nei giri tortuosi del letto di un torrente, che in vie aperte alla comunicazione degli uomini fra di loro.

Generalmente sorge sopra ogni villaggio un castello rovinato, quasi marchio in fronte del sanguinoso medio evo. Poco sono gli indizi, le traccie di arti belle; le chiese stesse sono più che modeste, e di architettura tutta primitiva. La vita che si vive in quei paesi pare estranea alla civiltà, porta in generale l’impronta della selvatichezza e della miseria. Imperocchè per qual motivo i contadini abbastanza agiati di oggidì, i quali non hanno a temere più nè gli arbitri nè i soprusi dei baroni, nè le scorrerie dei soldati di ventura, nè le sorprese dei satelliti dell’inquisizione continuerebbero a rintanarsi in quelle meschine catapecchie, tristi avanzi del medio evo? La forza dell’abitudine sola ve li può costringere, e gli abitanti del mezzogiorno sono più tenaci degli altri nei loro usi, nei loro costumi, particolarmente nelle regioni aride e montuose, per sè ribelli al progresso agrario, e l’inezia ed il sudiciume, sono pur troppo qualità caratteristiche di tali contrade.

Parlo dei piccoli villaggi della Provenza, non delle grandi città avezze da tempo alla civiltà, alla vita sociale, le quali pero, sono desse pure di aspetto malinconico, decaduto, e sudicie desse pure. Tali sono Donzéres, tali Mondragone col suo nero castello, Mornas colle sue memorie sangui[p. 118 modifica]nose, Piolenc (nomi strani, bizzarri, e sonori) tale pure Orange; che vi richiama tutto ad un tratto al ricordo della storia della Borgogna, dei Paesi Bassi, dell’Inghilterra, ed anche della Prussia; sede una volta dei principi da cui venne la casa di Orange, ma pur sempre città piccola, d’aspetto cupo, notevole per alcune antichità romane, e reliquie del medio evo.

Nelle campagne regna un profondo silenzio, si vedono appena qua e là alcuni contadini intenti a lavorare la terra e ad onta della prossimità di due grandi città commerciali, quali sono Lione e Marsiglia, non vi si scorge guari indizio di attività industriale, di commercio. Anche le stazioni della strada ferrata sono in generale vuote di passeggieri; ad ogni stazione però stanno aspettando preti col loro breviario, monache coi loro rosari, colle loro grandi croci. In una parola, questa contrada non è contrada francese; queste popolazioni della faccia abbronzata dal sole, dai capelli neri, non sono francesi; sono pretti Romani, o popolo misto di Liguri, Celti, di Borghignoni, di Visigoti, di Romani, ed anche di Greci Massilioti, i quali tutti popolarono queste regioni delle loro colonie.

Le sponde qua e là altissime del Rodano, colle loro tinte calde, l’aspetto selvaggio di esse in alcune parti, come alla Roche de Glun, eccitano la fantasia, e danno al paese un aspetto sempre più meridionale, sempre più originale.

Presso Mornas vidi i primi olivi, ma vi hanno tuttora apparenza di piante esotiche, ed in quanto a limoni ed aranci punto non ne viddi ad onta della prossimità della città di Orange. Presso Sorga si varca il torrente di questo nome, il quale scende dai monti romantici di Valchiusa dove Petrarca cantò la bella Laura. Sorge in vicinanza Avignone, sulle sponde elevate del Rodano, e di là signoreggia tutta la contrada, il palazzo dei Papi, uno dei più cospicui monumenti che ci siano rimasti del medio evo, gigantesco, di aspetto cupo, il quale richiama alla metoria in qualche modo quelli dell’Egitto. [p. 119 modifica]

Avignone non è nè grande nè bella città, però varia di aspetto, ed originale. Ai tempi dei Papi contava ottanta mille abitanti, oggidì sono ridotti a trentasette mille quelli del decaduto capoluogo del dipartimento di Valchiusa. Dessa al pari di tante città d’Italia, dalle quali si ritirò la vita non è più che un monumento senz’anima. L’aria vi è per così dire impregnata di leggende, di storia, ma non già come quasi dovunque in Italia, di belle e poetiche tradizioni; qui sono tutte severe. Abbondano il fanatismo, la prepotenza baronale, l’assolutismo clericale; mancano la vita civile, il soffio della democrazia, i contrasti della vita attiva e del genio della civiltà. L’ombra del suo castello colossale del medio evo si stende su tutta la città; e si direbbe la opprima, la impedisca risorgere; guardando da quello Avignone, si pensa involontariamente ad un legittimista caduto in bassa fortuna, sull’abito di velluto logoro del quale, si scorgono tuttora vestigia di ricami in oro.

Allorquando camminavo sul selciato, propriamente scellerato, di queste strade oscure, malinconiche, mi pareva trovarmi tuttora in Anagni, dove pure più di una volta cercarono i Papi rifugio, dove sussistono tuttora le rovine del palazzo di Bonifacio VIII, e dove la città è decaduta, deserta, polverosa, incresciosa, quanto lo è questa di Avignone. Fu in Agnani appunto, dove Bonifacio VIII fu sorpreso e trattato nel modo il più indegno da Guglielmo di Nogaret, inviato del re di Francia Filippo il Bello; e pochi anni dopo lo stesso re Filippo portava il papato esautorato e ridotto a suoi voleri, nella cattività francese, o come fu detta di Babilonia, fissandone la sede quivi in Avignone. E queste reminiscenze storiche, queste relazioni fra le due città, mi facevano pensare sempre più ad Anagni, della quale tengo perfetta conoscienza.

Le mura stupende della città, opera dei Papi, colle loro torri quadrate, con i loro merli, con le loro porte; l’alta ed ampia rupe (Rocher des Doms) colla cattedrale e coll’immenso palazzo; la città di aspetto grigio, dalla quale [p. 120 modifica]sorgono alcune torri; il Rodano che lambe le mura; gli avanzi pittorici del ponte di S. Benezet; il ponte sospeso che porta nell’isola sul Rodano; sull’altra sponda di questo l’aspetto bizzarro di Villeneuve-les-Avignon colle sue torri, e col suo castello; tali sono i caratteri principali, ed a prima vista di Avignone.

La posizione della città, senza essere straordinariamente bella non manca però di un certo pregio; imperocchè lo stupendo fiume, il quale oltre la strada ferrata la congiunge a Lione ed a Marsiglia, vale a dire alla città stesse ed al suo territorio, un carattere di grandezza e di maestà. L’orrizzonte è vasto e bello, e mi sorprese, ad onta delle mie fresche reminescenze d’Italia, quando dalla riva del Rodano salii la lunga ed ampia gradinata, la quale porta sul Rocher des Doms. Si scorge una vasta campagna, coltivata ad oliveti, a piantagioni di gelsi, di robbia, a vigneti, attraversata dal Rodano, dalla Sorga, dalla Duranza, irrigata da quantità di canali, popolata da moltissimi villaggi. Un cielo limpido e sereno, si stende su quella regione di colline. Sulla sponda dritta del Rodano, arida, e di tinta gialla come le roccie della Sicilia, si scorgono Villeneuve, il forte S. Andrea Chateau-neuf-des Papes, i monti ricchi di oliveti di Valchiusa, le cime delle Alpi del Delfinato e della Provenza, finalmente le montagne della Linguadoca. Tutti questi monti non hanno le forme nobili di quelli d’Italia, campeggiano però in una atmosfera e sotto un cielo meridionale, ed annunciano la vicinanza del bel paese. Allorquando i cardinali italiani e romani (che sempre ve ne furono alla corte dei Papi francesi) gettavano lo sguardo su questi campi di Provenza, potevano fino ad un certo punto trovarvi un ricordo delle bellezze d’Italia, ed una reminiscenza dell’orizzonte grandioso di Roma. I cardinali poi, ed i Papi francesi, che l’amore di patria legava a queste contrade, potevano gettare sovra esse con soddisfazione i loro sguardi, e consigliare agl’Italiani di consolarsi nell’esilio col vino eccellente di Borgogna, e colle belle Avignonesi dalle chiome [p. 121 modifica]corvine, consolazioni alle quali, stando alle storie di quei tempi, non mancarono gli esuli di avere ricorso.

La vegetazione sul Rocher des Doms è tutta quanta meridionale. Vi crescono e vi fioriscono i leandri, gli allori, i ginestri, ed i pini, e vi scorsi pure alcune piante di aloe, ma tutte queste piante d’Italia vi erano piccole, tisiche, quasi piante esotiche; e si scorgeva che il suolo non era quello ancora in cui potessero prendere tutto il loro sviluppo. Nel pensare alla splendidezza della vegetazione in Italia, mi pareva che i Papi avessero procurato portare nella cattività di Babilonia la Flora romana. Gli aranci ed i limoni non crescono in Avignone in campo aperto, per quanto vi sia caldo il sole, e non vidi che meschini gli allori, i cipressi, ed i pini, che crescono cotanto maestosi in Roma. Del resto il suolo di Avignone è fertile, produce vino ed olio eccellenti, fichi, mandorle, e robbia sovratutto, in grande quantità.

Si riferisce alla coltivazione di quest’ultima pianta una grande statua in bronzo, la quale sorge sulla spianata del Rocher des Doms. Avezzo a trovare in Italia sulle piazze delle cattedrali la statua del santo, patrono della città, mi mossi verso quella per vedere quale fosse il santo patrono di Avignone, e trovai scritto sul piedestallo. A Jean Althem introducteur de la garance, les Vauclusions reconaissants 1846. In faccia pertanto alla cattedrale di Avignone, in prossimità del Vaticano francese, non sorge la statua di un Papa, nè di un martire o di un vescovo, ma quella di un semplice cittadino, il quale introdusse nella Provenza non già l’inquisizione, ma una pianticella la quale fa ricco il paese, tingendo di un bel rosso i calzoni di seicento mila francesi. E ciò mi persuase che non mi trovavo punto in Anagni, ma in una città della Francia attiva ed industriale, fra Lione e Marsiglia. Giovanni Althen del resto non era avignonese ma persiano. Venne in questa città nel 1756 e morì nelle vicinanze, a Caumont, nel 1774.

Non regnava un soffio d’aria quando pervenni su quel[p. 122 modifica]l’altura, e ad onta fossimo in ottobre, il sole era ardente. Ma il vento del settentrione, il mistrale come qui lo chiamano, si fa sentire soventi con forza, e la città stessa vi è molto esposta, d’onde l’antico proverbio

Avenio ventosa
Sine vento venenosa
Cum vento fastidiosa.

Io però farei una correzione all’ultimo verso dicendo Cum et sine vento fastidiosa. Questo proverbio mi ricordò quello di Tivoli. Tivoli di mal conforto, o tira vento, o piove, o suona a morto.

Il nome di Rocher des Doms è derivato da Domnis o Dominis e la cattedrale pure è denominata Nostra Signora des Doms. La rupe sovra la quale sorge, è alta cento trentotto piedi sopra il livello del mare, ed ottant’un piede sopra Avignone. Colà sorgeva l’antica acropoli, e colà ebbero sede in tutte le epoche i principali monumenti della città. Rassomiglia in questo Avignone a parecchie città del Lazio e dell’Etruria, le quali ebbero nel punto più elevato l’antica rocca, ed a fianco di questa il tempio, tanto durante il paganesimo quanto nell’era cristiana; imperocchè le cattedrali ed i palazzi vescovili, fortificati e colle loro torri, furono in generale costrutti con i materiali tolti dai tempii dei gentili.

Prima di introdurre il mio lettore nel palazzo dei Papi, voglio da questo Campidoglio di Avignone gettare uno sguardo sulla storia di questa città e de’ suoi dintorni, imperocchè quale linguaggio possono parlare i sassi e le mura di una località famosa, se loro non dà vita la storia?

L’origine di Avignone è oscura. I Greci la nomarono Avenion, i Romani Avenio, non si sa se togliendo il nome a vento, ab a vibus, avineis. La città deve essere stata capitale dei Cavari o Celti, i quali popolavano questa parte delle Gallie, e più tardi vi presero stanza pure i Massiloti, quale in emporio sul Rodano. Avignone fu quindi colonia romana, con diritto di città latina, ed appartenne al pari [p. 123 modifica]di Ginevra, Grenoble, Valenza, Orange, Carpentras, Arles e Marsiglia alla provincia gallica di Vienna nel Delfinato. Tulle queste città fiorirono sotto i primi imperatori, e sorse in esso numerosi monumenti dell’architettura romana. In Avignone però veruno ne rimane, mentre nelle sue vicinanze, più o meno sussistono tuttora in Orange, Carpentras, Cavaillon, ed Arles. Può darsi sia vero quanto narrano gli scrittori di Avignone, che quei monumenti siano stati distrutti dai Borghignoni, dai Goti, dai Franchi e dagli Arabi; se non che nel considerare le mura colossali del palazzo dei Papi, mi pareva probabile che al pari di molte chiese, di molti palazzi di Roma, dovessero celare nel loro interno, più di un monumento romano.

La Provenza, ultima fra le provincie romane delle Gallie diventa finalmente romana per lingua, per costumi, fiorente per civiltà latina, ricca di scuole, di accademie, fu posseduta dapprima per poco tempo dai Visigoti, poscia dai Borgognoni, poi diventò provincia Franca, sotto Clodoveo. Se non che tutte le razze germaniche furono sempre odiate dai Provenzali, i quali parlavano latino, ed anche allorquando i Franchi diventarono Francesi, la Francia meridionale sulle due sponde del Rodano, fino ai piedi dei Pirenei, si separò fin quasi ai tempi nostri per lingua, per sentimento nazionale, per usanze, per costumi dal resto della nazione. La Francia meridionale si oppose di continuo alla dinastia dei Merovingi, quindi dei Carolingi, cercò far regno da sè, d’onde ebbero origine le loro intelligenze con i Saraceni, nemici giurati dei Franchi. Se non chè Carlo Martello dopo avere sconfitto i Mussulmani presso Tours, li cacciò pure della Provenza, s’impadronì di Avignone, la quale aveva aperte le sue porte agl’infedeli, e la pose a ferro ed a fuoco. Per tal guisa la Provenza venne ridotta a signoria dei Franchi.

Intanto i Provenzali, dopo la caduta dei Carolingi si sottrassero alla monarchia francese; nel concilio tenuto a Vienna nell’anno 879 elessero a loro re nazionale il conte Bosone, e per tal guisa venne fondato il regno di Pro[p. 124 modifica]venza, il quale ebbe pure il nome di Borgogna Cisiuranica siccome quello che comprendeva molte parti dell’antica Borgogna, Provenza, Delfinato, un tratto della Savoia, Nizza, il Lionese, la Bressa e parte di Friburgo. Rimase separata la Borgogna Transiuranica fino al 933 nel quale anno i due regni furono riuniti, e formarono il novello regno di Arles. L’ultimo re di questo, Rodolfo III, chiamò nel 1032 a suoi eredi i re di Germania, i quali mantennero a lungo su quelle provincie, attualmente francesi, e più a lungo ancora sulla Svizzera, la supremazia politica.

Sebbene passasse allora la Provenza a far parte del regno di Borgogna, continuarono però a governarla suoi conti nazionali, in qualità di vassalli del regno e dell’impero. Dall’anno 900 in poi, presero stanza in Arles e finirono per ridurre la loro signoria ereditaria pressochè indipendente, mentre sorgevano pure i conti nazionali nella Linguadoca, e vi fondavano la famiglia illustre dei conti Raimondo di Tolosa.

Avignone appartenne al regno di Arles, ma oltre i conti di Provenza, possedevano diritti pure sulla città quelli di Tolosa, e quelli ancora di Forcalquier, in guisa che, prima di diventare possessione dei Papi, ebbe per lungo spazio di tempo tre signori, stando inoltre, soggetta ancora all’imperatore di Germania, strana ed assurda combinazione, che solo il feudalismo, è l’intricato suo sistema di diritto pubblico possono spiegare.

Nell’epoca avventurata, in cui principiarono a svilupparsi ed a fiorire le libertà municipali, Avignone pure ottenne la propria autonomia, come la avevano ottenuta Marsiglia ed Arles. Furono governate da consoli, e da podestà, ad imitazione delle repubbliche italiane, con effettiva partecipazione del vescovo al reggimento municipale. Il grande imperatore Barbarossa, confermò nel 1137 gli statuti di Avignone, ed allora quella fiorente citta prese pure il nome di repubblica imperiale.

Poco tempo dopo fu coinvolta nella grande agitazione, nel grande rivolgimento che tolse il nome degli Albigesi. [p. 125 modifica]L’affrancamento, l’emancipazione del pensiero andarono di pari passo coll’affrancamento del diritto municipale; e le citta della Francia meridionale, dove fin dai tempi dei Greci e dei Romani eransi mantenuti spiriti municipali, inalberarono con trasporto la bandiera degli Albigesi, e di Raimondo di Tolosa, per conquistare la loro piena indipendenza. È noto quale sia stato l’esito finale di quest’ultima lotta della Francia meridionale per la sua libertà; le crociate fanatiche, mosse prima da Innocenzo III, quindi da Onorio contro gli Albigesi, i conti di Tolosa, e le repubbliche, le quali avevano fatta con questi alleanza, ebbero per fine di annientare la libertà di queste ultime, di rovinare la loro prosperità, e di fare assorbire la loro nazionalità dalla Francia.

Il feroce Simone di Monfort il partigiano più caldo della chiesa, avventuriere ardito, conquistatore di provincie, si rese padrone della Linguadoca, bella proprietà dei conti di Tolosa; e Roma la quale a que’ tempi regalava regni, quasi fosse stato il Papa padrone del mondo, lo confermò nel concilio Lateranense del 1215, in possesso di quelle contrade. Se non che, l’infelice Raimondo e suo figliuolo, si mossero da Genova dove si trovavano in esilio, furono accolti con trasporto dalle repubbliche di Avignone e di Marsiglia, e si riaccese la guerra più accanita che mai. Un sasso, lanciato dalla mano di una donna, colse nel capo Simone di Monfort all’assedio di Tolosa, e gli Albigesi trionfarono per poco tempo.

Soggiacquero alla crociata a cui Papa Onorio III animò Ludovico VIII; i re di Francia anelavano da gran tempo al possesso della parte meridionale di quella contrada, e la crociata non fu che un atto politico del Settentrione contro il Mezzogiorno. Il giovane Raimondo, fu costretto a sottoscrivere la pace in Parigi nel 1228, cedendo alla corona di Francia molte delle sue possessioni, ed alla chiesa romana perecchi de’ suoi diritti sopra Avignone, ed il contado Venosino. Roma guadagnò nella guerra contro gli Albigesi il primo titolo ad una novella signoria in [p. 126 modifica]Francia, ed ottenne particolarmente Venasque e Carpentras; se non che questa cessione non aveva propriamente che il carattere di un pegno, e la Chiesa si trovò costretta a dovere restituire quelle città ai conti di Tolosa. Non dimenticò però mai i suoi diritti, e fin dal 1273 il re di Francia fece cessione assoluta, e per sempre, ai Papi del contado Venosino.

Avignone costretto da Ludovico VIII nel 1226 ad arrendersi, rimase ancora una volta soggetto ai conti di Tolosa, ed a quelli di Provenza. Se non chè in forza dei patti della pace di Parigi, Raimondo aveva dovuto concedere la mano di sua figliuola ed erede Giovanna, ad Alfonso di Poiters, fratello del re. Colla morte del primo, avvenuta nell’anno 1249 si estinse la famiglia illustre dei conti di Tolosa, ed i suoi possedimenti passarono alla Francia. Uguale sorte toccò ai conti di Provenza, discendenti di Bosone; l’ultimo di questi, Raimondo Berengario, maritò l’unica sua figliuola Beatrice con Alfonso fratello di Carlo d’Angiò, che fu più tardi conquistatore di Napoli, e carnefice di Corradino, e per tal guisa anche la Provenza venne nel 1245 in podestà della corona di Francia.

I due fratelli cercarono di far valere i loro diritti sopra Avignone ed altre città. Invano si rivolsero le repubbliche minacciate, per aiuto al grande imperatore Federico II loro alto signore in forza degli antichi diritti dell’impero; dovettero soggiacere al duro conquistatore. Avignone si arrese il 10 maggio 1251, scomparvero i suoi ordinamenti repubblicani, i suoi consoli, il suo podestà, i suoi vicari, la fiorente sua civiltà municipale, alla quale doveva succedere sessant’anni dopo altra esotica e curiale, impiantata dai Papi in quella stessa Provenza, che i loro predecessori per mezzo dei loro legati avevano messa a ferro ed a fuoco, spegnendo la splendida civiltà della Francia meridionale, la gaia scienza di Arles, di Tolosa e di Nimes.

Avignone rimase esclusivamente ai re di Napoli, i quali portavano pure il titolo di conti di Provenza e di Forcalquier, e narrerò nel palazzo dei Papi stesso, come la chiesa romana abbia ottenuta questa città, dalla corona di Napoli. [p. 127 modifica]

II.

Questo castello cupo, colle sue torri massiccie e colossali, colle sue mure nere e gigantesche, interrotte da poche finestre gotiche irregolari, con i suoi fossati, colle sue prigioni sotterranee, produce un’impressione non solo di tristezza, ma quasi sinistra. Nel complesso poi il castello è un brutto edificio, un misto di fortezza, di convento, di palazzo e di prigione, fabbricato senza piano, senza disegno, una specie di laberinto. Sebbene la mole sia di una certa imponenza, questa fortezza papale in Francia, isolata da tutta quanta la storia del papato, senza veruna connessione con tutti gli altri monumenti di questa, porge un carattere di casualità, di meschinità, tuttavolta si pensa al Vaticano. Anche a fianco di questo sorge una fortezza; ma dessa è il mausoleo di un imperatore romano; il genio delle arti ha ingentilita la sua mole, e nelle sue ampie stanze brillano le meraviglie del mondo classico. A S. Pietro a fianco al Vaticano, corrisponde in Avignone la piccola chiesa Notre Dame des Doms, annessa al castello. Rappresenta per tal guisa, questa residenza passaggiera, le sorti ed il decadimento del papato, durante la sua permanenza in Francia; fu questa una prigionia dei Papi, ed il suo castello baronale ricorda l’epoca del feudalismo, nella quale il supremo gerarca della cristianità, non era altro che un vassallo della Francia, e non arrossiva di assumere, quasi ad illustrazione, il titolo di conte Venosino e di Avignone.

Il governo, e gli atti di sette Papi danno vita al castello, ma toltene poche personalità eminenti, non bastano a dare anima a questa rocca colossale. La storia dei Papi avignonesi non basta a riempire quelle ampie stanze, a popolare le sue mura; rimasero morte e vuote, ed appena i Papi ebbero abbandonato il palazzo, non presentò questo maggiore interesse di tanti altri castelli baronali. [p. 128 modifica]

Sulla porta maggiore d’ingresso si scorgono le armi di Avignone, una città sorretta da due aquile, ad al disotto tre chiavi papali in oro; entrando si trovano cortili deserti, mura altissime, scale eterne, lunghi corridoi a foggia di monastero, capelle gotiche ora chiuse, ampie sale attualmente tramezzate, stanze nelle torri, vôlte sotteranee, un vero laberinto di Dedalo, il quale fa venire le vertigini. Rimbomba il tamburo; i soldati gridano, schiamazzano, e negli splendidi appartamenti che furono di Clemente VI si scorgano ora lunghe file di letti militari. Dopochè la rivoluzione nel 1790 ebbe cacciato di Avignone i legati pontificii, il palazzo venne senza difficoltà ridotto ad uso di caserma, e serba oggidì tuttora quella destinazione. Ne ha tutto quanto l’aspetto, essendo stata devastata in modo barbaro dai soldati durante la rivoluzione, e sotto la ristaurazione nel 1815. I preziosi affreschi delle cappelle, e di parecchie stanze furono intieramente rovinati, e non vi si scorgono più che a mala pena alcune reliquie di belle pitture della scuola di Giotto.

Queste mura ora mute, furono testimoni durante settant’anni, della storia del papato, in una delle epoche più meravigliose d’Europa, quando cominciava a splendere di bel nuovo ia luce delle scienze, ed a diradarsi le profonde tenebre nelle quali giaceva immersa l’umanità. Non sarà quindi fuor di proposito trattenerci alcun poco a fare parola dei Papi, i quali vissero in Avignone.

Il degnissimo Clemente V, Bertrando du Got, dapprima arcivescovo di Bordeaux, volpe astuta in abiti sacerdotali, come lo qualificò il Muratori, ottenne per simonia il pontificato nel 1305. Eletto e confermato a seguito di segrete intelligenze con Filippo il Bello, si fece incoronare a Lione contro il volere dei cardinali; li costrinse a venire in Francia, a seguirlo in Avignone dove fissò la sua stanza nel 1309. Quella città apparteneva in allora a Carlo II re di Napoli; il Papa pertanto era suo ospite, non esisteva colà palazzo pontificio, e Clemente andò ad alloggiare nel convento dei Domenicani. Macchiò, siccome è noto, la sua [p. 129 modifica]memoria piegando ai voleri del despota francese, pronunciando nel concilio di Vienna del 1311 la soppressione dell’ordine dei Templari. Nell’atto di morire il gran mastro di questi, Giacomo Molay, citò il Papa ed il re di Francia fra breve davanti al tribunale di Dio, e volle il caso che la sua profezia non tardasse ad avverarsi. Clemente morì in Roquemaure nel 1344. Arricchì i suoi nipoti, ma non lasciò di sè che la memoria di un ambizioso sordidamente avaro, quale lo qualificarono due grandi ed illustri fiorentini, storico l’uno, santo vescovo l’altro.

Dopo la sua morte Avignone continuò ad essere residenza di suo successore, provenzale di nascita, e contemporaneamente vescovo della città. Giovanni XXII ebbe grande predilezione per questa, si lusingò di poterla ridurre a signoria della Santa Sede, e di uniria al contado Venosino, ed a Carpentras. Si rinnovarono nella piccola Avignone le sorti di Roma; i Papi, i quali avevano poco a poco acquistato in questa il dominio temporale, mirarono pure a diventare signori di Avignone, non appena ebbero fissata ivi la loro stanza. L’energico vecchio si decise a costrursi una fortezza in suolo straniero, ed in podestà del re di Francia. Questa nuova abitazione non poteva essere nè un palazzo, nè tanto meno una villa, doveva essere una rocca con fossi e con torri, ed a questa si porgeva adattissimo il Rocher des Doms, il quale signoreggia il corso del Rodano.

Giovanni XXII gettò le fondamenta della rocca di Avignone, e risale alla sua epoca la maggiore torre detta Trouillas, la quale si estolle colossale, tuttochè non ultimata. Nel vedere sorgere davanti ai loro occhi quest’edificio, i cittadini di Avignone attoniti potevano comprendere quale fosse la sorte riservata alla loro patria; Giovanni prese ad abitare la sua fortezza, e si fu da questa che scagliò nel mondo i suoi fulmini, i quali andarono a colpire pure Lodovico il Bavaro; ivi accolse pentito l’antipapa Pietro di Corbara, ed ivi lo tenne prigioniero fino alla sua morte. Giovanni XXII morì nel 1334 in età di novant’anni. [p. 130 modifica]Fu dotato d’ingegno perspicace, di grande energia, ma avido di dominazione, d’indole guerriera, e rapace nello accumolare tesori per qualunque via. Alla sua morte si rinvenne ne’ suoi scrigni l’ingente somma di venticinque milioni di scudi d’oro, dei quali diciotto in moneta sonante, e sette in vasellami e pietre preziose.

Tali erano le ricchezze dei Papi in quel loro esilio di Babilonia, ed in un’epoca in cui lo stato della Chiesa si trovava in piena rivolta, e nella quale tutte quante le provincie erano rovinate. Noi ci domandiamo attoniti, con quali mezzi potessero i Papi in Avigoone radunare tanto danaro, superiore ai redditi in quell’epoca della Francia e della Germania. Spetta il darne la spiegazione alla storia di que’ tempi, che non abbiamo preso qui a scrivere.

Giacomo Fournier, figliuolo di un mugnaio di Saverdun, monaco Cistercense, fu il terzo Papa in Avignone, e prese nome di Benedetto XII. Vecchio senza genio, senza viste politiche, ma dotto in teologia, succedette al disinvolto Giovanni XXII l’amico dei re, col lodevole proposito di purgare la corte papale del nepotismo, la Chiesa dalla simonia, e da mille altri abusi. Cominciò allora a regnare nel palazzo pontificio una disciplina severa, tutta monacale. Se non che Benedetto XII pure, dal quale molto speravano i Romani, rimase sordo alle loro preghiere, alle loro ripetute istanze, perchè trasferisse di bel nuovo la sede dei Papato a Roma. Il partito francese vi si oppose virilmente; il re costrinse il Papa a rimanere in Avignone, motivo per il quale Petrarca nella sua amarezza patriottica, lo fece segno ai più vivi rimproveri, e non gli risparmiò i titoli i più ignominiosi.

Benedetto XII decise a non muovere da Avignone, ridusse l’abitazione di Giovanni XXII a forma di fortezza inespugnabile, dandole anche in certo modo seguendo la sua indole, l’aspetto di un monastero, e non poterono più i suoi successori mondani, togliere all’edificio quel carattere.

Clemente VI fu uomo vivace, spiritoso, istrutto, di in[p. 131 modifica]clinazioni mondane, un perfetto gentiluomo della casa di Beaufort, amico del Petrarca, amante delle arti belle, della poesia, delle scienze, chiamò le muse alla voluttuosa sua corte di Avignone; se non che queste vi si trovarono, quasi piante esotiche, fuori del loro elemento natio. La città che gl’Italiani nella loro irritazione nomavano Sodoma, o la seconda Babilonia, fioriva in quell’epoca e brillava di uno splendore che non le era proprio; in un teatro così ristretto, la corte pontificia, i cardinali non potevano allargarsi, muoversi a loro posta, e qualunque cosa siasi detta o scritta dello splendore di que’ tempi, non è però men vero che quei Papi francesi non furono che baroni provenzali, che cittadini del piccolo Avignone. Mentre questo fioriva, Roma era diventata un villaggio. Abbandonata dai Papi che aveva cacciati le tante volte dalle sue mura, bramava ardentemente il loro ritorno, e dal momento che questi non si decidevano e ritornare, si abbandonava la città eterna nella sua desolata solitudine ad un sogno, ad una strana illusione di cui non ricorda altra maggiore la storia. Furono i tempi meravigliosi di Cola di Rienzo, il quale fece la sua prima comparsa in questo palazzo di Avignone.

I Romani mandarono un’ambasciata a Clemente VI per sollecitarlo a volere far ritorno a Roma, e trovavasi fra i legati Cola, in allora conosciuto a Roma qual notaro e qual eccellente oratore. Fu in Avignone che Petrarca lo conobbe. Trovavasi pure fra gli ambasciatori Stefano Colonna, capo della prima famiglia di Roma, amico del Petrarca, il quale per certo non nudriva in allora sospetto che fra pochi anni il giovane notaio avrebbe fatto uccidere i suoi figliuoli ed i suoi nipoti.

Nello aggirarsi oggidi entro le squallide stanze del castello di Avignone, sorgono davanti agli occhi Petrarca, madonna Laura, non che la figura romantica dell’ultimo tribuno dei romani, rallegrando per tal guisa alquanto la tristezza che regna per entro a quelle mura. Se non che i soldati dai calzoni rossi di Napoleone, figliuoli dell’epoca [p. 132 modifica]presente senza significato, i quali tornati appena dai campi di battaglia sanguinosi di Magenta e di Solferino, si andavano preparando in questo palazzo dei Papi a partire per tenere guarnigione in quella stessa Roma papale, la quale trovasi ora in condizioni ben più critiche di quanto fosse ai tempi di Cola di Rienzo; quei soldati si frapponevano di continuo fra me e le imagini del passato. Dessi non avevano idea veruna nè di Petrarca, nè di Madonna Laura, nè di Cola di Rienzo, nè di Giovanna di Napoli; sapevano però che quelle mura avevano albergato Papi, e potevano pensare che anche attualmente un Papa era in certo modo prigioniero della Francia, e che si andava dicendo potesse venire condotto in Avignone. Non potevo a meno di considerare in quelle stanze, come le condizioni attuali del Papato porgano una grande rassomiglianza coll’epoca della novella cattività di Babilonia, ed intanto andavo cercando di bel nuovo, fra quei soldati chiassosi, le ombre di Petrarca, di Madonna Laura, di Cola di Rienzo, le quali mi parevano aggirarsi in quegli appartamenti ridiventati splendidi, ed illuminati da centinaia di fiaccole, in mezzo alla folla dei cavalieri, delle dame, dei prelati, dei cortigiani.

Fu pertanto in queste mura, ed in principio del 1344 che Cola di Rienzo tenne discorso a Clemente VI. L’argomento era ricco, adatto ad un Demostene, o ad un Cicerone; il giovane e bello oratore aveva posto tutto il suo impegno per arrivare a commuovere il Papa, e quella illustre assemblea, acquistando contemporaneamente a sè fama non peritura. Fece una pittura vivace della miseria in cui era caduta Roma, e descrisse in particolare modo i soprusi, e la prepotenza dei baroni. Questa fu la causa della sua rovina. I Colonna, fra i quali il cardinale Giovanni che era presente, posero il Papa in guardia contro l’ardito demagoga, e Cola licenziato di mal garbo, rimase un certo tempo in Avignone in povero stato, oggetto di scherno dei cardinali e dei grandi, mentre lo spirito suo irrequieto andava macchinando sogni, e disegni arrischiati per l’avvenire. [p. 133 modifica]Intanto Clemente VI finì per trovarsi costretto a rimandarlo a Roma, nella qualità di notaro della camera municipale. Di là ebbe principio la sua carriera fantastica in Roma, nella quale si propose non solo di richiamare la città all’antica grandezza, ma ancora di fondare l’unità d’Italia.

Il grande tribuno ricomparve ancora una volta nello stesso palazzo di Avignone. Il primo atto del meraviglioso suo dramma aveva avuto luogo in Roma. Venne nel 1351 quale prigioniero da Praga, consegnato dall’imperatore Carlo VI. Allorquando arrivò in città, scortato da uomini armati, tutto il popolo si mosse per vedere l’uomo singolare, che avea operato cose cotanto straordinarie in Roma. Cola fu condotto nel palazzo, trattenuto ivi in carcere, somministrandoglisi vitto scarso; gli venne fatto processo al quale presero viva parte non solo in Avignone, ma tutto il mondo. Erano grande il prestigio del suo nome, de’ suoi atti; la gloria classica di Roma circondava colui che aveva osato vestire la toga, e presentarsi qual tribuno del popolo, rinnovando, la storia antica del popolo conquistatore dell’universo. Si andava dicendo inoltre che egli era poeta, e che il condannare a morte un vate, sarebbe stata cosa mostruosa, inaudita. Il popolo di Avignone era amante della poesia, Clemente stesso coltivava le Muse, e Petrarca scriveva epistole commoventi ai Romani, richiedendoli di tentare per mezzo di un’ambasciata, la salvezza del suo infelice amico. Intanto Cola se ne stava rinchiuso fantasticando in una torre del castello, forse in quella terribile Trouillas la quale sussiste oggidì tuttora; non si sa con precisione il luogo dove venisse rinchiuso, ma la tradizione accenna quella torre quale sua prigione. La sua detenzione però si andò facendo meno severa; gli sì mandavano cibi dalla tavola del Papa, gli si permetteva avere libri, ed egli si immergeva nella lettura assidua di Tito Livio, nel quale trovava descritta la grandezza antica dei Romani, ed in cui poteva ravvisare l’imagine tanto delle sue gesta, quanto della sorte che lo aspettava. Visse colà fino all’agosto del [p. 134 modifica]1353 in cui il successore di Clemente VI non solo gli consentì ritornare a Roma, ma colà lo spedì in qualità di suo vicario. La sorte pareva arridere ancora una volta all’ardito avventuriero, ma furono quelli i suoi cento giorni, imperocchè fini per cadere trafitto di pugnale ai piedi del Campidoglio.

Domandai se per avventura esistesse nel palazzo qualche ricordo della presenza di quell’uomo singolare, ed il custode mi fece vedere un ritratto di Cola, che teneva nella sua stanza. Questo ritratto, dipinto ad olio, lo rappresentava in abito di senatore, con un berretto nero in testa. La sua fisionomia ampia e molto espressiva, di aspetto nobile, senza barba, porge i lineamenti pronunciati che Cola doveva presentare nell’ultimo periodo di sua vita. Il naso aquillino, di profilo prettamente romano, rivela energia; lo sguardo è pacato e tranquillo. Sotto il ritratto leggonsi le parole Nicolas Calabrini dit de Rienzi, Tyran de Rome em 1347. Questo ritratto non ha, per dir vero, verun carattere di autenticità, ed appartiene fuor di dubbio al tempo in cui il gesuita Cerceau publicò l’opera sua di nessun valore. Conjuration de Nicolas Gabrini dit de Rienzi, Tyrun de Rome, venuta alla luce in Amsterdam nel 1734; però non manca di un certo pregio, sovratutto per la considerazione che non esiste in Roma, verun ritratto del tribuno del popolo.

Oltre quelle di Rienzi e del Petrarca, havvi ancora un altra figura storica la quale si presenta ad ogni tratto all’imaginazione nel palazzo di Avignone, quella di una bella e giovane principessa, accusata dell’uccisione del marito, ed assolta dal pontefice, Giovanna I regina di Napoli, e signora di Avignone e della Provenza. Quale erede del regno, era stata fin dalla fanciullezza fidanzata dal suo avo Roberto I al giovane principe Andrea d’Ungheria. Questo gran re morì il 19 gennaio 1343 dopo avere stabilito un consiglio di reggenza, per la durata della minorità di Giovanna. La principessa, giovane di sedici anni, trascurata, punto non amava il suo consorte, di cui è probabile però abbiano gli [p. 135 modifica]storici napoletani esagerati i modi rozzi, ed il carattere nullo. I baroni napoletani congiurarono contro gli Ungheresì, che si trovavano in buon numero, e godevano di grande influenza alla giovane corte; decisero di sbarazzarsi di Andrea, tanto più dacchè Clemente VI alto signore del regno, nella sua qualità di Papa (erano tuttora tempi splendidi per la Santa Sede) aveva di già pubblicate le bolle, che prescrivevano l’incoronazione del minorenne Andrea.

Giovanna trovavasi il 18 settembre 1345 in Aversa col re suo consorte; verso la notte Andrea venne chiamato fuori de’ suoi appartamenti col pretesto di ricevere dispacci importanti, e non appena l’infelice giovane apparve al balcone, fu afferrato da persone mascherate, le quali gli gettarono un laccio al collo, e lo precipitarono senza far romore nel giardino, dove si trovò al mattino il suo cadavere, appeso ad una fune. Il popolo si commosse; la regina tremando fuggi in tutta fretta a Napoli, dove si rinchiuse nel suo palazzo; la voce pubblica la accusava di avere ucciso il marito, o quanto meno di essere complice dell’assassinio di questi. Ebbero luogo processi ed esecuzioni per ordine tanto di Giovanna, quanto del legato pontificio, che non si tardò a spedire da Avignone.

Intanto il prode Ludovico di Ungheria, fratello dell’ucciso, preparò un esercito per muovere contro Napoli a vendicarvi la morte di Andrea. Giovanna, giovane, bella, voluttuosa, come in tempi posteriori Maria Stuarda, e spiritosa al punto, che si diceva aver ereditate le splendide doti d’ingegno del suo grande avo, non sapeva in qual modo sottrarsi al pericolo imminente che la minacciava. Tolse a marito Ludovico di Taranto suo cugino, per il quale nudriva una tenera passione, già prima della morte del marito. Intanto il mondo risuonava delle accuse del re di Ungheria, e delle proteste d’innocenza di Giovanna; le opinioni erano divise.

Comparvero gl’inviati di Ludovico e di Giovanna a Roma, davanti a Cola di Rienzo, e la regina procurò guadagnare a sè il tribuno del popolo, in allora padrone di Roma, e [p. 136 modifica]nel fiore della sua possanza, protestando la sua innocenza, con umili e lusinghiere epistole, accompagnate di ricchi doni. Sottraendosi però alla collera dell’Ungherese il quale si avvicinava, si avviò in gennaio del 1348 in Provenza sua proprietà, in compagnia del novello marito, e si presentò in Avignone a Clemente VI, il quale, feudatario di Napoli ed iniziatore del processo aperto contro di lei, era ad un tempo suo giudice, e suo signore.

Il Papa le assegnò a stanza Villeneuve, sopra la sponda opposta del Rodano; convalidò il secondo matrimonio di lei, che non era conforme alle leggi canoniche, e fece istrurre il processo, invitandola poi a comparire nel proprio palazzo, davanti ai cardinali ed ai baroni di Provenza, i quali erano tutt’altro che propensi a di lei favore. Giovanna pronunciò davanti all’assemblea un’orazione latina a sua difesa, con tanto spirito, con tanta tranquillità, con tanta sicurezza, che tutti rimasero compresi di stupore. Il suo comparire in attitudine di accusata, di esule, la memoria di suo grande avo Roberto, protettore illustre della Chiesa, e più di tutto la sua gioventù, la sua bellezza, la sua grazia, commossero tutti gli animi. Il Papa era commosso più di tutti; i vecchi cardinali avevano gli occhi semi spenti velati del tutto dalle lagrime, e la giovane regina assolta dall’accusa di uxoricidio, uscì dalla sala dando il braccio al cavalleresco Ludovico di Taranto, e gettando uno sguardo di trionfo sulla solenne assemblea.

Bastò questo giudizio dei cardinali ad assolverla davanti alla propria coscienza? Era dessa propriamente innocente quale la proclamarono? Fra gli storici napoletani gli uni la condannano, gli altri l’assolvono, e la sentenza imponente degli storici d’Italia di maggior peso, l’addita quale complice almeno del misfatto. Dessa fu consapevole del reo disegno, e non vi si oppose; al pari di quanto fece più tardi Maria Stuarda, in occasione della morte di Darnley. Del resto, poteva dirsi strano, delitto di tal natura, a que’ tempi, ed in quella storia sanguinosa di Napoli?

Giovanna si preparò a far ritorno a Napoli, per ricon[p. 137 modifica]quistarvi il suo regno. Aveva d’uopo d’uomini e di danaro, e vendette l’8 giugno 1348 la città di Avignone al Papa, per la meschina somma di ottanta mille scudi d’oro. Si trassero da questo fatto severe conclusioni; nessuna prova esiste a conferma di esse, ma il sospetto è facile a spiegare. L’uccisione di un re, e l’assoluzione di una regina accusata di averlo spento, furono quelle che ridussero Avignone in signoria dei Papi. Giovanna riacquistò il regno di Napoli, che governò con senno e prudenza per molti anni, in mezzo ad agitazioni continue. Morto Ludovico di Taranto sposò Giacomo di Aragona, e venuto a morte questi pure, tolse a quarto marito Ottone di Braunschweig, ma non potè più a lungo dominare il caos in cui era piombato il regno. Cadde nelle mani di Carlo III di Durazzo, suo parente e nemico a morte, e questo pretendente alla corona, ordinò a’ suoi scherani di farla perire della stessa morte toccata al suo primo marito. Giovanna di Napoli fu strangolata nel castello di Muro nelle Puglie nel 1382.

Mentre le mura del palazzo di Avignone richiamavano alla mia memoria quest’episodio sanguinoso della storia del regno di Napoli, il mio pensiero si fermava a considerare le condizioni attuali del regno stesso, le cui sorti incerte ed agitate, traggono a sè l’attenzione di tutta quanta Europa. Pensavo al giovane re Francesco rinchiuso nelle mura di Gaeta, erede degli errori e delle colpe di suo padre, fuggitivo dalla sua capitale, abbandonato da suoi popoli, stretto d’assedio dalle truppe italiane nella sua ultima fortezza, minacciato dal re di Piemonte che mira a precipitare dal trono il suo congiunto, inalberando l’antica bandiera di Cola di Rienzo, la bandiera dell’unità d’Italia, con Roma capitale. Sono nuove pagine sanguinose negli annali del regno di Napoli, la cui storia è cupa e vergognosa quanto nessun’altra al mondo, se non chè il fuoco dei cannoni di Gaeta, è l’ultimo lampo del tramonto di un dispotismo il quale non poteva più durare; e dopo alcuni anni non si potrà a meno di ammettere [p. 138 modifica]essere il Dio della storia un Dio giusto e severo, il quale ricerca e punisce le colpe dei padri, fin nella terza e nella quarta generazione.

III.

Avignone pertanto, era diventata, come abbiamo visto, proprietà della Santa Sede, e Clemente VI non tardò a prenderne possesso, con sua grande soddisfazione, essendo ivi non meno signore, di quanto fosse di già in Venasca e Carpentras. In un’epoca in cui per l’anarchia originata dalle continue lotte fra i Guelfi ed i Ghibellini, la Chiesa era venuta perdendo mano mano coi suoi possedimenti in Italia, quel tratto di terra provenzale non doveva comparire ai Papi tanto come un esilio, quanto piuttosto un vero e sicuro asilo, in presenza di un ritorno a Roma ogni giorno più problematico. Mentre per vari secoli erano stati dalla ribellione cacciati ripetutamente di Roma, ed era colà la loro esistenza diventata continuamente precaria; in Avignone avevano quiete e tranquilità, ed i settant’anni dell’esilio di Babilonia, furono per lunga pezza i soli anni pacifici del Papato. Non era quindi da stupire se i Papi provassero ripugnanza, e procrastinassero a staccarsi da Avignone.

Se attualmente la Chiesa romana possedesse un territorio al di là delle Alpi, non sarebbe improbabile che Pio IX, in condizione di cose le quali ricordano l’epoca di Cola di Rienzo, vi cercasse rifugio, a vece di rimanere sotto la dubbia protezione della Francia in Roma agitata ed irrequieta, le cui sorti paiono giunte ad un punto decisivo, che è pure soddisfacente potere contemplare co’ propri occhi.

Clemente, diventato signore di Avignone, ampliò ed abbelli il palazzo de’ suoi predecessori. Cercò col prestigio delle arti, di renderne meno cupo e meno severo l’aspetto. [p. 139 modifica]Vi eresse una stupenda cappella, o piuttosto chiesa gotica, di gran lunga superiore per ampiezza e per bellezza architettonica alla cappella Sistina nel Vaticano. La ornò, come del pari varie stanze del castello, di buone pitture a fresco, per opera di maestri chiamati d’Italia. Tutte queste pitture vennero distrutte; la cappella divisa in due piani, ed in varie camere, venne ridotta ad uso di caserma, e si vedono con dolore gli archi gotici incassati nei muri, ed avanzi di pregevoli affreschi, i quali sono fuori di dubbio della scuola di Giotto.

Clemente VI morì il 6 dicembre 1352 dopo oltre dieci anni di pontificato, durante i quali succedettero avvenimenri notevolissimi, e dopo avere vissuta vita piacevole e splendida. Aveva radunato in Avignone il fiore della Francia meridionale, ed introdotto il lusso alla sua corte; nelle sale del suo palazzo gremite di belle dame, di cavalieri, di poeti, di artisti, di dotti, le feste succedevano alle feste, ed era stato largo a suoi nipoti a suoi favoriti, delle dignità della Chiesa, e dei tesori accumulati dall’avarizia di suo predecessore. Fu il Papa il più spiritoso di quanti ebbero stanza in Avignone, ed il cupo castello di questo si può paragonare in quell’epoca al Vaticano nei tempi di Sisto IV, di Giulio II, e di Leone X.

Tre papi abitarono ancora dopo di lui la Francia; l’ultimo di questi pose fine all’inopportuno esilio, riportando la sede del somino pontificato nella città eterna.

Innocenzo VI, Stefano di Albret, nativo di Maumont presso Limoges, però di famiglia diversa del suo predecessore, fa il contrasto preciso di Clemente VI. Proscrisse ogni lusso dalla corte di Avignone, rimandò a Roma Cola di Rienzo, facendolo accompagnare, in qualità di suo legato dal Cardinale Egidio Alvarez Albornoz, uno degli uomini di stato e dei capitani più distinti che abbia avuto la Chiesa, il quale riuscì a riconquistare al patrimonio di S. Pietro le provincie perdute, meglio di quanto non abbia saputo fare a giorni nostri il generale Lamoriciére. Roma stessa piegò davanti a quell’energico Spagnuolo, e [p. 140 modifica]fece ritorno al Papa. Innocenzo VI morì in Avignone il 12 settembre 1362.

Gli succedette col nome di Urbano V Gugliemo di Grimoard, nativo del castello di Grisac nel Gévandan, il quale regnò fino al 1370. Potè essere grato a suoi predecessori, i quali avevano provveduto a cingere Avignone di mura, imperocchè senza questa precauzione sarebbero caduti, desso e la città nelle mani di quelle bande armate, le quali in allora percorrevano l’Italia, ed il mezzodì della Francia, ponendovi ogni cosa a ferro ed a fuoco. Circondarono quelle la città, ed il Papa si vide costretto ad ottenere con danaro il loro allontanamento. Petrarca, oramai vecchio, rivolgeva ad Urbano le famose sue istanze, perchè abbandonasse la Francia, e facesse ritorno a Roma diventata tranquilla. Fin dal 1364 i Romani lo avevano richiamato per mezzo di un ambasciata, ed Urbano si portò difatti nel 1367 nella desolata città; se non che nel 1370, abbandonò di bel nuovo Roma e l’Italia, fattesi deserte, e non valsero a trattenerlo le supplicazioni di S. Brigida, la quale gli profetava la morte quando facesse ritorno ad Avignone; e volle il caso che la profezia si avverasse, essendo venuto a morte Innocenzo il 24 settembre, non appena ritornato in Francia. Egli aveva ultimato il palazzo pontificio, aggiungendovi la settima torre, denominata degli Angioli. Le altre sei avevano nome Trouillas, S. Giovanni, l’Estrapade, S. Lorenzo, la Campana, e la Gache.

Suo successore Gregorio XI, Ruggero di Reaufort, nipote di Clemente VI, che lo aveva rivestito della porpora cardinalizia, fu l’ultimo Papa il quale abbia avuta stanza in Avignone. Scosso dalle preghiere dei Romani, di Pietro d’Aragona, delle sante monache Brigida e Caterina da Siena, la qual ultima si portò persino a tal uopo in Avignone, abbandonò il 13 settembre 1376, per sempre, la Provenza, accompagnato da tutti i cardinali, ad eccezione di sei, i quali preferirono continuare ad abitare le loro amene ville sulle sponde del Rodano. [p. 141 modifica]

Perde da questo momento ogni interesse il palazzo dei Papi, imperocchè dopo il ritorno a Roma di questi, rimase deserto. Durante lo scisma vi abitarono ancora due antipapi Clemente VII, e Benedetto XIII, il quale ultimo vi fu assediato. Anche Amedeo VIII di Savoia, altrimenti Felice V, l’ultimo antipapa nella storia della Chiesa cercò impadronirsi di Avignone con un colpo di mano, che gli andò fallito.

Dal 1409, in poi, Avignone ed il contado Venosino furono governati da cardinali legati dei quali però gl’Italiani, quasi sempre cardinali nipoti, punto non si muovevano da Roma, facendosi rappresentare da vice legati. L’ultimo vice legato pontificio fu Filippo Casoni; la repubblica francese scacciò per sempre il dominio papale di Avignone, e questa città venne funestata da atroci scene di sangue sotto Jourdan, Duprat, e Jouve, nella notte del 16 al 17 ottobre 1791. Si fa vedere tuttora nella torre Trouillas il luogo, duve le vittime infelici erano precipitate da quelle belve umane, sitibonde di sangue. Era pur troppo naturale, che l’odio concentrato a lungo contro la denominazione pontificia, somministrasse pretesto a quegli atti crudeli: il popolo parlava di carceri sotterranee della inquisizione nel castello, di orribili misteri consumativi durante il governo dei legati. È particolarmente caratteristica la favola della salle brulée, la quale narra che nel secolo XV, nell’epoca terribile dei Borgia, un legato avesse invitati i cittadini più distinti di Avignone ad una festa nel palazzo pontificio, e che chiuse quindi le porte, ed appiccato il fuoco agli appartamenti, avesse arsi vivi suoi ospiti. Basta questa favola a far comprendere in qual conto il popolo tenesse i legati pontifici, i quali del resto, durante l’epoca feudale, non furono nè migliori nè peggiori di quanto fossero in allora tutti i principi, e coloro i quali li rappresentavano.

Quando si visita Avignone sotto l’impressione di queste atrocità della rivoluzione, colla memoria più recente dell’assassinio del maresciallo Brune, commesso dai realisti [p. 142 modifica]il 2 agosto 1815, quando si vede quella popolazione rozza, e fanatica, si prova un vivo desiderio di partire al più preste da quella città. Oggidì tuttora la popolazione di Avignone è ritenuta superstiziosa, rozza, irritabile, ignorante, ed è possibile che questa contrada possa essere ancora teatro di brutti eccessi.

Non vogliamo però dimostrarsi ingrati verso una città rimarchevole, e trattenervici ancora alquanto. Ci rimane ancora a visitare l’antica cattedrale il S. Pietro di Avignone, che difatti quello di Roma potè per ben settanta anni portare invidia a questa chiesa piccola, nera, ed oscura, quale usurpatrice de’ suoi diritti secolari. Intanto i Papi si trovavarono in questo angolo del mondo, ridotti ad una semplice cappella, la quale sottraeva le pompe del culto, e gli atti della storia della Chiesa, agli sguardi della Cristianità.

Notre Dame des Doms, secondo la tradizione, venne fondata da S. Marta sorella di Lazzaro, imperocchè la pia donna sarebbe sbarcata, dopo la morte di Cristo, nella Camargue, avrebbe introdotto il Cristianesimo nella Provenza, e fabbricata la prima chiesa in Avignone, sulle rovine di un tempio d’Ercole. L’origine del resto di Notre Dame, non è conosciuta, ed il suo vanto di essere stata edificata da Carlomagno trovasi tutt’altro che fondato; solo è certo essere dessa chiesa molto antica, come si può riconoscere dalla sua porta principale, di stile prettamente romano, fiancheggiata da due colonne antiche d’ordine corinzio. Nell’interno è una semplice basilica a volta, ed a croce latina, la quale andò soggetta in vari tempi a parecchie modificazioni. Il vandalismo della rivoluzione, il quale ridusse a mucchio di rovine altre chiese della città, non risparmiò neppure questa. Rimane a soddisfazione dei dilettanti di antichità le così detta cappella di Carlomagno, ma andarono miseramente perduti i monumenti di vari Papi, ricordi preziosi dell’arte gotica nel secolo XIV. Furono ristabilite le tombe di Benedetto XII e quella più pregevole di Giovanni XXII, di gusto gotico, [p. 143 modifica]con fine scolture e colla figura del pontificio stesa sopra un sarcofago. In una cappella esistono pochi avanzi della tomba del cardinale di Armagnac, nel sancta sanctorum si scorge la lapide mortuaria di Luigi Balbo Bertone di Crillon, sopranominato il Bravo, l’amico di Arrigo IV. Desso morì in Avignone nel 1615, e la sua statua in bronzo, sorge sulla piazza dell’Horloge.

È questa piazza la più bella della città, e trovasi a poca distanza, scendendo dal palazzo dei Papi. È circondata da vari belli edifici, fra quali l’elegante teatro, ed il nuovo palazzo municipale, nello stile del risorgimento francese, preceduto da una corte sopracarica di colonne. Il custode che me lo faceva vedere, mi diceva con aria d’importanza che Luigi Napoleone aveva onorato quel palazzo della sua presenza nel recarsi ad Algeri, che le scale erano state ricoperte di tappeti, e tutto il quartiere aggiustato con gusto squisito. L’imperatore venne accolto con grande ostentazione, però il partito legittimista è tuttora numeroso in Provenza, sebbene sia grandemente scaduto di ricchezze. Intanto Napoleone può per qualche tempo ripesare tranquillo; ha per se i proprietari, e le classi che lavorano; si odono per ogni dove le sue lodi, desso ha domato la rivoluzione, ristabilito l’ordine, e co’ suoi trattati di commercio ha procurato immenso vantaggio a queste contrade vitifere. Ed inoltre notre préponderance! Sono parole che vi si sentono ad ogni passo.

In fin del conto convien però dire che il visitare questa città cagiona una grande stanchezza. Le sue strade, dove qua e là s’incontrano alcuni palazzi, nello stile del risorgimento, alcuni edifici antichi e bizzarri, con porticati e cortili che chiamano a sè l’attenzione, sono cupe; l’atmosfera che vi si respira è malinconica, i ricordi sono pochi.

Non si vedono belle donne come in Arles, dove abbondano quelle di puro tipo greco. Quanto non sono più belle le piccole città della Toscana, Prato, Pistoia, Siena, Arezzo, dove ad ogni tratto s’incontrano le meraviglie [p. 144 modifica]dell’arte, le memorie delle libertà municipale, di una antica e splendida civiltà.

Ho visitato la maggior parte delle chiese di Avignone; non havvene una che si possa dire propriamente bella, e tutte quasi portano le traccie delle devastazioni dell’epoca rivoluzionaria. Entrai una domenica in S. Didier, chiesa di architettura gotica; era ripiena di donne velate di bianco, le quali inginocchiate cantavano le litanie. Era un quadro pieno di anima, di vita; in quell’aspetto devoto, nelle armonie di quei canti, mi pareva ravvisare l’influenza esercitata da Roma per lunghi anni in Avignone. Era un quadro di carattere prettamente romano, se non che la piazza attorno alla chiesa, ombreggiata da grandi alberi, non aveva punto aspetto romano, e tanto meno meridionale, e mi ricordava piuttosto le chiese campestri delle care mie contrade natie.

La folla dei fedeli non mi permise di gettare che un rapido sguardo sopra un basso rilievo, a cui si dà il nome di Images du roi René; imperocchè queste sculture sono attribuite al buon re, e non è a dire di quante statue, e di quanti quadri lo faccia autore nella Provenza, la tradizione.

Sorge a poca distanza da S. Didier la chiesa del patrono della città, S. Agricola, il quale è invocato in tutte le pubbliche calamità, e particolarmente nei tempi frequenti di siccità. Questa chiesa risale al secolo X e venne ampliata in tempi posteriori; la sua facciata gotica, con grosse torri sormontate da tetto acuminato, è molto originale, ed anche all’interno la semplicità dello stile ogivale, rivela la sua remota antichità.

Merita pure essere ricordata la cappella dei Penitens noirs de la Misèricorde. Si conserva in essa il famoso crocifisso d’avorio di Guillermin, opera del 1659, e la sorella che me lo faceva vedere, mi narrava la leggenda del nipote dell’artefice, condannato a morte, il quale per intercessione di quel Cristo fu salvo. L’opera è di una grande perfezione anatomica, e può gareggiare col rinomato Cristo [p. 145 modifica]di Danzica; ma io ho poco gusto per la rappresentazione plastica delle sofferenze umane, e non ho mai potuto provare una grande soddisfazione, nemmeno nel contemplare al Vaticano, lo stupendo gruppo del Laocoonte.

Avrei visto molto più volontieri la chiesa ed il convento dei Domenicani, quale ricordo di un opoca storica, della guerra contro gli Albigesi, dell’inquisizione e del frate famoso che accese i roghi in tutta la Provenza; se non che quegli edifici stupendi furono rovinati totalmente dalla furia rivoluzionaria. I primi Papi di Avignone, ebbero stanza in quel monastero ora distrutto, ed ivi Giovanni XXII dichiarò santo il più gran filosofo del medio evo, Tommaso di Acquino, il più illustre dei Domenicani, alla presenza del re Roberto di Napoli. Quel Papa riteneva fra le cose sue più preziose lo stupendo codice in pergamena della Somma del santo, e lo lasciò morendo alla biblioteca del monastero, colla espressa condizione dovesse essere fissato al muro con una catena. La rivoluzione venne a liberarlo, ed ora il prezioso volume, coperto della polvere dei secoli, gode della sua libertà o del suo obblio nella biblioteca civica. Caterina di Siena monaca dello stesso ordine, rivolse in quel monastero le sue osortazioni al Papa, per persuaderlo a far ritorno a Roma. Era stato quel convento costrutto poco tempo prima, nell’anno 1330 e si assicura che il suo cortile fosse bellissimo e punto non la cedesse per vaghezza a quello di S. Trofimo in Arles. I sanculotti rovinarono tutto, comprese pure le tombe di ventiquattro cardinali, sepolti nel convento. La chiesa, in gran parte distrutta, venne ridotta più tardi a fonderia di cannoni.

Per farsi un’idea delle vandaliche devastazioni operate dalla rivoluzione nella Provenza, è d’uopo visitare il museo di Avignone, vicino appunto alia chiesa dei Domenicani. Trovasi allogato in un palazzo abbastanza ampio del secolo XVIII. Dopochè il benemerito dottore Calvet fondò questo museo nel 1810 vennero accolte in esso le reliquie delle arti belle tolte dalle chiese, dai conventi, dai ca[p. 146 modifica]stelli feudali, dai palazzi, non di Avignone soltanto, ma ancora dei dintorni. Vi sono rappresentate tulte le fasi del medio evo, fino all’epoca del risorgimento francese, la rennaissance; ed io provai tanto maggior soddisfazione a contemplare questa collezione delle antichità del medio evo nella Francia meridionale, dacchè avevo visitato, pochi mesi prima, in Norimberga il museo germanico, istituzione chiamata a prendere un grande sviluppo, e meritevole dell’appoggio di tulta quanta l’Allemagna. Nel visitare cotali musei in Italia, in Francia, ed in Germania, non si può a meno di provare rincrescimento per la decadenza delle città, che in esse raccolgono le memorie del loro passato, di un’epoca in cui era fiorente la loro vita municipale, ora spenta per sempre. L’infelice accentramento a cui mirano oggi tutte le nazioni, va annientando le municipalità; non ammetterei per dir vero il municipalismo quale elemento politico, ma non potrei però a meno di augurare all’Italia, ed alla Germania, dove la vita municipale fu a lungo vegeta e rigogliosa, di evitare la sorte toccata alla Francia, dove Parigi, quasi vampiro, succhia il miglior sangue delle provincie.

Il Museo di Avignone del resto, anche per quanto riguarda l’epoca classica, è povero in paragone di quello di Norimberga, e tuttochè sia diviso in vari rami, non presenta guari più che un periodo di civiltà. Nella galleria del medio evo si vedono molti avanzi di scoltura, di architettura, anche di abozzi primitivi e si possono seguire i progressi dell’arte, dagli antichi sarcofagi cristiani fino agli avanzi dei mausolei dai cardinali Brancas e Lagrange, del conte Raimondo di Beaufort, e del maresciallo de la Palice. Sonvi pure alcuni frammenti bellissimi del monumento in alabastro di Urbano V.

Alla collezione di antichità classiche, contribuirono quasi tutte le citta del mezzodì della Francia; in complesso però è povera, e non vi si vedono guari oggetti pregievoli; tanto più, possedendo quasi ognuna di quelle città, il proprio museo. Si osserva però con interesse tutto quanto venne [p. 147 modifica]rinvenuto in questa parte della Francia, dell’epoca dei Romani, ed anche dei Greci. Vi sono parecchie antiche iscrizioni greche, però del tempo dei Romani. Si deve pure far menzione di una bella collezione di piccoli bronzi e di un ricco medagliere di tutte le provincie, e di tutte le epoche della Francia. Trovasi allogata nello stesso palazzo la biblioteca civica, la quale conta più di sessanta mille volumi. Contiene parecchie buone opere sulla storia del mezzodì della Francia, ma sono scarsi i manoscritti, ed i documenti originali. Gli atti del Papato durante la sua stanza in Avignone, vennero già da tempo, come è noto, trasportati negli archivi segreti del Vaticano. Stanno in una sala della biblioteca i ritratti degli uomini illustri appartenenti al dipartimento di Valchiusa, fra quali il duca di Mahon, il prode Crillon, Giovanni di Althens, il cardinale Maury, il pittore Mignard, il dottore Calvet, e vi si vedono pure i ritratti di Petrarca, e di Madonna Laura, i quali però datano da epoca posteriore.

Nel piano superiore havvi una galleria di quadri, abbastanza pregevole per una piccola città di provincia; sono pochi i buoni quadri antichi italiani, fiamminghi e tedeschi, ma molti i francesi, particolarmente di Mignard, del quale a buon diritto si vanta Avignone, e dei cinque Vernet la cui famiglia di pittori, era originaria di questa città. Del resto, vuolsi osservare che Avignone non ha prodotto nessun uomo d’importanza storica, e nessuno neppure vi nacque dei tanti, più o meno vantati, poeti della Provenza. Era d’uopo venisse un forastiero da Arezzo, per dare a queste contrade il prestigio poetico; ed Avignone gli offrì ad argomento de’ suoi versi armoniosi una bella donna, come Crotone o Taranto offerivano le lore ragazze per modelli a Zeusi. Ben più avventurata si fu Firenze, la quale può vantarsi ad un tempo di Dante, e di Beatrice.

Ed ora addio chiese, palazzi, musei, ed antichità meschine di Avignone! Come finiscono per stancare queste statue, questi monumenti, queste reliquie dei tempi andati! Come riposa il ricrearsi colla vista della bella valle [p. 148 modifica]del Rodano ai piedi della città! Lo splendido sole di Provenza illumina le verdi isole del fiume, indora la collina di Villeneuve, ed invita il viaggiatore a passeggiare all’ombra dei pioppi e dei platani agitati dal vento, a prestar ascolto al muggito delle acque poderose, a contemplare le grandi barche di trasporto che guizzano colla rapidità della freccia sotto gli archi del ponte! La vista, dalla porta dellOuille di Avignone, dell’ampio Rodano colle sue due isole, e colle rive della Linguadoca è bello davvero; non valse però a cancellare dalla mia memoria quella, contemplata poco tempo prima, del gran fiume che volge le sue acque profonde sotto gli archi giganteschi del ponte della strada ferrata presso Dirschau, nè quelle altre acque che scorrono tranquille ai piedi dell’antico e bello Marienborgo. Il castello del medio evo, dei cavalieri dell’ordine teutonico, torreggia quivi in modo assai più pittorico che il palazzo dei Papi in Avignone, tuttochè non sia punto imponente per mole architettonica. Quelle regioni lontane della Prussia, con i loro fiumi larghi e malinconici, non mancano di belli paesaggi e di città pregevoli, fra le quali Danzica una delle più belle d’Europa settentrionale. Ma per ora non sono colà; mi trovo in Avignone, e non devo dimenticare che ho inviato il mio lettore, a scendere sulle sponde del Rodano.

Il fiume separa Villeneuve-les Avignon dalla città, e la Provenza della Linguadoca. Le due rive sono congiunte da ponti; di uno, di costruzione romana, non sussistono più che quattro grandi archi molto pittorici, e dove cessano sorge una piccola cappella, quasi sospesa sopra le acque. Narrasi che risiedesse in quella il santo uomo che aveva edificato il ponte stesso, e la leggenda relativa a quella costruzione si è l’unica d’indole mite e poetica, che io abbia trovata in Avignone.

Il piccolo Benedetto (Benezet) stava custodendo al pascolo le pecore della sua povera madre sui monti del Vivarais, quando tutto ad un tratto i monti e le valli si trovarono immersi nelle tenebre per un eclisse; era il 13 [p. 149 modifica]settembre 1177. Una voce sclamò: «Benedetto, dammi ascolto, imperocchè io sono Gesù Cristo!» Il ragazzo spaventato rispose. «Dove sei o signore e che cosa domandi da me!» — «Non avere paura, lascia pure pascolare le tue pecore, scendi al Rodano, e fabbricavi sopra un ponte. — Signore io non so dove sia il Rodano, sono un povero ragazzo non ho che tre soldi in tasca, come vuoi che io possa costrurre un ponte su quel fiume. — » La voce replicò «Fa quanto ti ho detto, imperocchè io so dove e come dovrai costrurre il ponte.» Il piccolo pastore scese dal monte piangendo, ed incontrò un pellegrino che camminava appoggiato al suo bordone, il quale gli disse: «Figliuolo mio benedetto, seguimi al luogo dove dovrai costrurre il ponte.» Allorquando arrivarono al fiume, e che il ragazzo vidde le acque di questo ampie, rapide, profonde, prese a piangere più amaramente, se non che il pellegrino lo confortò, gli ordinò di salire in una barca, di scendere ad Avignone, di presentarsi al vescovo, e di partecipargli l’incarico che gli era stato affidato. Così fece Benedetto, e trovato il vescovo che stava predicando nella cattedrale gli disse franco e disinvolto. «Signor vescovo! Il signore mi ha qui mandato per costrurre un ponte sul Rodano.» L’ardito ragazzo venne tosto arrestato, e fu condotto davanti al vicario. Ripetè al giudice l’incarico che aveva avulo, e questi additandogli un grosso macigno che trovavasi nella corte, disse sorridendo a Benedetto, che avrebbe prestata fede alla sua missione, quando fosse riuscito a sollevare quel voluminoso sasso. Il ragazzo lo sollevò tosto, lo caricò sulle sue spalle, e lo portò fra gli applausi del popolo che gridava al miracolo, sulla riva del Rodano. In un momento raccolse cinque mille scudi d’oro, e si pose tosto mano alla costruzione del ponte.

Tale si è la leggenda relativa all’antico ponte di Avignone, ed io non voglio togliere a quella il suo carattere poetico, coll’aggiungervi i commentari che pretendono spiegarlo. La grande opera fu compiuta nel 1188, ma le bande catalane comminciarono a danneggiarla nel 1395 e [p. 150 modifica]dopo d’allora il tempo e la furia delle acque la ridussero allo stato di rovina in cui si trova oggidì.

Per arrivare a Villeneuve esistono ora due altri ponti, uno sospeso in filo di ferro, e l’altro in legno, i quali congiungono le due isole che sorgono nel fiume, denominate Vile de Pioti, e la Barthelasse. Villeneuve-les-Avignons, sulla sponda opposta è un paesello deserto, ma pittorico, e fu un tempo soggiorno prediletto dei cardinali. Dicesi che anticamente sorgesse in quella località Stathmos, o Statuma emporio commerciale dei Massiliotti. Il paese attuale risale al 1226; fondato dai monaci di S. Andrea, venne ampliato e fortificato da Filippo il Bello. Serviva quasi di porto avanzato alla Francia sul Rodano, e tale rimase finchè i re di Napoli furono padroni della Provenza, ed i Papi di Avignone. Sorge tuttora. a poca distanza daò fiume una bella torre, la quale porta tuttora il nome di Filippo il Bello. La sua posizione, di fronte al ponte di S. Benedetto a cui può avere servito di difesa, è bella, ed è amenissima la passeggiata ombreggiata d’alberi per arrivarvi, colla vista del fiume e della mole imponente del palazzo dei Papi. Il villaggio del resto è deserto, malinconico, e pare anche povero, sebbene vi esistano alcune tintorie di robbia, ed alcune filature; e solo si scorgono qua e colà alcune chiese, ed alcuni palazzi cadenti in rovina, i quali ricordano i tempi, per buona sorte scomparsi, del feudalismo.

La è cosa curiosa, che nel mentre Avignone si vanta dell’uomo che introdusse nella Provenza la coltivazione della robbia, Villeneuve le può controporre quello che nel 1560 importò in Francia l’uso del tabacco, presentandone le prime foglie alla famosa Caterina de’ Medici. Non ho visto a Villeneuve nessuna statua in bronzo di Giovanni Nicot, ambasciatore di Francia alla corte di Portogallo, e glie se ne dovrebbe pure innalzare una, con una grande tabacchiera nella mano, ed un grosso sigaro in bocca. Del resto i sigari francesi non fanno punto onore a Giovanni Nicot, essendo difficile trovarne peggiori.

Poche sono le cose meritevoli di attenzione in Villeneuve: [p. 151 modifica]esiste nella chiesa dello spedale la tomba d’Innocenzo VI, monumento di stile gotico, il quale trovavasi dapprima nelle bella certosa del luogo, ora interamente distrutta. Venne quello ristaurato, e la statua del Papa coricato, è interamente nuova. La chiesa principale, di stile gotico, è piccola, e nulla possiede che meriti essere ricordato. La cosa più degna di attenzione, si è il forte di S. Andrea sulla ripida collina Andaon, il quale trovasi tuttora in buono stato. Vi si ha accesso per una parte di bella apparenza, e sull’altipiano della collina, cinto di mura, si vede una cappella. Esistono tuttora le mura della fortezza, annerite dal tempo, e passeggiando lungo i merli di essi, si può godere la bella vista del panoramma della Provenza, uguale a quella che si ha dal Rocher des Doms, se non che di qui si scorgono pure la città di Avignone, e la mole grandiosa del palazzo dei Papi. Allorquando il sole sul tramonto tinge le mura di questo in rosa, o di colore violaceo, la vista è propriamente incantevole, e saranno pure queste la località, e l’ora adatte per prendere congedo da questa antica Avignone.

Gettai uno sguardo di desiderio su quelle campagne della Provenza, che avrei pure visitato volontieri. Ero attorniato da Provenzali, e la loro antica favella mi destava mille ricordi della storia, delle vicende di queste contrade della loro civiltà trascorsa. Quella lingua si va perdendo; tutti gli sforzi dei poeti attuali, fra quali il più illustre si è Mistral, per farla rivivere, non valgono altro che a continuarle una esistenza letteraria artificiale. Vorrei poter prestar fede alle parole, piene di speranza, direlle da un poeta, tuttora vivente, al suo amico Mistral; ma temo non esprimano altro che un pio desiderio.

Pronvenço o pais de trouvaire
Lou gai-sabé reverdira
Deja milo nouveau cantaire
Dison lou béu temps que viendra
Lou mounde vèi la reinesseco
Lei Troubadour van reflouri
O moun païs! bello Prouvenço
Toun dous parla pàu pas mouri.