Ricordi storici e pittorici d'Italia/La campagna di Roma

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Subiaco, Monastero il più antico dei Benedettini in Occidente Ricordi storici e pittorici d'Italia
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LA CAMPAGNA DI ROMA

1856.

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I.

La regione alla quale si dà nome Campagna di Roma, ha maggiore o minore importanza, secondo che più o meno se ne allargano, o se ne restringono i confini geografici. In senso ristretto, si dà nome di Campagna di Roma a quel tratto di paese deserto e grandioso, che si stende attorno alle mura della città eterna, e che viene attraversato dal corso dell’Anio e del Tevere, la cui periferia si potrebbe circoscrivere dai punti seguenti: Civitavecchia, Tolfa, Ronciglione, il Soratte, Tivoli, Palestrina, Albano ed Ostia. In più ampio senso, la campagna si stende fino al regno di Napoli ed a suoi confini il Liri od il Garigliano; da questi fino al Sarno, il quale si getta in mare presso Pompei trovasi l’antica Campania, la quale forma la bella provincia che oggidì ha per capo luogo Capua.

La campagna di Roma pertanto non è altro che l’antico Lazio, il quale era disgiunto dai Tusci dal fiume Tevere. La denominazione di Lazio cessò di essere in uso dopo il tempo di Costantino il grande, e vi sottentrò il nome di Campania, che comprendeva nel medio evo buona parte del così detto Ducato Romano. Questa regione fin dai tempi di mezzo si divideva in due parti; la Campagna all’interno, e la Marittima, la quale comprendeva lo spazio lungo il mare fino a Terracina. Per conformazione fisica la è parimenti distinta in due parti, pianura e monti. Le pianure sono propriamente tre, quella attorno alla città attraversata dall’Anio e dal Tevere, la quale ha per [p. 294 modifica]confini i monti della Sabina ed Albani, quelli di Ronciglione, ed il mare; vien dopo l’altra vasta pianura circoscritta da un lato dai monti Albani e Volsci, e dall’altra dal mare, dove si trovano le paludi pontine; finalmente la pianura interna della campagna, la quale è formata dalla valle del Sacco, che fiancheggiato dai monti Volsci, e da quelli degli Equi e degli Ernici, dopo breve corso sbocca nel Liri presso Isoletta, ed al di sotto di Ceperano.

Di questa stupenda regione del Lazio intendo io far parola a miei lettori, fra i quali ricorderanno fuor di dubbio le bellezze di questa valle del Sacco, quelli particolarmente i quali a vece di scegliere la strada per Terracina verso Napoli, avranno fatta quella per Frosinone e S. Germano. Voglio scegliere in questa regione due località quali punto di partenza delle mie descrizioni; Genazzano rinomato luogo di passaggio all’ingresso della valle, ed Anagni l’antica residenza di parecchi Papi, durante il medio evo. Ho vissuto alcune settimane tranquillissime in Genazzano, ed ho approfittato di questo tempo per prendere cognizione della campagna latina, e per visitare quella regione e suoi principali luoghi, con profitto per la mia storia della città di Roma durante il medio evo. Mi trovavo nel preciso centro di quella storia, nel paese di origine di quella grande famiglia Colonna, la quale di là sorse così imponente, e come già dissi, in una delle residenze dei Papi nei tempi di mezzo, fra quali basterà nominare Bonifacio VIII, per far comprendere l’interesse che destava in me quella località. Se non che, non abbia timore il lettore che io lo voglia opprimere con troppi nomi, con troppe ricerche. Per dir vero meriterebbero quello località una nuova descrizione più facile a leggersi, di quanto siano quelle di Nibby e di Grell, e ne compenserebbero ampiamente la pena Anticoli, Alatri, Veroli, Sora, ed Arpino, patria quest’ultima di Mario e di Cicerone, non che tutti quei monti e quelle valli, pittoriche e belle contrade, conosciute sotto il nome di paesi Ciociari.

Si va da Roma a Genazzano per la via Labicana, uscendo [p. 295 modifica]dalla Porta Maggiore, dalla quale partivano le due vie labicana, e prenestina. Di queste rimane solo la via labicana, ampia strada la quale nel medio evo sboccava al disotto di Anagni nella via latina, ed attraversando la valle del Sacco, (Trerus) proseguiva al di la del fiume Liri, che varcava presso Ceprano (l’antica Fregella). Nell’uscire oggidì da quella rispettabile porta di Roma, si gode di un nuovo spettacolo; imperocchè ivi sorge la stazione provvisoria della prima strada ferrata aperta negli stati della Chiesa, quella che porta a Napoli. Le sue costruzioni molto modeste fanno una meschina comparsa, addossate agli archi giganteschi dello antico acquedotto di Claudio. Si direbbe che l’invenzione la più recente della civiltà moderna abbia timore di prodursi accanto a quelle rovine dell’antica Roma, benchè di tanto quella sia per genio a questa superiore, in guisa che al suo cospetto Plinio, Traiano, Marco Aurelio, proverebbero stupore uguale a quello del pastore del Lazio, il quale vede per la prima volta passare correndo una locomotiva col suo pennacchio di fumo. Ed eccettuata la strada ferrata più amena del mondo; quella che da Napoli porta a Pompei; non havvene altra che porga un contrasto della civiltà di due epoche, quanto questa prima strada ferrata di Roma, la quale corre lungo gli archi muschiosi dell’Acqua Claudia, e nella malinconica campagna, fra le antiche tombe romane, e le torri solitarie del medio evo.

A tre miglia di Roma s’incontra Torre Pignatara, tomba di Elena madre di Costantino; a sei miglia il ponte sul rivo Marrana (Acqua Crabra), quindi Torre Nuova castello e possessione del principe Borghese, con pini maestosi dove gli archeologi si compiacciono collocare Popinia villa di Attilio Regolo, soddisfazione che punto non intendiamo di togliere loro, ma che ci permetteremo unicamente di accogliere con un sorriso. Laco Regillo per contro, è veramente l’antico Lacus Regillus, e l’ombra di Tarquinio compare a confermarne la verità. Il lago oggi non ha punto acqua, ed il cratere vulcanico si trova all’asciutto; [p. 296 modifica]è di poca estensione ed ha nome di laghetto. Trovasi dopo la prima stazione, Osteria nuova, bettola isolata al sedicesimo miglio, posto ai piedi di una collina, la quale si stacca dai monti Albani ed in cima alla quale sorge il villaggio di Colonna, culla nel medio evo della famiglia di quel nome. Viene dopo la stazione ad Statuas, oggi S. Cesario, osteria isolata in mezzo alle vigne, ed in un terreno frastagliato, sito rinomato una volta per le frequenti grassazioni che vi si commettevano, imperocchè solevano ivi i banditi aspettare le diligenze ad una svolta dalla strada, o saltar fuori come portava l’espressione tecnica. Da San Cesario si scopre fra stupendi vigneti l’abitato di Zagarolo, antico feudo dei Colonna, ai quali appartenevano tutti i territori di quei dintorni. Era questo, o doveva essere l’antico Pedum, del quale fa parola Orazio nella sua epistola quarta, diretta al suo amico Albio Tibullo.

Albi nostrorum sermonum candide iudex,
Quid nunc te dicam facere in regione Pedum!

Da questo punto, salendo sempre, si arriva alla località abbastanza grande di Palestrina, l’antica e rinomata Preneste dei Romani, dove si può scorgere tuttora un tratto dell’antica strada, lastricata di sassi poligonali. E qui sarà mestieri soffermarsi alquanto, imperocchè il lettore mi potrebbe muovere a buon diritto rimprovero, se io mi restringessi ad accennare puramente il nome di tanto antiche e famose città. Non mi tratterò tuttavia a lungo.

Preneste, che ora nella attuale Palestrina ci compare quale gruppo di case nere, sulla pianura inclinata ai piedi un monte di tufo calcare, fu anticamente la dominatrice del Lazio, ben prima di Alba la Lunga, e di Roma. E lo provano le mura ciclopiche a doppia fila, che oggidì tuttora sussistono, e che formavano l’antica rocca. Sorgeva questa sul punto più elevato del monte Prenestino in una località fortissima per natura e pressochè imprendibile, dove durante il medio evo parimenti, fu costrutto un [p. 297 modifica]castello. La origine dell’antica città risale ai tempi favolosi e viene ascritta al re Cecolo che Virgilio nell’Eneide pone alla testa di una legione, di cui facevan parte pure i popoli dell’Anio, della regione Ernica, nonchè della ricca Anagni. Preneste tenne la dominazione di tutta quanta la campagna latina, in fino a tanto venne soggiogata dai Romani. Trovasi in seguito menzionata ripetutamente nella storia; Pirro la conquistò, e vi si trattenne prima di muovere contro Roma; maggiore importanza ancora ebbe ai tempi di Silla, allorquando il giovane Mario cercò mantenersi colà; e quando Silla l’ebbe conquistata dopo un assedio lungo e difficile, vi fece trucidare tutta quanta la popolazione maschile, vi collocò i suoi veterani, ed ampliò talmente il tempio della Fortuna, uno dei luoghi sacri più rinomati del Lazio e che occupava pressochè tutto quanto lo spazio della odierna città, imperocchè venne questa innalzata sulle fondazioni del tempio di Silla. Augusto condusse nuovi coloni a Preneste, e tanto desso, quanto Tiberio suo successore, si recavano volontieri e spesso a soggiornare nella villa imperiale che possedevano sul territorio di quella città, dove trovavano l’aria pura e salubre. Anche nei tempi posteriori la villa Cludia fu stanza estiva prediletta agli imperatori, e la città si mantenne a lungo in fiore, in fino a tanto che devastata nei tempi barbari, finì per mutare l’antico suo nome, in quello di Palestrina.

Esiste un diploma dell’anno 970 col quale Papa Giovanni XIII, fa donazione di Palestrina nella qualità di feudo, alla senatoressa Stefania, la cui nipote Emilia (Imilia nobilissima comitissa) sposò, probabilmente circa il 1050, il possessore di Colonna, e forse il figliuolo di questi, Pietro de Colonna fu lo stipite dei signori di Palestrina. Quanto meno, è incontestabite che fin dal principio del secolo XII quella famiglia cominciò a diventare possente in quel territorio, e che i suoi possedimenti si estendevano dai monti latini a quelli dei Volsci, degli Equi e degli Ernici. Per quanto riguarda Palestrina, ci sono note le sue sorti fin dall’anno 1298. Bonifacio VIII, l’accanito [p. 298 modifica]nemico dei Colonna, tolse loro quella città colla forza, o quanto meno i cardinali di quella famiglia, Jacopo, Pietro, ed i loro congiunti, i quali vi erano rinchiusi, si arresero prima che fosse dato l’assalto; ed il Papa ne fece atterrare le mura, e tutti gli edifici, ad eccezione della cattedrale di S. Agapito, seminando il sale e facendo lavorare l’aratro sopra le rovine. Palestrina non ostante, non tardò a risorgere; se non che unicamente per essere distrutta una seconda volta, la qual cosa accade nel 1436 allorquando il patriarca Vitelleschi, venuto in guerra con i Colonnesi, s’impadronì della infelice città, e l’atterrò tutta quanta, senza eccettuare neppure la cattedrale, e due anni dopo venne atterrata pure la rocca, la quale sorgeva in cima della collina.

Non farò menzione delle devastazioni ulteriori, alle quali andò soggetta Palestrina. La città, quale ora si trova, non risale oltre la metà del secolo XV. Continuò a stare sotto la dominazione dei Colonna, i quali avevano in Pagliano la loro sede principale, e che anzi ottennero nel 1571 da Pio V il titolo di principi di Palestrina, finchè nel 1630, oberati dai debiti furono costretti ad alienare la città per la somma di settecento settantacinque mila scudi romani, a Carlo Barberini fratello di Urbano VIII. L’ultimo Colonna, signore di Palestrina, si fu Francesco morto nel 1636.

La città odierna sorge a foggia di terrazzo sul pendio del monte, ed è di aspetto cupo, anche nella strada principale abbastanza lunga, e dove sono parecchie case signorili. Sorge sul punto il più elevato il palazzo Barberini, nobile e grandioso edificio nello stile del secolo XVII, oggi interamente disabitato e deserto, il quale nella sua forma semicircolare sembra ricordare la pianta dell’antico tempio della Fortuna di Silla, sull’area del quale venne eretto. In quel palazzo baronale, che risale al periodo di maggior lusso della vita romana moderna; in quella quantità di sale, di stanze, di logge, non si trova più altra cosa meritevole di osservazione, se non il grande [p. 299 modifica]mosaico degno di essere paragonato a quello scoperto a Pompei, e conosciuto sotto il nome di battaglia di Alessandro. Rappresenta scene di Egitto di genere campestre e religioso; gruppi di sacerdoti, di sacerdotesse, di sacrificatori, di guerrieri, di pescatori, di pastori, di cacciatori; come parimenti tempi, case di campagna, ed animali, eseguito il tutto con somma maestria. Pare risalga ai tempi di Silla al quale lo si volle attribuire, od a quelli dei primi imperatori. Fu scoperto questo stupendo capolavoro nell’anno 1638 fra le rovine del tempio della Fortuna, dove pare servisse di ornamento ad una edicola. La famiglia Barberini lo aveva fatto trasportare nel suo palazzo a Roma, ma lo restituì di poi a Palestrina, per aderire alle preghiere degli abitanti, a cui troppo doleva fosse la città loro priva della migliore sua rarità.

Del resto, più pregevole ancora di questa antichità, si è la posizione stupenda del palazzo Barberini, sur una altura, dove spira di continuo un’aria fresca e balsamica e di dove si gode una vista di inarrivabile bellezza, ed al certo fra le migliori della campagna di Roma. Imperocchè di là si scorge la più gran parte del Lazio, dell’antico paese dei Tusci, ora patrimonio di S. Pietro: pianura grandiosa e seria, di aspetto classico, nella quale sorgono i monti latini e volsci, con un’ampia strada fra questi, la quale porta al mare ed all’isola di Ponza. All’orizzonte si scorgono i profili della città eterna, di Roma, immersa nei vapori, il monte Soratto isolato e solitario, la catena degli Apennini, e più oltre i monti della Sabina; a sinistra poi, l’ampia e bella valle del Sacco, dominata dai monti di Montefortino e di Segni; più in là le alture della Serra, e tutte quelle vette le quali sopra Anagni e Ferentino, si profilano nell’azzurro dell’atmosfera. Se poi si considera che tutte queste pianure, tutte queste colline sono seminate di città, di paesi, ricchi per la maggior parte di ricordi che richiamano il pensiero ai tempi di Roma antica, di Roma imperiale, al medio evo; se si pensa che di là si possono contemplare, quasi in un [p. 300 modifica]panorama di monti, di colline, di pianura, e di mare, l’Umbria, la Sabina, il Lazio, il paese degli Equi, degli Ernici, l’Etruria, i Volsci, gli Albani, sarà agevole comprendere quanto quella vista sia grandiosa ed imponente. I Colonna nel medio evo stando alle finestre del loro palazzo o castello, intenti a contemplare le loro possessioni, potevano a buon diritto, ritenersi per i signori più ricchi e più potenti del Lazio.

Nell’ammirare questa vista, l’azzurro di quel cielo, la limpidezza di quell’atmostera, sarà facile che venga in mente essere stata Palestrina la patria di quel sublime compositore di musica sacra, il quale assunse ed illustrò il nome della sua città natale.

Più ampio orizzonte ancora scorge salendo dal palazzo all’antica rocca. Sorge in cima al colle che sovrasta alla città, e vi si arriva in una mezza ora di salita faticosa, per un ripido sentiero, scavato nel tufo calcare. Era d’agosto, e di pieno mezzo giorno quando mi portai colassù, e benchè fosse il sole ardentissimo pure mi sentivo bene e leggiero, facendo sì l’aria fresca di quella altura, che non riesca molesta la fatica. Trovasi su quell’eminenza un piccolo villaggio, S. Pietro, il quale risale a data antica, facendosi menzione di un convento, o monastero in quel punto, fin dal secolo VI. Sorgono vicino a quello le belle rovine della rocca del medio evo, consistenti in avanzi notevoli di mura, di torri cadenti, invase dalla vegetazione del ginestro selvatico, e quasi ricoperte per intiero di edera lussureggiante. Bonifacio VIII aveva fatto atterrare questo Castrum montis Prenestini, antica rocca dei Colonnesi e centro della loro signoria nella campagna. Si può leggere ancora oggidì, come i Colonna si lagnassero avesse il Papa «fatto distrurre interamente la rocca dell’antico monte prenestino, rocca nobilissima, dove erano belli palazzi, e mura antichissime di opera saracena (Saracenico opere) formate di voluminosi macigni, al pari delle mura delle città; come parimenti avesse distrutto una bella chiesa dedicata a S. Pietro sull’area di un [p. 301 modifica]antico monastero; come finalmente avesse atterrati e distrutti tutti i palazzi e le case del paese, in numero di circa duecento.» Intanto il famoso Stefano Colonna faceva rialzare la rocca e la città, e si può leggere ancora oggidì sulla porta della rocca rovinata, e sotto lo stemma dei Colonna, la seguente iscrizione:

magnificus dnus stefan de colummna redificavit
civitatem penestre cu monte et arce
anno mcccxxxii.

Preneste fu d’altronde una della località più antiche del Lazio, e pare sia stata la stanza attribuita al favoloso re Cecolo, il cui nome sembra trasformazione di quell’altro antico re Cecolo di Agrigento, noto per il mito di Dedalo. La vista da questo punto sui monti della Sabina, i quali sorgono intorno severi e maestosi, è grandiosa ed imponente.

Non mi arrischierò a portare il mio lettore fra le rovine di Preneste, disseminate più abbasso nelle vigne della città odierna, dove formano quasi un labirinto di volte, e di stanze, promettendo ancora notevoli scoperte agli antiquari; tali escursioni sono faticose, ed in generale di poco profitto.

Palestrina del resto ha due buoni storici locali, Cecconi e Petrini, le cui memorie Prenestine sono di molto pregio per la storia del medio evo romano, e della campagna di Roma.

Al disotto della città, la strada prosegue in una bella gola di monti, popolata di stupendi castagneti, corre in fondo un torrente, ed i monti che sorgono sulle due sponde di questo, circoscrivono in ristretto spazio l’orizzonte. Dopo tre miglia la strada si apre tutto ad un tratto sopra un ponte grandioso e pittorico, il quale varca uno degli affluenti del Sacco, e si presenta in cima ad una collina nera, il cupo e bizzarro paese di Cave, attorniato di vigneti e di giardini, dal quale lo sguardo può spaziare [p. 302 modifica]sui monti Volsci, nonchè sulla pianura del Sacco. Sulla piazza del mercato di Cave sorge una colonna, stemma parlante dei Colonna, antichi feudatari del luogo. Si trovano nei dintorni di questo piante di noce di una dimensione straordinaria, i cui frutti raggiungono talvolta la grossezza di un pomo, e sono tenuti in molto pregio in tutta la campagna di Roma. La popolazione di Cave è di sangue caldo, pronta alla collera, e proclive a maneggiare il coltello. Dessa parla un dialetto che ricorda molto il romanesco, linguaggio delle cronache del medio evo, o che si accosta pure molto al calabrese per la facilità a sostituire dittonghi alle vocali. A vece di si i Cavesi dicono sei od anche seine, colla cantilena abituale alle persone volgari; dicono signoure a vece di signore, muratoure a vece di muratore, Rouma a vece di Roma. I Prenestini per contro hanno serbate tuttora molte parole e desinenze latine; il bravo vignaiolo Agapito, quando mi voleva invitare ad andare nella sua vigna mi diceva «venite in vigna mea» e non mia, locuzione la quale era trovata viziosa dai vignaiuoli di Genazzano, e che a quelli di Palestrina sembrava la migliore.

Sonvi ancora tre miglia di strada per arrivare a Genazzano, sempre sull’altipiano stupendo che corre lungo il monte di Cave, colla vista continua dell’amena valle del Sacco, od in lontananza, di Pagliano, seconda sede dei Colonna, col suo castello bianco, ed ai confini dell’orizzonte della antica Anagni che sorge sur un colle quasi perduto nei vapori.

Giunti a questo punto la strada scende tutto ad un tratto, e vi porta in una bella regione di collinette e di valli le quali si alternano con pittorica varietà d’aspetto; si succedono di continuo oliveti, boschi folti, malinconici, di castagni, campi di formento, e di gran turco, orti coltivati a legumi, e dovunque poi vigneti, che stendono i loro bampini dall’una all’altra pianta di olmi tenuti bassi. Genazzano sorge sulla collina lunga e ristretta che domina quella piccola pianura, paese lungo e nero d’aspetto, come [p. 303 modifica]le roccie sulle quali è fabbricato. Si direbbe che le sue case vadino in processione verso la chiesa della Madonna del Buon Consiglio, santuario il più rinomato della campagna di Roma, ovvero che si rechino, quali vassalli, a fare omaggio al castello baronale dei Colonna, il quale occupa il punto più elevato del paese.

Una porta merlata dà accesso alla piccola città; ed appena entrati lo sguardo cade sopra un rozzo affresco dipinto sulla parete di una casa, il quale rappresenta Nostra Signora del Buon Consiglio, sostenuta per aria dagli angioli, e circondata da pellegrini colle cappe ricoperte di conchiglie, e col bordone in mano, in atto di venerazione. Strade deserte portano alla piazza principale, la piazza imperiale, e l’aspetto delle case nulla ha di seducente, se non qua e là qualche finestra gotica, la quale colle sue sculture, e co’ suoi rabeschi, ricorda l’epoca migliore del medio evo.

Allorquando si giunge in qualche luogo scartato per dimorarvi alcun tempo; ed io ho soggiornato per la prima volta tre mesi a villeggiare in Genazzano, e vi sono ritornato ancora due altre volte nella state; uno dei primi pensieri, dopo aver fissata una abitazione ed esservisi adagiata, si è quello di cercare siti per passeggiare, dove si possa trovare aria, frescura, tranquillità, dove si possa leggere, pensare, senza essere disturbati. E non tardai ad avvedermi che tutto ciò avrei trovato facilmente e bene in Genazzano. Nella cittaduzza non si può guari passeggiare; non è piana, è troppo piccola; non havvi una pianta all’ombra della quale si possa sedere; ma fuori di essa, abbondano castagneti ombrosi, vigneti ameni, dove si possono assaporare tutte le dolcezze della tranquillità, della solitudine. Trovasi pure una strada piana, adattissima a paseggiare. Per giungere a quella fa d’uopo attraversare il palazzo Colonna, e si arriva ad un ponte gittato sopra un burrone, e formato di un arco solo in pietra, il quale non sarebbe indegno degli antichi Romani. Vi si scorge la mano possente dei Colonnesi. Trovasi poi [p. 304 modifica]addossato al palazzo stesso un acquedotto, opera dessa pure degli antichi signori del luogo, il quale ora è fuori d’uso ma che è molto pittorico, con i suoi archi che sorgono, in parte rovinati, negli antichi giardini, i quali non sono dessi pure in istato migliore.

Corre lungo l’acquedotto una strada ad uso dei soli pedoni, la quale porta al Convento di S. Pio, monastero solitario ed abbandonato, del medio evo. Si hanno per tal guisa davanti agli occhi due ricordi, deserti entrambi, dei tempi trascorsi, il palazzo baronale, ed il monastero, fra quali si può andare passeggiando su e giù lungo gli archi cadenti in rovina dell’acquedotto, località propriamente adatta per pensare, e meditare, all’ombra di solitari cipressi, e di alcune piante di alloro.

Ricordo ancora con piacere il giorno, in cui, fatta la scoperta del sito delle mie future passeggiate, passai oltre il convento di S. Pio. La strada bella e buona, continua a salire fra i vigneti ed i boschi; tutto ad un tratto la vista si apre a destra, e si scorgono terreni ondeggiati coltivati a viti, e l’ampia e tranquilla valle del Sacco, circoscritta da catene di monti, ampia contrada di stile solenne e grandioso, la cui vista solleva l’animo, e lo tranquilla. Sorge a fianco di quella strada una piccola altura detta Fagnano, sulle cui pendici trovasi un masso voluminoso ombreggiato da annose piante di olivo; seduto su quello, mi procurai infinite volte il piacere di leggere la Vita Nuova di Dante, o la Consolazione della Fiosofia di Boezio, fermandomi al fine di ogni capitolo, per gettare uno sguardo su quel sublime paesaggio. Di là si gode tutto quanto a meraviglia; sul primo piano una regione lussureggiante di verzura e di vegetazione; più in là foreste di tinta più cupa, di ampia valle, immerso il tutto in una atmosfera limpida irradiata da uno splendido sole, ed a destra ed a sinistra la catena dei monti. Quella a sinistra ha nome la Serra, e sorge da questa, a foggia di piramide gigantesca, il Serrone, da cui si staccano monti di minore altezza, e tutti sorgono sopra un mare di [p. 305 modifica]verzura, interrotto qua e là da numerosi villaggi e castelli. Si stacca dalla Serra una linea di colline, la quale scende al piano verso il fiume, e sulle sue vette biancheggiano borghi e città. Al lato opposto, sorgono colline stupende, di minore altezza, contrafforti dei monti Volsci, i quali stanno di fronte alla Serra, a poco più di un’ora di distanza, in altra forma non più piramidale, ma di dorsi imponenti.

Su tutte le vette, nelle gole dei monti si scorgono borghi, città, monasteri, tutti innondati di luce. Regna un silenzio solenne, imponente; il profilo dei monti in quella atmosfera azzurra, limpidissima, compaiono così precisi che se ne possono contemplare i minimi accidenti. Al di là della Serra, sorgono qua e là tinte di color violaceo, altri monti appartenenti agli Abruzzi, e più lontano ancora altri di forme molteplici e svariate, coperti di nevi, i quali richiamano la fantasia all’idea di altre ignote o lontane regioni.

Chi potrebbe rappresentare sulla tela la bellezza di questo paesaggio, all’ora in cui il sole cadente tinge le cime dei monti di tutti i colori dell’Iride, ed in cui la valle si fa ad ogni istante più oscura? La notte scende allora lentamente sulle splendide pendici della Serra, le città, i borghi scompaiono poco a poco gli uni dopo gli altri, in fino a tanto tutto resta immerso nelle tenebre. Qua e là alcuni raggi di sole sul tramonto, illuminato tuttora scintillando le finestre del lontano Serrone, di Roiade, di Piglio; quindi l’una dopo l’altra anche queste scompaiono, ed anche il castello di Pagliano si perde nella oscurità, se non chè, più oltre, i raggi del sole morente splendono tuttora sulle finestre di una città nera, posta su di un colle che quasi tutto ricopre, e che per la sua estensione compare tosto più ragguardevole delle altre città dei dintorni. La vidi fin dalla prima sera, e dal carattere della contrada riconobbi tosto, senza punto cadere in errore, che la doveva essere Anagni, patria di Bonifacio VIII, e salutai il suo apparire a lungo desiderato, coi versi di Dante: [p. 306 modifica]

Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
E nel vicario suo, Cristo esser catto.

L’impressione di un paesaggio grandioso è maggiore per le persone colte le quali sanno dargli vita con i ricordi della storia; la valle latina che giace ai nostri piedi è la chiave del regno di Napoli, e fu la strada battuta da tutti gli eserciti invasori del medio evo. Goti, Vandali, Franchi, Longobardi, Belisario, Ottomani, gli Hohenstaufen, torme di Saraceni, Francesi, Spagnuoli, tutti abbeverarono i loro cavalli nelle onde del Sacco, nello attraversare che facevano questi campi virgiliani, per versarsi al di là del Liri, in quella contrada di paradiso, che ha nome regno di Napoli.

II.

Genazzano del resto non è città antica, risale soltanto al medio evo. Può darsi però sia antico il suo nome, che vuolsi ripetere della Gens Genucia, la quale ivi possedeva il fundus Genucianus. Fin dal principio del secolo XI, si fa menzione nelle pargamene del medio evo di un castello di Genazzano, il quale apparteneva ai Colonna di Palestrina nella cui Diocesi sorgeva, ed anzi fu sede e diede nome ad un ramo di quella famiglia. Vuolsi che l’unico Papa sorto da essa, sia nato appunto in Genazzano. Fu questi Martino V, Ottone Colonna, eletto a Costanza nel 1417, il quale pose fine allo scisma di Avignone. È certo per lo meno, che questo distinto pontefice apparteneva al ramo dei Colonna di Genazzano, e che si compiaceva di far soggiorno solitario in questi possedimenti di suo casato. Amava Genazzano, vi costrusse chiese, ed è probabile abbiavi ampliato pure il palazzo, che i suoi nipoti abbellirono. Furono pure i Colonna che condussero a Genazzano le acque di cui ho fatta di già parola, e le rovine pittoriche di bagni che stanno in una valletta alle porte della città, rivelano pure per la grandiosità del loro [p. 307 modifica]stile che autori ne furono i potenti baroni. Il loro palazzo, o castello baronale, era grande e bello, ma oggi cade in rovina al pari dei palazzi tutti, quasi, della campagna romana. La corte, di gusto puro e corretto, con un doppio ordine di colonne, costruzione graziosa e leggera, ricorda quasi il periodo di Bramante, ma ora fra le colonne sorgono statue monche, senza capo, le quali nello stato compassionevole a cui trovansi ridotte parlano con molto maggior eloquenza al viaggiatore che se fossero tuttora intatte. Desse convengono propriamente a quel palazzo abbandonato, e mi fecero sovvenire delle descrizioni di quei castelli feudali cadenti in rovina, che si leggono nei romanzi di Walter Scott. Tempo fa gli orgogliosi Colonna avevano fatto dipingere sulle pareti di una loggia le viste delle molte città che sorgevano nei loro ampi dominî, ma ora quelle viste sono cancellate, come scomparvero del pari i titoli ed i diritti dei loro signori. Unico abitatore che si aggira lentamente in quelle ampie sale deserte, si è un vecchio medico pensionato, fornito di una lunga barba tutta bianca, il quale ha tutto l’aspetto di un mago.

Non mi sono dato del resto, pensiero in Genazzano nè di antichità, nè di ricerche archeologiche, abbandonandomi interamente al piacere di godere le bellezze naturali, e di conversare con quella buona popolazione. Voglio ora parlare dei vigneti, e quale campagnuolo, non volendo stare a contemplare unicamente l’azzurro del cielo od occuparmi soltanto della storia delle famiglie del medio evo; ma considerare ancora quanto qui si abbia per mangiare e bere. Il momento non è il più opportuno, imperocchè le viti sono tuttora travagliate dalla crittogama, ed il grano turco corre grave pericolo di andare tutto perduto, poichè da due mesi non è caduta più una goccia d’acqua. Un giorno, seguendo un sentiero solitario fra due siepi di banco spini, ero arrivato in un vigneto, ed avendovi trovato un posto tranquillo, ombreggiato da belle piante di olivo, vi sedetti, e tratto fuori di tasca un libro legato in pergamena, non tardai a rimanere pienamente assorto [p. 308 modifica]nella lettura di quello. Moringa, mio cane fedele, e compagno inseparabile di tutte le mie passeggiate, il quale possedeva un istinto particolare per iscoprire i più bei punti di vista, stava accovacciato a miei piedi, quando tutto ad un tratto prese ad abbaiare; alzai gli occhi, e vidi alla distanza di cinque o sei passi una donna piuttosto ben vestita, la quale mi stava contemplando, con aspetto di una certa paura.

«Buon uomo, mi disse, che cosa stai facendo colà?» Nella campagna di Roma, del pari che negli Abbruzzi si fa uso generale del tu, con tutte le persone. «Perchè me lo dimandi, brava donna?» diss’io «Perchè penso; diss’ella scrollando le spalle in atto di disprezzo; che non fai nulla di buono» e poi soggiunse dessa «la è cosa la quale non sta bene» Grandemente stupito domandai alla donna che cosa trovasse in me di riprovevole, e se non le fosse avvenuto mai, di vedere un uomo occupato a leggere un libro, «Può darsi rispose ella, ma ora ciò non sta bene, e chi sa poi che cosa prima.....» e con queste parole si allontanò, gettando ripetutamente sopra di me sguardi di timore, e di sospetto. Continuai a leggere, se non che presto mi alzai, pensando a quella strana apparizione. Alla sera poi narrai la cosa in casa. «Sapete, mi disse la mia albergatrice sorridendo; quella donna si è immaginata che voi eravate un fatucchiero, una specie di mago, e che col vostro libro in pergamena, stavate lanciando una maledizione sulla sua vigna» Risi di cuore al pensare di essere stato ritenuto per un mago, e di avere potuto tratta le maledizioni ai vigneti dalle vite dei Papi di Platina, che quello era il libro che stavo leggendo.

La vite del resto si va riavendo a poco a poco, ed essendo queste il primo anno in cui cede la malattia, i grappoli dell’uva sono ritenuti come dice questa buona gente cosa santa. Durante il mio soggiorno in Genazzano, furono uccise nei dintorni cinque persone, per il solo motivo di essersi queste permesse di rubare pochi grappoli d’uva. Voglio narrare a questo proposito un fatto, il quale dà [p. 309 modifica]una precisa idea della razza di giustizia di queste contrade. Un proprietario agiato, cognato del priore e borgomastro di Olevano, uccise un giorno sulla strada maestra un povero diavolo, il quale aveva rubato alcuni grappoli d’uva; compiuto questo bel fatto si rifugiò in una sua vigna, la quale era contigua a quella della mia albergatrice. Suoi amici si portarono colà armati, imperocchè i figliuoli dell’ucciso si erano mossi, dessi pure con gli schioppi, per vendicare il padre. La giustizia non si diede pensiero di nulla per vari giorni, finalmente si disse che per via di protettori influenti, la vedova del morto fosse riuscita ad ottenere che il magistrato si scuotesse, e che fosse stato dato ordine agli arcieri di Olevano di arrestare l’uccisore; ma questi punto non si mossero, dicendosi fossero stati comprati per denaro. La vedova riponeva tutta la sua speranza negli arcieri di S. Vito, ma questi non si mossero nulla più degli altri. Intanto erano passate ben due settimane. «Bella giustizia che avete in queste contrade,» diss’io un giorno nella bottega dello speziale di Genazzano, dove si soleva radunare, come in quella dello speziale di Ermanno e Dorotea, la società del luogo. Ed allora disse il figliuolo dello speziale, padre della bella signora Sofia. «Ma che cosa pensate voi signore? Quell’uomo non fu punto ucciso, come si dice, dal cognato del priore; il nostro medichino, il piccolo dottore, ed il chirurgo hanno fatta la sezione del cadavere, e fu provato che il poverino cadendo da un’altura si era spezzato il fegato.» — «Sta proprio così, sì signore; egli si è ben vero,» soggiunse l’arciprete di S. Maria del Buon Consiglio. Io tacqui. «Non state a crederne una parola, mi disse alla sera la mia albergatrice, desso non si è punto rotto il fegato, ma» — e nel mentre col pollice e coll’indice della destra fece il gesto di far scorrere danaro nella sinistra — «Capite?» — «Capisco.»

La quantità di vigneti quivi è propriamente straordinaria. Ne sono ricoperte tutte le amene colline dei dintorni. Si stendono le viti in lunghe file nelle valli, o appoggiate [p. 310 modifica]a pali, o sostenute da quelle forti canne che nascono in Italia nei siti umidi, ovvero sospese a piccole piante di olme. Gli amici di Virgilio sanno che già ai tempi dei Romani solevansi in queste regioni coltivare le viti nei due modi testè accennati. È un vero piacere il leggere in queste campagne le Georgiche, stupendo capo d’opera della poesia latina, non già per le forme della composizione, la quale in generale è mediocre, ma per la purezza, la precisione propriamente inimitabile della lingua. Lessi e rilessi ripetutamente quei canti nelle vigne di Genazzano, ed ho potuto persuadermi che le osservazioni, le regole, i precetti in esso dettati, sono pienamente osservati oggidì tuttora, in guisa che si direbbe descrivano i metodi di coltivazione attualmente in uso nella campagna di Roma.

La vigna in queste regioni è tutto; raduna in sè tutte le tre divinità della terra, Bacco, Cerere, e Pomona; imperocchè fra le file delle vite si semina il grano, e qua e là sorge la pianta graziosa ed elegante del mandorlo, la più precoce fra le piante del mezzogiorno, siccome quella che fiorisce al primo soffio di primavera. Venne dessa celebrata in una delle Cento novelle antiche, in cui la si descrive piantata dall’Amore presso la tomba di Narciso, quale albero simpatico agli innamorati. Crescono pure gli olivi fra le viti, colle loro foglie fine sottili, fra cui scherza e penetra la luce, le quali mosse ed agitate dal vento, assumono ora una tinta argentea, ora quella cupa e severa del bronzo, e scorgendo gli olivi emergere dal grano, si pensa al pane saporito, per il quale somministrano l’olio. Sorgono pure fra le vite le piante del pesco, del pomo, del pero, quelle del melograno purpureo, il noce, il castagno, od il fico di Amelia, che dà frutti dolci al pari del miele. Tutti questi alberi porgono una ricca serie di frutta per ogni stagione dell’anno, in guisa che quando vengono a mancare quelle dell’una, altre piante vi offrono le loro, ed altre le preparano. Avendo passato in quei dintorni tutta intera una state, ho potuto godere di tutte, ad eccezione delle olive, le quali maturano per [p. 311 modifica]le ultime, e non ho avuto mai alla mia mensa tanta varietà, tanta abbondanza, tanta eccellenza di frutta.

La mia albergatnce possedeva tre vigneti, uno presso Palestrina, gli altri nei monti di Olevano a tre miglia di Genazzano. Sorgeva colà sur un’altura una casetta isolata con una veranda aperta, guarnita di fiori, ombreggiata da annose piante di fichi e di castagni; e di là lo sguardo spaziava libero sui monti maestosi della Serra, non che sulla pianura del Sacco. Si provava una vera soddisfazione a sedere in quella specie di loggia le lunghe ore, respirando quell’aria pura e balsamica, ed a cibarsi di quelle ottime frutta. Non si aveva che l’imbarazzo della scelta, tanta era la loro varietà, abbondanza e squisitezza. Uguale cosa si poteva dire dell’uva. La crittogama aveva risparmiato quel vigneto, rinomato in tutta la contrada; i tralci piegavano sotto il peso dei grappoli, cosicchè era stato d’uopo munire i primi qua e là di sostegni, e legare i grappoli più voluminosi con fili. Non ricordo avere visti mai grappoli, acini di quella grossezza, e quando la volessi accennare, sarei tacciato fuor di dubbio di esagerazione. Vi si scorgevano il moscatello dorato che risplende ai raggi del sole; l’uva nera, quella bianca chiara, che somministra il così detto buon vino; quella azzurra oscura che produce il vino di colore sanguigno cupo. Stavo talora mangiando quelle uve eccellenti seduto presso un castagno ai piedi della collina fra cespugli di mirto e felci virgiliane, profumati dalla mente e dal serpillo, leggendovi Orazio o quell’altro libro che avevo preso meco. La menta è propriamente la pianta speciale della campagna romana, dovunque si sente il suo odore, e quando sono lontano di qui, in Toscana o dell’alta Italia, e che mi accade incontrare nei campi una pianta di menta, il profumo di questa mi fa pensare immediatamente con vivo desiderio alla campagna di Roma.

Ed ora si potrebbe credere, che in mezzo a tanta abbondanza di prodotti la popolazione viva vita misera? Osservando questa contrada, si direbbe debba essere un [p. 312 modifica]vero Eldorado per i suoi abitatori, ma vivendo a contatto di questi si trova non di rado l’uomo che soffre la fame, in questo paradiso di natura. Tutte queste frutta (per un baiocco si possono avere venti fichi, venti noci, e nelle buone annate per lo stesso prezzo un fiasco di vino) non bastano a nudrire il contadino, ed esso morrebbe di fame, se non avesse la farina del gran turco la quale forma l’unica base del suo nutrimento. L’origine di questo doloroso contrasto vuolsi ripetere dalle condizioni agrarie del paese. Anzi tutto è d’uopo sapere che ogni possessore di terra deve pagare al principe Colonna il tributo, equivalente circa alla quarta parte del reddito. L’antica peste dei latifondi si è quella la quale forma la miseria del popolo; sonvi per dir vero alcuni paesani i quali posseggono una vigna discreta, ma questa non basta per mantenere la famiglia. L’usura non ha limiti; anche ai più poveri prende il dieci per cento. La più piccola disgrazia, la menoma mancanza di raccolti come avviene da alcuni anni in qua, bastano ad indebitarlo. Se ottiene danaro o derrate a credito, gli interessi lo traggono in rovina; l’usuraio ingordo aspetta il momento in cui possa acquistare dal piccolo proprietario, stretto dalla fame, il suo fondo, per un prezzo derisorio. I baroni ed i conventi diventano ricchi; i contadini sono ridotti alla sorte di loro vassalli, di loro mezzadri. Ho avuto occaione di osservare più di una volta fatti di tal natura. Per lo più la vendita ha luogo a questo modo; il contadino indebitato comincia a vendere unicamente la terra, riservandosi le piante, gli alberi, sotto la cui denominazione sono comprese pure le viti; continua a coltivare queste, ed a godere della metà circa, talora anche di tre quarti del reddito. Se non che trascorso appena un anno, il contadino si presenta all’acquisitore, e gli offre di vendergli pure le piante, ed allora diventa mezzadro di questi, continua ad abitare il podere colla sua famiglia, a coltivarlo per conto del nuovo padrone, ricevendo in compenso una parte del prodotto; e non di rado non bastando questo a suo sostentamento, si va sempre più oberando di debiti. [p. 313 modifica]

Nella vigna della mia padrona, una veneziana, grandemente stimata par la sua rettitudine, viveva in tali condizioni una famiglia di vignaiuoli, composta di otto persone. Mi si disse che le aveva accolta in qualità di mezzadri nel suo podere, poverissimi, ed in istato compassionevole; che loro aveva anticipato danaro perchè si potessero vestire, provvedere di masserizie di casa, mantenere. Ma ciò non ostante vivevano quei poverelli in tanta miseria per il soverchio lavoro, per il pessimo nutrimento che erano stati colti tutti dalla febbre, ed era d’uopo soccorrerli, perchè potessero campare la vita. Soltanto dopo la vendemmia provavano un po’ di sollievo, vale a dire in fino a tanto durava il danaro che si procacciavano colla vendita della loro parte di vino.

Questo esilara lo spirito, eccita i nervi, ma non basta a nudrire i muscoli. Il contadino beve il vino peggiore, quello di seconda tiratura; fa d’uopo avere pane altresì. Il frumento è troppo caro, ed il paesano si ciba di polenta, composta di farina di gran turco. Come nella Lombardia e nelle Marche, le campagne del Lazio sono ricoperte delle belle piante del gran turco, nelle quali, la natura pare aver considerato le panocchie dorate qual prezioso gioiello, avendole ricoperte di involucro ripetuto per ben nove volte. Tutto il popolo qui si ciba di farina di gran turco, e sotto forma di pane, o sotto forma di focaccia, a cui si dà nome di pizza. Quando incontravo qualcuno per istrada, e gli domandavo «che cosa hai mangiato stamane?» rispondeva la pizza. — E se gli domandavo «che cosa mangierai questa sera?» rispondeva ancora la pizza. Ne ho mangiata io pure parecchie volte col popolo, seduto sulla nuda terra. La si prepara a questo modo. La farina viene ridotta a poltiglia; quindi la si stende sur una pietra piana e liscia, e la si fa cuocere sopra carboni accesi. La si mangia calda; tutta la famiglia prende posto attorno al fuoco, e parte al meschino banchetto. Alla sera talvolta si ciba di una insalata, condita all’olio, e composta delle erbe dei campi, ovvero di una [p. 314 modifica]minestra all’acqua, di cicorie, di altre erbe e di legumi. Spesse manca l’olio, come avviene in questo anno, in cui gli olivi, dopo aver dati frutti abbondanti in quello precedente, ne sono totalmente spogli imagine di ogni umana vicissitudine, in cui il bene di continuo si avvicenda col male.

È quindi facile imaginarsi con quale ansietà tengano dietro queste popolazioni alle fasi del raccolto del gran turco. La pannocchia si forma sulla pianta verso il finire di luglio, ed a questo punto, abbisogna di acqua. In questo anno non piove; l’atmosfera è infuocata. La popolazione è costernata, e rivolge preghiere al cielo per ottenere la pioggia. In ogni sera hanno luogo processioni, le quali mi richiamano alla memoria le solennità pagane, quelle feste rubigali di Roma antica, nelle quali si portava la pietra della pioggia in giro per la via Appia, votisque vocaberis imbrem; e non potevo a meno di contemplare queste processioni con istupore. La è propriamente singolare cosa, il trovarsi a tempi nostri in mezzo ad un popolo, il quale nutre tuttora la credenza ingenua, che per mezzo di preghiere, di canti di grida, si possano alterare le legge immutabili di natura, od affrettarne lo svolgimento. In ogni sera le donne della piccola città di Genazzano, percorrono le strade, due a due, col panno rosso in testa che loro scende a foggia di velo sulle spalle, e che non mancano mai di rivestire ogni qualvolta si devono recare in chiesa. Le precede il clero, colla imagine di un santo. Cantando, sospirando, arrivano alla piazza maggiore, ed ivi giunte, con un fervore che tocca il confine della esaltazione gridano ripetutamente Grazia! Grazia Maria! e l’aria rintrona di questo grido, ripetuto da ben varie centinaio di voci. Et Cererem clamore vocant in tecta. Virg. Ogni sera si cava fuori un santo nuovo ma tutti orano inesorabili; gli uni più sordi degli altri. La mia albergatrice la quale era fino ad un certo segno, donna spregiudicata, e che del resto non possedeva campo veruno piantato a grano turco, diceva una sera mentre [p. 315 modifica]stavamo a tavola, e che le voci Grazia! Grazia Madonna! presero tutto ad un tratto ad echeggiare di fuori «a che disturbare in questa guisa i santi in cielo? li seccano per modo, che finiranno per impuntarsi e per non lasciare piovere più!» Tutta questa ansietà aveva finito per commuovere me pure, e non desideravo la pioggia meno degli altri; visitavo parimenti ogni giorno i campi di gran turco; erano prossimi a volgere a rovina. Finalmente si portò in processione S. Antonio di Padova, e mentre lo si riconduceva al convento di S. Pio, di dove era uscito, un frate agostiniano predicava sulla gradinata al di fuori della chiesa al chiarore delle fiaccole. Le strade erano gremite di popolo, gli uditori si erano persino arrampicati sugli alberi; era uno strano colpo d’occhio; il monaco che gesticolava, l’imagine del santo, le croci nere, le sottane bianche dei chierichetti, i veli rossi delle donne, la luce tremola delle fiaccole, gli alberi di tinta cupa, l’azzurro limpidissimo del cielo su quella stupenda campagna, e tutto ciò per impetrare da Dio la pioggia ardentemente sospirata! Finalmente al terzo giorno il cielo si annuvolò; il tuono si fece sentire e scoppiò un temporale di una violenza tropicale.

Sembra però che i santi al pari degli antichi Iddii, dei quali hanno tolte le veci, non intendano concedere favori senza pretendere vittime. Così pure avvenne questa volta; colla pioggia venne una tromba d’aria fenomeno stupendo che ebbi agio di osservare trovandomi fuori a cavallo. Si formò nei monti Volsci, scendendo di colore azzurro cupo, sopra la valle, e nello scoppiare, devastò con grandine una estensione notevoli di vigneti. Dopo d’allora, quasi ogni giorno nel pomeriggio, scoppiava un uragano nei monti, con grande accompagnamento di lampi e di tuoni, ed allora si ponevano in moto tutte le campane di tutte le chiese. Un giorno tutto il paese fu sottosopra; tutta la popolazione si riversò nelle strade; correva voce che quattro persone fossero state colpite dal fulmine, e disgraziatamente la voce non tardò a confermarsi. I morti [p. 316 modifica]furono recati in una casa rurale, dove la polizia li fece custodire per ventiquattro ore. Nel giorno seguente vi si recò il magistrato, a cavallo di un asinello, accompagnato da nostra conoscenza, il medichino, e dal chirurgo per praticare la sezione dei cadaveri. Questa volta non eravi luogo a dubbio, que’ poveretti erano propriamente stati colpiti da fulmine. Verso notte furono tolti di là collocandoli, ricoperti da un drappo nero, sopra un carro; precedevali il clero, portando torcie in mano; accompagnavali la confraternita della morte rivestita di mantelloni neri, e con torcie a vento. La vista di quel corteggio aveva un non so che di sinistro. La popolazione si precipitava tutta quanta fuori delle porte del paese. Allorquando il funebre corteggio pervenne a queste, cantando il miserere, tutti quali sollevarono le mani al cielo, prorompendo in tali acute grida di dolore, che avrebbero commosso l’animo il più duro, ed il più insensibile. Le persone uccise dal fulmine sono considerate quivi con una specie di ribrezzo, perchè le si ritengono quasi colpite dalla vendetta di Dio, e si dubita della loro eterna salvezza. Si staccarono allora dalla folla i parenti degli uccisi, donne e ragazzi; una infelice donna era colta da tanta disperazione, che gli astanti durarono fatica ad impedirla di precipitarsi sui feretri. Tali scene si rinnovarono allorquando i feretri forono introdotti nella chiesa, dove dovevano essere custoditi la notte, ed io non dimenticherò mai per certo quel doloroso quadro.

Questo popolo esprime tutti suoi sentimenti con una ingenuità propriamente primitiva, e può dirsi viva tuttora, sotto certi aspetti, in istato di natura. Le relazioni fra i due sessi mi ricordavano costantemente i costumi degli orientali. Per principio gli uomini non devono avere relazioni che con uomini, le donne che con donne. Sarebbe trovato ridicolo un marito il quale uscisse con sua moglie al braccio, ed una ragazza riterebbe macchiata la sua riputazione quando si fermasse a parlare per istrada con un giovane, e peggio se si lasciasse accompagnare da [p. 317 modifica]questi. Agli innamorati non è permesso che il così detto discorso, vale a dire il colloquio a segni dalla finestra, ovvero dalla porta di casa, antica usanza lenes sub noctem susurri di Orazio. Talora si fanno serenate colla chitarra, e spesse volte mi accadde di udire durante la notte canti villerecci, ovverro le note malinconiche della cornamusa. Il popolo, qui canta stupendamente ritornelli di natura semplice, ed era un vero piacere udire talvolta nelle vigne le domande e le risposte degl’innamorati, che si alternavano nel cantare instancabili, al pari delle cicale nella state.

I matrimoni sono sommamente precoci; spesso un giovane di ventun anno sposa una ragazza la quale ne ha quindici appena. Una relazione geniale protratta, il far all’amore come dicono, è proprio più delle classi inferiori, che delle persone agiate, per le quali il più delle volte il matrimonio non è che un semplice affare, una speculazione. Ne posso addurre un esempio del quale fui testimonio. Un giovane abate di ventun anno, figliuolo di un proprietario benestante di Genazzano, venne in pensiero di rinunciare alla carriera ecclesiastica, di ritornare allo stato secolare. Un bel giorno venne un frate francescano di Civitella (che qui i frati si mescolano invariabilmente in tutti gli affari delle famiglie) e disse alla madre del giovane, che nel paese di Pisciano trovavasi una ragazza di circa diciotto anni, la quali aveva un migliaio di scudi di dote, era di buona famiglia, e cercava marito; che se la cosa le sorrideva, poteva pure farne parola al figliuolo. Il giovane abate non se lo fece dire due volte, ed il giorno seguente, tuttora in abito clericale montava a cavallo, e se ne trottava verso Pisciano, per vedere la ragazza e fidanzarsi seco lei. Tornato a casa dopo data la sua parola, venne chiamato il sarto per ridurre a forma secolare gli abiti clericali; la sorella dall’ex reverendo cucì in tutta fretta un paio di calzoni di color grigio per il giorno del matrimonio, e mancando tuttora il panciottino, la madre mandò in tutta segretezza da me, pregandomi volerne [p. 318 modifica]imprestare uno a suo figliuolo. Questi rafazzonato in quel modo spiccio, si presentò per la seconda volta in una vigna alla sua fidanzata, ed ivi fu sottoscritto il contratto di nozze. Dopo tre settimane arrivò la sposa in carrozza, recando seco due voluminosi sacchi di moneta erosa, e fu celebrato senz’altro il matrimonio. Prima di questo, il giovane non aveva vista che due volte, e per un’ora sola ogni volta, la donna destinata ad essere la compagna di tutta la sua vita. Fu preparata nella casa dello sposo una cameretta per la giovane coppia, o per parlare più esattamente, non si fece altro che collocarvi un letto colossale che l’occupava quasi per intiero, e con ciò tutto fu finito.

Voglio a questo proposito far cenno di una strana usanza di questi paesi. Una sera udii sulla piazza maggiore un chiasso infernale, un vero baccano, che non era prodotto propriamente da strumenti musicali; mi portai a quella volta, e trovai tutta la gioventù e tutti i ragazzi di Genazzano radunati davanti ad una casa, ed intenti a darvi una specie di concerto. Non ho mai udito un complesso di suoni così discordanti, nemmeno fra le baldorie degli studenti tedeschi alle loro università, imperocchè gli uni soffiavano entro conchiglie marine; altri davano il fiato a corni di bue; altri con falci da vignaiuoli picchiavano a tutta forza sopra zappe e padelle; altri agitavano con violenza pezzi di ferri vecchi di ogni natura, legati in mucchio con una corda; un altro faceva girare in circolo sul selciato una vecchia casseruola raccomandata ad una funicella. Un dieci o dodici si sbracciavano a scampanellare con le campane che si appendono al collo alle vacche. Domandai ad un signore, che stava osservando ridendo tutta quella folla, che cosa volesse significare quella musica infernale. Mi rispose che in quella casa abitava un vedovo il quale era di recente passato a seconde nozze e che gli si faceva la scampanellata, che tale si è il nome di quella barbara costumanza, dedotto dall’impiego che vi si fa delle campane solite a portarsi dalle vacche; ed in tutto quanto il Lazio si usa regalare per ben tre sere [p. 319 modifica]questo concerto, ai vedovi che si rimaritano. Durante il mio soggiorno a Genazzano ebbi occasione di esserne spettatore per tre volte, e di vedere tutta quella folla la quale si muoveva per le strade, preceduta de un giovane il quale portava una zucca appesa ad un bastone a foggia di lanterna, pari ad una schiera di diavoli la quale avesse invasa di nottetempo quella città pacifica.

Pacifico di fatti si è Genazzano, e la sua popolazione è d’indole più mite, più superstiziosa parimenti, de’ suoi vicini; doti le quali corrispondono alla sua qualità di punto rinomato di pellegrinaggio, imperocchè la sua ricca chiesa ha preso il posto degli antichi tempi della Fortuna di Preneste, e di quello di Anzio. Ho assistito colà alla festa solenne della Madonna delli otto di settembre, e sono pertanto in grado di darne conto. Prima però voglio fare un cenno della storia favolosa di quella sacra imagine, pia leggenda, la quale ha grande analogia con quella della Santa casa di Loreto.

Nella stessa epoca in cui la santa Casa di Nazareth, fu trasportata dagli angeli per aria a Loreto, comparve a Scutari in Albania una imagine della madre di Dio, sia che fosse scesa dal cielo, o colà trasportata da Ebrei fuggittivi da luoghi ignoti. La si nomò Madonna del Buon Officio. Ora avvenne che nel 1467 due pellegrini i quali fuggivano dai Turchi e volevano far ritorno in Italia, si recarono a pregare davanti a quella imagine per domandare alla Vergine protezione nel loro viaggio. Se non che trovarono con grande loro stupore a vece della sacra imagine una nuvoletta bianca, la quale verso sera si mosse. I due pellegrini la seguirono fino alla sponda del mare adriatico, ed avendo la nuvola continuata la sua strada sopra le onde, i due pellegrini attraversarono il mare a piede asciutto, tenendo sempre dietro alla nuvoletta la quale nelle vicinanze di Roma scomparve. Se non chè, avendo udito colà essere apparsa una Madonna in Genazzano, si affrettarono a portarsi in questa città, e trovarono che era l’imagine di quella di Scutari. [p. 320 modifica]

Da quell’epoca la Madonna di Genazzano, la quale prese nome del Buon Consiglio, cominciò a fare miracoli; venne costrutta dapprima una chiesa, quindi allato a questa un convento, ed i monaci dell’ordine di S. Agostino si posero in possesso di questo santo e miracoloso ramo di reddito, il quale non è punto meno produttivo della Madonna degli Agostiniani di Roma, imperocchè questa di Genazzano gode in tutte le Romagne di una riputazione pari a quella degli antichi oracoli dei gentili. Due volte all’anno, nella primavera e nell’estate, viene celebrata con solennità la festa di lei, ed allora piovono le offerte in danaro ed in oggetti preziosi, e siccome anche i più poveri recano il loro obolo al santuario, si può dire che la Madonna di Genezzano preleva sulla campagna di Roma, tributo ben più largo di quelli che percepisce lo stesso governo. Mi si disse che la miglior parte dei doni sia recata al santuario dalle molte confraternite che esistono nei paesi della campagna; ogni confratello versa cinque baiocchi ogni mese nella cassa comune, e per tal guisa sonvi talune confraternite, le quali radunano perfino un centinaio di scudi. I redditi del santuario si possono calcolare all’incirca di sette mille e cinquecento scudi.

L’imagine trovasi in una cappella di una chiesa molto pulita, e ben addobbata, dove stanno accese di continuo varie lampade. La cappella è separata dal resto della chiesa per mezzo di una cancellata in ferro, e l’imagine per lo più è ricoperta da un velo di seta gialla. Si dice che recata colà dagli angeli, anche attualmente non posi nella chiesa sopra base stabile, ma sia sostenuta per aria da mani invisibili. Io la vidi più volte scoperta, ma non ho mai potuto farmi un’idea precisa del modo in cui posi a terra.

Le schiere dei pellegrini cominciano ad arrivare alla vigilia della festa, ed allora il paese e tutti i dintorni si vanno grandemente animando, ed echeggia di continuo nell’aria il canto delle litanie. Tutte le strade riboccano di compagnie di pellegrini, le quali arrivano in buon ordine. [p. 321 modifica] Dessi vengono dagli Abbruzzi, dalla regione dei Ciociari, dalle sponde del Liri, e sovratutto poi da tutti i paesi della campagna latina. Si direbbero rinnovate le feste di Giove Laziale, tante sono le migliaia di visitatori diversi gli uni dagli altri, per foggia di vestire, per dialetti. Dessi scendono dalle colline cantando il loro ora, e l’udirli, il vederli in quella campagna di stile grandioso, sull’ampia strada lungo al fiume, in abiti rossi, verdi, turchini, col lungo bordone in mano, forma propriamente uno spettacolo degno dell’attenzione dell’artista, del poeta, e dello storico.

III.

Era uscito a cavallo il giorno in cui dovevano giungere le prime compagnie di pellegrini, per godermi a mio bell’agio questo spettacolo del medio evo. La comarca di Roma a cui appartiene tuttora Genazzano, ha per confine a levante della città un affluente del Sacco, che si varca per mezzo di un ponte in pietra, il ponte Orsini, rinomato anticamente per le aggressioni de’ briganti. Al di là comincia la legazione di Fresinone. Ivi le colline scendono dolcemente verso il fiume, e si apre alla vista lo stupendo colpo d’occhio della pianura, dei monti Volsci, della Serra delle alture di Olevano, riccamente imboschite. La località era adatissima per aspettare i pellegrini, imperocchè prima di avviarsi al santuario, fanno ivi una breve sosta, quindi varcano il ponte cantando, e trascinandosi sulle ginocchia in doppia fila, gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Regolava il canto una vecchia donna, la quale alzandosi dopo avere attraversato il ponte in ginocchio, proruppe in un sonoro «Evviva Maria!» al quale rispose tutto il coro. Allora la processione si pose di bel nuovo in moto, intuonando, ad onta tutti fossero stanchi, ora un uomo, ora una donna, le litanie. Questo canto uniforme, schietta espressione dei sentimenti religiosi di quei popoli, che si avvicenda come il frangersi delle onde del mare alla [p. 322 modifica]spiaggia, esercita una grande impressione su tutta quella folla, o la processione prosegue uniforme e regolata. Si direbbe esservi perfetto accordo fra gli animi ed i passi dei pellegrini, ed osservai, che allorquando le pause cominciavano a diventare più lunghe e che i pellegrini cominciavano gli uni a tacere, gli altri a favellare fra di loro, i coristi tosto rianimavano il canto.

Un pellegrinaggio, anche quando non si appartiene alla religione di coloro i quali lo compiono, offre pur sempre una grande attrattiva, particolarmente allorquando l’illusione non è punto guasta dalla considerazione del male inseparabile dalla riunione di tanta folla di persone. Questi mali sono però minori nei pellegrinaggi dei paesi meridionali, che non in quelli delle regioni del settentrione; la natura benigna del cielo, la sobrietà e la temperanza delle popolazioni meridionali, valgono di già ad allontanare molte cause di male; l’ordine stesso poi col quale procedono le processioni del mezzodì; la foggia splendida degli abbigliamenti delle donne; la distinzione del portamento di queste, esercitano un’influenza benefica, anche sugli animi i più protervi, e li sottraggono ad altri sensi troppo volgari; finalmente quel senso ingenuo e naturale delle convenienze, che è dote tutta propria del popolo italiano, vale più di ogni altra cosa, ad impedire il disordine. In tutte queste migliaia di pellegrini, i quali sfilarono davanti ai miei occhi, sia nell’arrivare al santuario, sia nel fare ritorno alle case loro, in tanta differenza di popolazioni, di dialetti, di costumi, non mi venne fatto mai di osservare un atto non che rozzo, soltanto inurbano.

Convien inoltre tenere conto, che questo popolo educato grandemente a sentimenti religiosi, non trova verun atto più serio, più solenne, che un pellegrinaggio ad un santuario. Dopo avere faticato durante un anno, dopo avere lungo questo commessi tutti i falli, tutti gli errori, che ora aggravano la sua coscienza, dà di piglio per un paio di giorni al bordone del pellegrino. Scende da’ suoi monti selvaggi, abbandona il grave suo lavoro quotidiano, felice [p. 323 modifica]di muovere almeno una volta, di sentirsi libero in compagnia dei suoi conterranei, riuniti tutti quanti ad un identico fine. Scendono al piano, e camminano lungo il Sacco come i grù, che van cantando lor lai! Lo spettacolo ha propriamente carattere di medio evo; pensavo a quelle schiere di pellegrini, i quali nei tempi di mezzo venivano a Roma per il giubileo, ed andavano ripetendo meco i bei versi del sonetto sui pellegrini della Vita nuova;

Deh! peregrini che pensosi andate,
Forse di cosa che non v’è presente;
Venite voi di sì lontana gente,
Come alla vista voi ne dimostrate?

Camminavano a schiere di dieci, venti, cinquanta, cento e più persone. Sonvi persone di tutte età; il vecchio si appoggia ancora una volta al bastone che lo sostenne per cinquant’anni di seguito sulla stessa strada, che ora batte forse per l’ultima volta; vi sono le nonne coi loro nipotini; stupende ragazze, giovani briosi; garzoncelli, bambini pure alla mammella tuttora in testa alle loro madri. Ne vidi uno adagiato in un cestellino, che sorrideva grazioso, aprendo i suoi grandi occhi, tutto lieto di bearsi in quell’aria purissima, in tanto splendore di sole. Molte donne portavano pure in capo ceste contenenti provvigioni di bocca, od un fardello di vestiti, crescendo con ciò varietà allo spettacolo. Chi potesse poi vedere nell’animo di tutte quelle persone, troverebbe l’innocenza allato alla colpa, il vizio ed il pentimento, il dolore e la virtù, tutto il bene ed il male, che si avvicendano nei cuori umani.

La è una grande e bella, però seria e solenne mascherata, la quale si svoge sulla scena stupende di un magnifico paesaggio; succendosi di continuo novelli costumi, novelli colori, novelle fisionomie; le compagnie di pellegrini si succedono le une alle altre, producendo i costumi dei loro monti, delle loro valli. Sonvi gli abitanti di Frosinone, quelli di Anagni, di Veroli, di Arpino, di Anticoli, di Ceprano, i napoletani di Sora. Guardate questi ultimi! [p. 324 modifica] Che belle figure di colorito olivastro! Le donne hanno un aspetto tutto orientale, con i loro voluminosi monili di corallo, colle loro catene d’oro al collo, con i loro grossi e pesanti orecchini; portano in testa un velo bianco o nero, che scende quasi sulle loro spalle, e paiono tante madonne. Una camicia bianca a pieghe numerose ricopre loro il petto, stretto in un bustino di colore scarlatto. Portano una gonella corta, rossa o turchina, orlata di giallo. Come sono grandi i loro occhi neri, velati da lunghe palpebre!

Pellegrini di Ceccano. Le donne portano un busto di colore chermisino, un lungo grembiale dello stesso colore, ed in testa un velo bianco che loro scende sulle spalle. Gli uomini portano un cappello fatto a punta, vestono una giubba di colore chermisino, ed hanno i lombi ricinti da una fascia di moltiplici colori.

Pellegrini di Pontecorvo. Le donne alte di statura e maestose, vestano interamente di colore rosso, con un panno, parimenti rosso, in testa.

Pellegrini di Filettino. Vestono con molta semplicità, totalmente di nero, il loro costume però è pulito e bello!

Ecco i Ciociari; uomini e donne portano i sandali. Vengono probabilmente da qualche paese presso Filettino, o dai confini napolitani sul Liri e sulla Melfa, regione selvaggia, la quale, al di là di Filettino, si stende fin sul territorio napoletano. Il popolo vi porta le Ciocie, foggia di calzatura di grande semplicità, dalla quale la regione prende il nome di Ciociaria. Non si può imaginare calzatura più primitiva, ad un tempo più comoda, e più di una volta mi avvenne di portare invidia ai Ciociari. La loro scarpa consiste unicamente in una suola di cuoio forte, nelle quale si praticano buchi, e che per mezzo di funicelle si fissano a modo di sandali al piede; questo poi, e la gamba tutta fino al ginocchio, sono coperte da fascie di tela. In questa guisa il Ciociario si muove franco e sicuro sulli scogli, sia che vi si rechi a zappare la poca terra che si trova fra mazzo a questi; sia che porti al pascolo le sue pecore o le sue capre, vestito di un corto [p. 325 modifica]mantello bigio, o di una pelle di montone, colla piva appesa al fianco. Come si scorge, quei sandali sono una calzatura classica. Diogene l’avrebbe usata, se non fosse andato a piedi nudi, ed Epitetto e Crisippo l’avrebbero potuta magnifìcare in una dissertazione intorno alla moderazione dei desideri. Quando questa calzatura è bene aggiustata, e che le fasce di tela sono tuttora nuove, non fa punto cattiva vista, ma allorquando il tutto comincia ad essere vecchio e logoro, assume aspetto povero e cencioso. E siccome tali sono per lo più le Ciocie, il popolo che li porta compare miserabile assai, ed il nome di esso viene talvolta pronunziato con disprezzo. Un abitante di S. Vito, il quale mi faceva ammirare un giorno il bel panorama che si gode da quel paese mi diceva, «Guardate signore, colà, in quella direzione sta la Ciociaria,» e sorrideva in aria di compassione, tutt’altra che benevola.

I ciociari portano una giubba lunga, di colore rosso, ed un cappello di feltro fatto a punta, guernito per lo più da una penna, da un nodo di nastro, o da un fiore. Trovansi fra questi, come accade del resto in tutta la campagna di Roma, parecchie persone con capelli biondi, ed occhi cilestri. Gli uomini portano i capelli rasi sulla nuca, con due ciocche le quali cadono sulle tempia. Portano per lo più un mantello lacero, od una pelle di montone sulle spalle, a quando hanno un fucile in mano, compaiono spesso al passo di Ceprano gridando faccia a terra! ed allegerendo con somma destrezza del peso soverchio, le tasche dei viandanti. Le donne portano desse pure i sandali, un abito corto di colori vivaci, un grembiale quadro di lana, un panno bianco o rosso sul capo, e finalmente il busto, compimento di ogni foggia di vestito donnesco, in tutta la campagna di Roma. È questo una specie di corsetto di tela, duro, trapunto, alto, e sostenuto sulle spalle, il quale ricopre e sorregge il seno, ma che ampio e non stretto alla vita, serve talvolta pure ad uso di tasche.

Colla vigilia della festa le processioni dei pellegrini si fanno più frequenti; si ode di continuo il canto [p. 326 modifica]malinconico delle compagnie, le quali arrivano le uno dopo le altre in città, e che per le strade anguste di questa, si portano alla chiesa. Giunti a questa, meta del loro viaggio, paiono tutte quelle persone avere dimenticata ogni stanchezza; le loro fisonomie si animano, e rivelano una vera esaltazione. Si precipitano in ginocchio davanti alla chiesa, reggendosi sul loro bordone con il loro fardello tuttora in testa, cantano ad alta voce le litanie, e si alzano sclamando Viva Maria! Salgono in ginocchio la gradinata della chiesa; e talvolta si scorgono donne le quali baciano i gradini o li leccano colla lingua, spettacolo nauseante, anche ricordando che Carlomagno salì desso pure in quella guisa i gradini di S. Pietro.

Non mancano pure di quando in quando scene di orrore; vidi un giorno un disgraziato, il quale si trascinava sul suolo a quattro gambe come una bestia; lo si portò nella chiesa entro una coperta, mentre urlava come un lupo. Mi dissero fosse difatti affetto da quella malattia, a cui nella campagna di Roma si dà nome di Lupomanaro. Vidi pure un’altra volta una donna, la quale stette a lungo davanti la cancellata della cappella, urlando di continuo, e mi dissero fosse indemoniata.

I pellegrini si trascinano di continuo sulle ginocchia per la navata laterale della chiesa, passando davanti alla cancellata, cantando, pregando, e gridando a tutta gola con entusiasmo Grazie Maria! e questo grido, ripetuto per ore ed ore, da tante e tante voci, non poteva a meno di produrre grande impressione.

Venuta le notte ardono le lampade e le candele; le ombre dei pellegrini disposti in vari gruppi si stendono sul pavimento della chiesa; altre compaiono illuminate dalla luce; altre si confondono in una magica oscurità. Si scorgono belle scene, imperocchè i pellegrini stanchi giacciono distesi in vari gruppi sul nudo pavimento, attorno alle colonne, sui gradini degli altari, davanti alla cappella, e la varietà dei loro costumi, la differenza dell’età, l’espressione delle loro fisionomie, formano un quadro vivente, il quale [p. 327 modifica]punge la curiosità, ed invita alla riflessione. Intanto un monaco agostiniano seduto davanti ad un piccolo tavolo vende le indulgenze, riceve le offerte per le messe, incassando con animo pienamente tranquillo il danaro di tutta quella povera gente.

Davanti alla chiesa stanno altri gruppi sulla nuda terra, ed arrivano di continuo novelle processioni di pellegrini. Si succedono le une alle altre di giorno, di notte, e nella notte particolarmente la quale precede immediatamente la festa, il canto incessante degli inni, che risuona nel silenzio di quelle ore, dà al paese un’impronta tutta mistica, la quale non è senza tristezza; e poco a poco v’invade una profonda malinconia. La potenza però del sentimento religioso che spinge tante migliaia di persone da paesi lontani ad uno stesso punto, ha qualcosa di solenne, di attraente, come qualunque manifestazione armonica dei sentimenti umani, anche nel dolore.

Le case del paese non bastano ad albergare tanta folla di persone. Si coricano nelle strade, nelle piazze, attorno alle fontane; si direbbe essere la fermata notturna di un intero popolo che emigra. Se non che, pare sia legge inesorabile di natura, che tuttavolta havvi radunanza numerosa di persone prenda a piovere; e qui pure tal legge non fallisce. Appena si sono i pellegrini adagiati alla meglio per passare la notte, comincia a piovere. Allora, fuga generale; confusione, grida continue, ognuno cerca ricovero sotto qualche sporgenza di edificio, sotto i tetti delle case. E quanti non sono fra quelli, i quali per miseria o per averne fatto voto, non hanno preso cibo di sorta alla sera. Venuto il mattino della festa, funzione solenne in chiesa, messe in grande quantità. Si vedono gioielli d’oro, statuette di santi, corone di rose: sulla porta del santuario sono esposte a centinaia piccole ampolline della grossezza tutt’al più di un dito, contenente olio delle lampade che ardono davanti all’imagine della Madonna. La gente si affolla a farne acquisto per un baiocco, quale rimedio sicuro contro ogni infermità. Nel pomeriggio havvi musica sulla [p. 328 modifica]piazza; l’inevitabile tombola o lotteria, ed alla sera fuoco d’artificio. Taluni dei pellegrini allora si permettono pure di ballare sotto gli elci che sorgono in vicinanza al santuario; la maggior parte però, non appena hanno compiute le loro preghiere, ed offerti i loro doni, si dispongono a fare processionalmente ritorno alle case loro, cantando e portando seco i mazzi di fiori artificiali, di rose e di garofani, che nei paesi meridionali si sogliono vendere in tutte le occasioni di feste pubbliche. Giunti al punto della strada di dove si vede per l’ultima volta Genazzano, s’inginocchiano appoggiati ai loro bordoni, e pregano silenziosi, collo sguardo rivolto al santuario, quasi volessero prendere congedo da questo, rivelando, particolarmente le donne, una vera commozione. Tal scena all’aria libera, mi parve la più bella di tutte, e mi produsse viva impressione.

Allontaniamoci noi pure a nostra volta da Genazzano, per portarci a Pagliano ed Anagni.

Pagliano, piccola città di un tre mille e settecento abitanti, giace alla distanza di circa sei miglia da Genazzano, sur una collina ombreggiata da boschi e coltivata da vigneti, la quale sorge isolata nella pianura. Vi si arriva per una bella ed ampia strada, la quale attraversa vasti campi seminati a grano turco, ed a poca distanza, a sinistra, si estolle in forma piramidale il monte Serrona, il quale signoreggia tutta quanta la contrada, imprimendole un carattere serio e grandioso.

Più piacevole però ancora, si è il sentiero facilmente praticabile a cavallo, il quale porta in cima alla collina. Sorge colà una piccola fortezza bianca, e fu punto d’importanza, contrastato di frequente nelle guerre della campagna romana, e particolarmente nelle lotte fra i Colonnesi ed i Papi. Ora venne ridotta a bagno od a prigione, e vi stanno un duecento galeotti, sotto la custodia di un distaccamento di cacciatori pontifici. La città, piacevole per la sua amena posizione, si stende più basso, tutto attorno al castello. Le strade, le piazze stesse, vi sono anguste; le [p. 329 modifica]case nere, e di meschino aspetto, ad eccezione di alcune poche che presentano alcuni caratteri di palazzo, e tutto il movimento si riduce ai contadini, i quali partono per i campi, o ne fanno ritorno.

L’unica cosa degna di osservazione si è il palazzo dei Colonna, una linea dei quali prese il nome di Pagliano, e rimase il ramo principale di quella illustre famiglia. È quello un bello edificio, di roccia calcare di colore bruno quadrangolare di forma, composto di due piani soltanto, ma vasto, e collocato all’ingresso della città sul margine della collina, di dove si gode vista di una bellezza inarrivabile. Lo stile, moderno ed elegante, del principio del secolo XVII, indica chiaramente che il palazzo dovette essere ristaurato in quel tempo. Quando si conoscono i personaggi illustri della casa Colonna, quando si sa l’influenza esercitata da quella cospicua famiglia nella storia di Roma, dell’Italia, e del Papato, non si può a meno di visitare Pagliano con viva curiosità. Ne sarà fuori di proposito dare qui brevi cenni della storia dei Colonna, non fosse per altro, che per richiamare alla memoria del lettore i suoi personaggi più famosi.

Non ha guari l’abate Antonio Coppi romano, già conosciuto vantaggiosamente per la sua continuazione degli Annali del Muratori, si rese benemerito della storia di Roma nel medio evo, e di quella della famiglia Colonna, colla pubblicazione delle sue Memorie Colonnesi, opera seria, dettata con giusto criterio, e con somma accuratezza. Dessa porge buoni materiali agli studiosi delle cose storiche, tolti per la maggior parte al rinomato archivio di casa Colonna. Don Vicenzo Colonna pose questo archivio a disposizione dell’abate Coppi, come lo aveva posto di già a quella del conte Litta di Milano, il quale si era occupato desso pure della storia di casa Colonna. Fra i molti archivi di famiglie nobili, i quali abbondono in Italia più che in altre ragioni, quelli in casa Colonna si possono ritenere fra i più pregevoli per la loro importanza storica. Sorta questa famiglia sul bel principio del medio evo, riassume [p. 330 modifica]in sè la storia di Roma, e dell’agro romano nei secoli di mezzo. Torbida, irrequieta, guerriera, avida di conquiste, fu sempre la prima a tener viva l’agitazione nella città. Diventata ricca per beni, per vassalli, non potè però mai, al pari di altre famiglie, di gran lunga più recenti, particolarmente nell’Italia superiore, riuscire a formarsi un principato indipendente, per la ragione che i suoi possedimenti trovavansi negli stati del Papa; quindi guerra continua con questi, e tendenza ad accostarsi al partito degli imperatori germanici. Brillò la casa Colonna assai più in guerra, che nella pace, tuttochè noveri fra suoi membri un Papa, Martino V, che pose fine allo scisma, e ben molti cardinali.

Delle scienze, delle lettere, fu poco benemerita, e sotto questo aspetto, ben più che i Colonna, brillarono alcuni Papi in parte stranieri, e le loro famiglie, delle quali sarebbe inutile qui ricordare i nomi. Pochi nomi di casa Colonna si rannodano al risorgimento delle scienze, delle arti, delle lettere, e non mai potrebbe guari fare menzione d’altri che del vecchio Stefano Colonna, amico di Petrarca, dei figliuoli di quello colti e distinti gentiluomini, e finalmente dell’illustre poetessa Vittoria Colonna, contemporanea di quelle due bellissime donne Giulia Gonzaga e Giovanna di Aragona, le quali erano entrate in quella casa.

L’origine della famiglia Colonna è incerta; pare però si deva ripetere da quei conti di Tuscolo, i quali erano possenti in Roma nel secolo X. Secondo questa asserzione del Muratori, alla quale si accostò pure il Coppi, stipite dei Colonnesi sarebbe stato il margravio Alberico, marito della troppo famosa Marozia, i cui discendenti, in numero di cinque, quasi l’uno dopo l’altro, occuparono la cattedra di S. Pietro. Il nome di Colonna comparve per la prima volta in principio del secolo XII con Pietro Colonna, di cui abbiamo fatta già parola. In quel perioco di tempo, appartenevano di già ai Colonna le città di Monte Porzio, e di Zagarolo. Ora, sia che i Colonnesi discendessero realmente dall’antica famiglia dei conti di Tuscolo, la quale [p. 331 modifica]scomparve allorquando quest’ultima città fu distrutta dai Romani nel 1191, sia altrimenti, è certo però che venivano da quei monti, e che poco a poco si allargarono nella campagna di Roma; i loro dominii si stendevano da Monte Fortino, vale a dire dai Monti Volsci, fino ai monti degli Equi e degli Ernici, giungendo fino nella Sabina. Tenevano la loro sede principale in Palestrina, e ridussero sotto la loro dominazione, tutte le contrade circostanti.

Cominciò nel secolo XIII la loro potenza, e la loro grande influenza in Roma, dove già da tempo possedevano un palazzo, presso la chiesa dei Santi Apostoli, nel rione di Via Lata. I cardinali di questa famiglia sostennero parti importanti nel secolo XIII e la storia degli Hohenstaufen fa menzione frequente dei Colonnesi, quali Ghibellini ardenti in Roma. Ad ognuno poi è nota la parte che ebbero alla caduta di Bonifacio VIII.

Nel secolo XIV, durante l’esilio del Papato in Avignone i Colonnesi lottarono di continuo vivamente per il dominio della città eterna cogli Orsini, non meno potenti, i quali d’allora in poi furono i loro costanti avversari, e nemici dei Papi. Rifulse in allora di molto splendore quale capo della casa il vecchio Stefano Colonna, al quale Petrarca indirizzava i sonetti e le epistole che tutti conoscono. E si fa appunto nel secolo XIV, che si separarono i due rami di Palestrina e di Pagliano.

Nel secolo XV si accrebbe la potenza dei Colonnesi, prima per i grandi favori ottenuti dal re di Napoli Ladislao, e della regina Giovanna II, e finalmente per la elezione a Papa di Ottone Colonna sotto il nome di Martino V. Fin da quell’epoca i Colonna acquistarono molti feudi pure del regno di Napoli, principalmente il ducato dei Marsi (da cui il loro titolo Marsorum Dux) la contea di Celano, ed inoltre quarantaquattro città e castella.

Ai tempi di Sisto IV vennero in guerra colla Santa Sede; Gerolamo Riario, nipote di quel Papa, strinse di assedio Pagliano, però non ebbe tempo ad impadronirsene, essendo venuto repentinamente a morte il Papa. Furono del pari [p. 332 modifica]in guerra con Alessandro VI, e pochi erano gli anni in cui la campagna di Roma non fosse desolata e devastata dalle armi. In questi tempi tutti i Colonnesi più distinti appartennero al ramo di Pagliano. Farò menzione soltanto di Fabricio, primo contestabile della famiglia, e de’ suoi due figliuoli Ascanio, marito di Giovanna di Aragona, e Vittoria, consorte di Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara. Marcantonio figliuolo di Ascanio ottenne rinomanza quale uno dei vincitori della battaglia di Lepanto. Quale parte poi abbia avuto prima di ciò il cardinale Pompeo Colonna alle disgrazie di Clemente VII ed al sacco di Roma, è noto a tutti coloro i quali abbiano cognizione superficiale soltanto della storia d’Italia.

Nel secolo XVI furono i Colonnesi minacciati di gravissimo danno, imperocchè venuti a rottura con Paolo IV, furono da quel Papa, d’irritabilissima natura, privati di tutti i loro beni, siccome era loro avvenuto di già ai tempi di Bonifacio VIII. Tale provvedimento venne decretato colla bolla del 4 Maggio 1556. Il Papa eresse Pagliano in ducato, e ne investì suo nipote Giovanni Caraffa, quello stesso che poco tempo dopo condannava ad arbitraria morte la propria consorte. Marcantonio, capo della casa Colonna, si difese, e si mosse in compagnia del duca d’Alba per riconquistare le città che gli appartenevano, e da ciò ebbe origine la famosa guerra di Paolo IV col re di Spagna, che fu denominata guerra della Campagna. Ebbe termine nel 1557 colla pace di Cave presso Genazzano, conchiusa fra il duca d’Alba ed il cardinale Carlo Caraffa. Se non che Marcantonio riebbe i suoi beni ancora prima della morte di Papa Paolo, e tutti coloro i quali se n’erano impossessati ebbero fine tristissima. Giovanni duca di Pagliano venne decapitato in Roma nella Torre di Nona, ed il cardinale Caraffa fu strangolato in Castel Sant’Angelo.

Marcantonio può a buon diritto essere considerato quale ultimo dei Colonna. Morì in Pagliano nel 1584. Dopo d’allora i tempi cambiarono; i Colonna non fecero più la guerra ai Papi, ed il loro ingente patrimonio si andò assottigliando [p. 333 modifica]per le vendite alle quali furono costretti per i molti debiti di cui erano oberati. La gloria di Lepanto era loro costata cara; don Vincenzo Colonna mi diceva, che Marcantonio aveva contribuito a quella guerra per ben un milione, e che d’allora in poi la sua famiglia non si era più riavuta. Fin dal 1622 vendettero gli antichi possedimenti di Colonna e di Zagarolo, e nel 1630 devettero vendere pure Palestrina, la quale fu acquistata dai Barberini. La famiglia venne mano mano decadendo dalla sua antica grandezza; continua però dessa tuttora a sussistere nel ramo di Pagliano, di cui è capo attualmente Giovanni Andrea marito ad Isabella Alvarez di Toledo. Intanto da Roma si era trasportata a Napoli, dove fissarono i Colonna la loro stanza ordinaria. Il maggior numero dei loro feudi giace parimenti nel regno di Napoli, imperocchè Filippo III Colonna mancato ai vivi nel 1818, ne possedeva colà sessantadue, ventisette negli stati della Chiesa, sei in Sicilia, contenenti in complesso oltre cento quarantanove mille vassalli. I feudi nello stato pontificio sono Anticoli, Arnara, Castro, Cave, Ceccano, Collepardo, Falvaterra, Genazzano, Giuliano, Marino, Marolo, Pagliano, Patrica, Piglio, Poli, Ripi, Rocca di Papa, S. Lorenzo, S. Stefano, Sgurgola, Serrone, Supino, Trivigliano, Sonnino, Vallecorsa e Vico.

I feudi erano maggioreschi e la più gran parte dei beni vincolati a fedecomesso, secondo le leggi locali. Il sistema feudale venne abolito nel regno di Napoli nel 1806, in Sicilia nel 1812 e negli stati della Chiesa il maggior numero dei baroni vi rinunciarono nel 1816, seguendo l’esempio dato dai principi Colonna. In Napoli i fedecomessi vennero aboliti, in parte prima nel 1807 e totalmente poi nel 1809. Ma all’epoca della morte di Filippo III, erano in vigore tuttora in Sicilia, dove non vennero aboliti che il 2 agosto 1818, come sono tuttora in vigore nello stato pontificio. La successione pertanto di lui, venne regolata da diverse leggi, e l’asse ereditario diviso in più parti.

Filippo, discendente in linea retta dall’illustre Marcantonio, non lasciò che tre figliuole, Maria maritata a Giulio [p. 334 modifica]Lante della Rovere, Margherta maritata a Giulio Cesare Rospigliosi, e Vittoria maritata a Francesco Barberini; la famiglia venne continuata da suo fratello Fabricio, avo di Giovanni Andrea Colonna, attuale capo del casato.

Tali sono le notizie che mi parve opportuno dare al lettore, prima di introdurlo nel castello di Pagliano. Se non che questo castello famoso una volta per magnificenza e splendidezza, non è più attualmente, al pari di tanti palazzi e castelli baronali nelle città e nelle campagne, che una grande casa deserta e silenziosa, nella quale un custode brontolone, additandovi le nude pareti, lamenta siano scomparse le belle armerie, trofei di tante battaglie, e siano stati alienati o trasportati altrove, o andati dispersi, i quadri preziosi. Non è però senza soddisfazione che si visitano quei castelli antichi e disabitati, dove gli alberi genealogici anneriti dalla polvere e dal fumo, stanno appesi tuttora alle pareti, quasi piante diseccate, e dove le tapezzerie pendono dalle pareti stesse non meno lacere dei diplomi che il tempo ed i vassalli ridussero in pezzi. Vi appaiono quasi spettri i ritratti che tuttora vi si scorgono di lunga serie di antenati, anneriti dal tempo nelle loro massiccie cornici dorate, e traggono a sè lo sguardo con quella potenza secreta, tutta propria del passato. Vi sono ritratti di guerrieri, di cardinali, di belle gentildonne, per le quali l’acconciatura alla Maria Stuarda, indica l’epoca in cui vissero. Per dir vero non ho trovato in Pagliano che una trentina di ritratti, i quali mi comparvero tanto più misteriosi, per non avere saputo il castellano indicarmi il nome di veruno. La sua testa era più vuota, più disabitata del palazzo de’ suoi padroni; non sapeva propriamente nulla di nulla. Quanto non avrei desiderato però, sapere il nome di quella bellissimà donna, pallida, cogli occhi neri, abbigliata di velluto rosso, annerito dal tempo. Non cercavo che un uomo. Era dessa Felicita Orsini o Lucrezia Tomacelli, o Diana Paleotti? Oppure era dessa quell’infelice duchessa di Pagliano, il cui tragico fine formò uno dei romanzi più singolari del suo tempo? Dessa però non fu [p. 335 modifica]uccisa in questo palazzo, ma in un altro castello di suo marito.

Non manca nella piccola galleria il ritratto di un astrologo, uomo di mezzana età, con lunga barba bianca, ed ampia zimarra di velluto, figura caratteristica, e quasi demone famigliare, che si ricerca in ogni castello antico. Quella foggia di abbigliamento corrisponde stupendamente alla serietà di quelle residenze solenni del medio evo, nelle quali l’abito nero moderno alla francese, ed i guanti gialli fanno figura, per dir vero, troppo meschina e ridicola. L’astrologo di Pagliano, di cui avevamo davanti agli occhi il ritratto, era, a quanto accennava l’iscrizione, Nicolaus Colinus de Paliano, astrologus insignis.

In altre stanze del castello stanno appese alle pareti le viste, e le piante di parecchie grandi città d’Europa, quali Madrid, Parigi, Venezia, Genova.

Le sale sono di mediocre ampiezza, e si possono dire molto modeste a paragone di quelle del palazzo Colonna in Roma.

Sorge in vicinanza al castello la chiesa gentilizia di S. Andrea, dove stanno le tombe della famiglia, edificio di buon gusto, di mediocre ampiezza, riccamente decorato all’interno. Stanno in essa le tombe dei Colonna del ramo di Pagliano. Filippo I fu quello che sul principio del secolo XVII radunò ivi le ceneri de’ suoi antenati, le quali erano dispersi in vari siti, e che fece erigere la cripta sotterranea, per sè e per i membri di sua famiglia. Allorquando scesi colà, provai stupore al trovarla priva di ogni ornamento; le pareti di quella sala, di forma circolare, abbastanza ampia, sono affatto nude, non vi si scorge nè un sarcofago, nè un monumento in marmo, e non vi si leggono tutto attorno che le iscrizioni di caratteri uniformi, ed appartenenti tutti al secolo XVII. Soltanto nel coro della chiesa superiore stanno alcune tombe, e vi si leggono i nomi di Marcantonio, di Felicia Orsini sua consorte, di Ascanio e di Giovanna d’Aragona loro figliuolo e nuora, di Fabrizio e di Agnese di Montefeltro suoi pronipoti. Non [p. 336 modifica]ho potuto sapere se la più bella donna d’Italia, Giulia Gonzaga, consorte di Vespasiano Colonna si trovasse quivi come parimenti non so dove sia stata sepolta la illustre poetessa Vittoria, morta nel febbraio del 1547. Nel suo testamento, il quale per quanto mi risulta non fu mai pubblicato, ordinò di essere tumulata nel monastero in cui sarebbe venuta a morire, come parimenti fece un legato per le monache di S. Anna dei Falegnami, le quali l’avevano assistita durante la sua ultima malattia, ed il testamento stesso fu dettato al letto della morente il 15 febbraio, nell’antico palazzo dei Cesarini, presso Argentina. È quindi molto probabile sia stata tumulata nel vicino monastero di S. Anna.

IV.

Da Pagliano non havvi strada carrozzabile la quale porti ad Anagni, distante sole sei miglia, imperocchè non avendo questa città che una sola porta, posta di fronte a Genazzano, è di mestieri a chi arriva dal lato opposto fare il giro delle antiche mura, le quali risalgono al medio evo; vi si può però arrivare per un sentiero praticabile a cavallo, ma ripido e malagevole, per essere aperto nella viva roccia calcare, che lo rende sommamente sdrucciolo.

Feci questa strada a cavallo, in compagnia di un campagnuolo che mi ero tolto per guida, in una giornata stupenda di settembre che ricorderò sempre con piacere, fra le tante mie peregrinazioni, per la Saturnia tellus, tanto era bella la vista di quelle solitarie contrade e di quei monti maestosi. La collina di Pagliano scende dolcemente verso il fiume mentre da tutte le altri parti è ripida. È coltivata tutta a viti nelle sue pendici, e sulla vetta per la quale camminavamo, crescono in abbondanza il lentisco, la fragola selvatica, ed il mirto, la qual cosa mi fece senso, imperocchè quest’ultima pianta preferisce le coste, ed i siti dove spira l’aria marina. La collina è popolata di coloni, uomini rozzi e quasi selvaggi, i quali abitano [p. 337 modifica]capanne di paglia di forma conica, quali se ne scorgono in tutta la campagna di Roma. La strada corre fra mezzo a quelle abitazioni di foggia primitiva, finchè giunge ad un monastero, che sorge solitario in una valle, fra gli elci, i castagni, e gli olmi. Di là si attraversa una fitta selva, la quale occupa tutta la collina, per entro alla quale non havvi aperto che un ristretto ed angusto sentiero. La discesa è ripida per modo, che si dura fatica a stare a cavallo. Ultimata questa, si arriva in una pianura romantica la quale si stende fra le due colline su cui sorgono Pagliano ed Anagni. Giacciono qua e là disperse alcune fattorie annerite dal tempo, e parecchi molini sulla sponda di un rivo che spumeggia. Stanno pascolando nella campagna mandre di vacche e di pecore, e si può quivi vedere nello stato suo naturale il pifferaro della notte di Natale in Roma, ed udire le armonie strane della cornamusa o della piva, mentre quegli segue passo a passo il suo gregge, il quale si agita e si muove di continuo in cerca di pastura, che la terra fertile fornisce abbondantissima.

Verso il fine di settembre i branchi di pecore scendono da tutti i monti che qui circondano, e passo a passo si allargano nella pianura fin presso le mura di Roma, dove passano l’inverno. Nel mio ritorno m’imbattei un uno di questi greggi di pecore, il quale era appunto diretto verso Roma. Era cotanto numeroso, che ingombrava alla lettera tutta quanta la strada, custodito e tenuto in ordine da grossi cani lanuti, e da pastori a piedi ed a cavallo. Stimai il numero di quelle pecore di tre mille all’incirca, ma un pastore al quale ne feci domanda, mi rispose essere oltre cinque mille, e che scese dalla Serra, si dirigevano verso Roma. Non si udivano che belati di pecore e di agnelli come avviene alle porte di Roma nei mesi di ottobre e di novembre, in guisa che pareva vivere fra mezzo ad un grandioso idillio classico.

Intanto siamo giunti in vicinanza di Anagni e ci troviamo di già ai piedi della bella collina, su cui sorge l’antica metropoli degli Ernici. [p. 338 modifica]

L’accesso è ameno, imperocchè la strada maestra per Roma, nella quale sbocca il nostro sentiero, corre in una verde pianura; alla nostra sinistra sorge una chiesa, moderna bensì, ma di buona architettura, la quale fa pensare alle relazioni di Anagni con Roma e con i Papi. Si apre davanti noi la porta della città, alta e di bello aspetto collo stemma in cima della città stessa, un leone sul cui dorso un’acquila pianta suoi artigli.

Anagni mi sorprese; abituato alle strade strette delle città della campagna di Roma, alle loro case meschine, trovai quivi una lunga fila di abitazioni di bello aspetto, alcuni palazzi, che dallo stile della loro architettura si scorgono salire al secolo XVII, ed i quali imprimono alla città un certo carattere di ben essere. L’aspetto moderno di questa antica residenza dei Papi mi sorprendeva, e non me lo potevo spiegare, finchè procuratami una storia di Anagni la cosa mi venne da questa chiarita.

Arrivai sulla piazza della città la quale ha forma di un lungo rettangolo. Dei due lati lunghi, uno è chiuso da case di semplice aspetto, i due lati brevi sono occupati da palazzi, e lungo il quarto corre un parapetto in pietra. Sorge questo sul margine della collina, e di là si scorge la via latina che partendo da Valmontone si stende in larghe curve nella pianura del Sacco. Dessa non tocca Anagni, ma girando al piede della sua collina, e passando per Ferentino, e Frosinone, giunge sulle sponde del Liri, al di là di Ceprano. La vista da quella piazza è cotanto stupenda, che colpisce anche chi abbia visitato minutamente tutta Italia, dalle Alpi, al mare Jonio ed al mare Africano. Vi si scorge tutta la catena dei monti Volsci, illuminati dal sole in guisa che si possono contare le finestre dei paesi che vi stanno di fronte. Traggono a sè lo sguardo in ogni punto le città volsce, imperocchè si seguono le une alle altre lungo i monti Montefortino, l’illustre Segni, Gavignano, Gorza, Scurgola; più in là Morolo, Supino, Patrica, a tergo della quale sorge alto a foggia di piramide di colore azzurro e bello il monte [p. 339 modifica]Cacume; al di là altre cime di monti, ed altre città; Ferentino, Frosinone di cui si vede ancora il castello, Arnara, Posi, Ceccano, ed altre ancora che l’occhio abbraccia con un solo sguardo. Verso Roma si stende l’ampia pianura, circoscritta dai monti di Palestrina, visibile dessa pure in lontananza. Si scorgono pure i monti latini, e si può dire che da questo punto, lo sguardo si stenda sulla più gran parte dell’antico Lazio.

Ben diverso è l’aspetto del paesaggio, se si guarda al lato opposto alla piazza, ed allora ben si comprende la giacitura di Anagni. La collina sul margine della quale trovasi fabbricata la città, appartiene alla Serra, dalla quale si distacca a foggia di curva di falce. La roccia è nuda, bruna, rapida, e dalla città si sale in una regione selvaggia, dove trovasi il villaggio di Monte Acuto, specie di nido d’acquile, nero e bruno, il quale toglie il suo nome della vicina altura.

Nell’osservare questa città, si comprende facilmente come Anagni sia stato nel medio evo asilo, e sito di villeggiatura di parecchi Papi, di preferenza ad altre città all’aperta campagna, forte qual’è per la sua posizione e per le sue mura, e pregevole per aria pura, e salubre.

Del resto non sono che i Papi del medio evo, i quali raccomandavano Anagni allo studioso della storia d’Italia. Imperocchè, sebbene capitale degli Ernici, forte tribù del Lazio, ottenne Anagni poca rinomanza al tempo dei Romani, e dopo essere stata conquistata da questi, rimase puramente città soggiogata dell’agro romano. Alcune poche rovine ricordano ancora oggidì l’epoca romana. Si trovano qua e là avanzi di mura d’opera romana, ed alla parte settentrionale della città, una serie di archi colossali i quali si appoggiano alla collina che scende ripida, quasi a picco. L’aspetto di questi archi è imponente, ma non si può ben comprendere, quale fosse la loro destinazione. Non esistono traccie dell’antica rocca, la quale probabilmente giaceva in quel punto della città, dove attualmente sorge il duomo. Neppure esistono in Anagni mura ciclopliche, quali si vedono a Segni, ed a Ferentino. [p. 340 modifica]

Anagni non diventò città importante che sul finire del secolo XIII, dopo avere avuta la sorte non comune di avere visto in un secolo quattro de’ suoi cittadini, innalzati alla cattedra di S. Pietro. Il primo fu Innocenzo III Conti (1198-1216), quindi Gregorio IX Conti (1227-1241), Alessandro IV Conti (1259-1261), e finalmente Bonifacio VIII Gaetani (1294-1303). Ma già prima di questi, la città era stata prediletta dei Papi, imperocchè fin da quando i romani si erano ordinati a governo repubblicano, parecchi altri Papi, avevano cercato rifugio nelle mura di Anagni. Ivi era morto Adriano IV Breakspeare nel 1159, l’unico Inglese che abbia portata la tiara, sottraendosi alle istanze stringenti del senato romano per lo ristabilimento della repubblica; ivi pure si erano rifugiati l’illustre suo successore Alessandro III ed il successore famoso parimenti di questi Lucio III.

La città trasse molto guadagno dal vantaggio di aver avuto Papi ben quattro suoi cittadini. Si andò ornando di molti notevoli edifici, e palazzi di stile gotico-romano, il quale prevalse in molte parti d’Italia fino al secolo XV, e taluni se ne trovano pure in Genazzano stesso. Pochi però ne rimangono in Anagni, ad eccezione del duomo, dello stupendo palazzo civico, e della piccola casa Gigli.

Il palazzo civico è notevole per i suoi porticati arditi, sovra i quali posa un unico piano. La strada passa sotto quelli come per una porta, e se ne valgono i merciaiuoli per disporvi i loro banchi. Sulla facciata stanno scolpiti in pietra stemmi del medio evo, e fra questi il busto di un capitano della città, della casa della Rovere, appartenente al secolo XV. La parte posteriore del palazzo è molto rimarchevole per gli ornati architettonici delle sue cornici, e per le sue finestre con piccole colonne di genere pretto moresco, quali si trovano pure a Ravello presso Amalfi.

Il palazzo di città andò immuni della rovina generale che colse in Anagni pressochè tutte le costruzioni del medio evo, e rimane colla casa Gigli, ricordo del passato. Questo piccolo edificio, per certo del secolo XIV, mi ricordò [p. 341 modifica]le case di Palermo. È desso di forma quadrata, con tetto a foggia di terrazzo, con un portico sotto al quale trovasi una scala esterna in pietra, la quale porta nell’interno della casa. Il portico si compone di due arcate, sostenute nel punto in cui si riuniscono, da una sola colonna. L’architettura di questo è ripetuta nell’unica finestra, parimenti ad arco tondo, con una colonna nel mezzo. Sugli archi corre una cornice a piccoli archi, semplice ed armonica, e quando si aggiunga al tutto il terrazzo del tutto ripieno di vasi di fiori, si avrà idea di un piccolo edificio grazioso, e di carattere affatto meridionale.

Dopo di avere considerata quella casa, mi posi a sedere sopra un banco di pietra che vi stava di fronte, ed a disegnarne uno schizzo nel mio album. Fui tosto attorniato da un certo numero di cittadini, e nello scorgerli soddisfatti del mio proposito, mi venne fatto di comprendere che il loro amor proprio municipale trovavasi lusingato da quella memoria di tempi migliori. Si lagnarono amaramente di quei quattro Papi nati nelle loro mura, i quali così poco in generale fecero per la loro patria, ed in particolare non posero pensiero a provvedere la città di un acquedotto. E fu questo per dir vero una grave ommissione, imperocchè gli Agnanesi non hanno altr’acqua da bere che quella di cisterna, la quale mi parve guasta, e che trovai di pessimo gusto; per altra parte un acquedotto sarebbe stato spesa rilevante, imperocchè sarebbe stato d’uopo derivare l’acqua dal Monte Acuto, facendola attraversare una valle profonda. Se non che, dicevano quei cittadini, essere vero sarebbe stata grave la spesa, ma che ben quattro erano stati i Papi, e che se qualche cosa per uomo avessero voluto fare, l’opera si sarebbe compiuta.

Ora condurrò il mio lettore al duomo. Sorge questo sul punto più elevato della collina, presso la porta di Ferentino, ma trovasi attorniato per modo da altre costruzioni, che la sua facciata ed il suo campanile isolato, producono pochissimo effetto. Questa chiesa è una delle più antiche del Lazio, e più antica sovratutto, che la [p. 342 modifica]maggiore parte delle cattedrali degli stati della Chiesa, in quanto chè risale ai tempi della prima crociata. La fece fabbricare nell’anno 1074 sui disegni di un De-Magistris di Anagni, Pietro vescovo della città, della stirpe dei principi Longobardi di Salerno, il quale prese parte alla prima crociata in qualità di compagno d’armi di Boemondo principe di Taranto.

Sulla porta maggiore del duomo si legge l’iscrizione seguente, scolpita nella pietra;

Quisquis ad hoc templum tendis venerabile gressum.
Mox conditorem cunctorum nosce bonorum
Condidit hoc Petrus magno cognomine Præsul
Quem genuit tellus nobis dedit alta Salernus
Sic misere tibi superi patris unice filius.

La forma delle lettere dell’iscrizione appare moderna, e probabilmente del secolo XVI ma lo spirito e le espressioni di essa appartengono al tempo in cui venne costrutta la chiesa. Sebbene rinnovata questa varie volte dai vescovi della città, e dai Papi, ha serbato tuttavia il suo carattere originario gotico-romano. La facciata è di architettura rozza, e di carattere pesante. Si compone di un frontone tozzo ornato di una semplice cornice. Nel centro di queste trovasi aperta una finestra ad arco tondo, nuda, senza ornamenti ed al disotto di questa un’altra di forma quadrata, più ampia, la quale venne praticata evidentemente in tempi posteriori. L’unica porta ha una cornice senza gusto, formata di vari pezzi di pietra, con teste di leoni e di tori, di scultura del medio evo. Sorgono senza scopo riconoscibile, e senza simetria ad un lato solo della porta due pilastri, aderenti al muro e sormontati da capitelli. Trovasi poi sopra la porta un arco di architettura romana in pietra, ornato di pochi rabeschi. Tutte le costruzioni sono di roccia calcare del luogo, lavorata grossolanamente. Si scorge facilmente che la facciata conserva in generale la sua forma primitiva, ma che andò soggetta più tardi [p. 343 modifica]ad una ristaurazione praticata in fretta, e per pura necessità.

All’interno il duomo è bello ed ampio, non già a forma basilica, ma bensì in quello stilo gotico misto, di cui porge esempio in Roma S. Maria sopra Minerva. Ha tre grandi navate, ed un coro a vôlta alta in forma di croce. Il pavimento di lavoro bizzaro, fu eseguito nel 1226 dal romano Cosmato, a spese del vescovo Alberto e del canonico Rinaldo Conti, che occupò più tardi la sede pontificia, sotto il nome di Alessandro IV. Dal coro si scende nella cripta sotterranea, la quale è bellissima, e meriterebbe una accurata descrizione. Consiste in una vôlta di mediocre altezza, la quale riposa sopra un ordine di colonne. Tanto la vôlta quanto il suolo sono lavorati a mosaico di vari colori, mentre le pareti tutte quante sono coperte di pitture a fresco antichissime, le quali pur troppo hanno sofferto assai, ed in alcuni punti sono a mala pena più visibili. È facile però ancora riconoscere che queste pitture appartengono ad epoche diverse, imperocchè mentre talune di queste composizioni bibliche sono dello stile bizantino il più rozzo, altre sono di gusto migliore, e non mancano teste di bella e graziosa espressione, particolarmente in una composizione le quale rappresenta l’adorazione della Croce, e che sembra appartenere al tempo di Cimabue.

Trovasi in questa chiesa sotterranea la tomba di S. Magno, patrono del Duomo; ed una antica iscrizione accenna, che nel 1231 lo stesso maestro Cosma fu incaricato di rinnovare la tomba del martire. Si scorge pertanto che quella antica famiglia di artisti la quale lasciò tante sue opere in Roma, recavasi pure a lavorare nella città dell’agro romano.

Nella cappella pure del coro, nella navata posteriore, esiste un monumento di quella famiglia di scultori, vale a dire un antico tabernacolo gotico sopra un sarcofago di marmo, il quale a prima vista tosto mi ricordò la tomba del vescovo Consalvo, eretta nel 1298 in [p. 344 modifica]S. Maria Maggiore, da Giovanni figliuolo di Cosma. Non havvi dubbio che anche questo tabernacolo è opera sua, ed anteriore unicamente di quattro anni, imperocchè l’iscrizione dice:

In isto tumulo requiescunt ossa D. Petri Episcopi
Qui nutrivit D. Bonifacium pap. VIII. Item subtus
Ossa D. Goffredi Caietani comitis Casertani
Item ossa D. Jacobi Caietani hic recondita Kal. Augusti
Anno D. MCCXCIIII.

Sul sarcofago semplicissimo che racchiude le ossa di quei membri della famiglia Gaetani, si scorgono le armi di essa però senza l’aquila, imperochè lo stemma dei Gaetani si compone ordinariamente di uno scudo bipartito in due campi, l’uno dei quali occupato da due strisce serpeggianti, l’altro da un’aquila.

Trovasi pure nella stessa cappella del coro un’altra antichità meritevole di attenzione; vale a dire un’antica e bella immagine della madonna, sotto la quale si legge la seguente iscrizione:

Hoc opus fieri fecit Don Raynald Presbiter
Et Clericus istius Ecclesiæ. Anno Dni
MCCCXXII. mense Martii.

Fu pertanto un dono dello stesso Conti, che fu più tardi Alessandro IV. Del resto pochi ricordi di quei Papi, cittadini di Anagni, rimangono nel duomo di questa città. Appartengono loro gli abiti sacerdotali d’Innocenzo III e di Bonifacio VIII. Il paramentale dell’illustre Innocenzo, è di una bellezza, particolare in stoffa di colore azzurro, riccamente ricamato in oro, ed ornato di pitture rappresentati argomenti tolti dal nuovo testamento, di tale bellezza, che si direbbero appartenere alla scuola di Giotto o del beato Angelico, anzichè ad un epoca anteriore. Di lavoro assai meno fino si è il piviale pesante di [p. 345 modifica]Bonifacio VIII, il quale non porge che ricami, rappresentanti aquile e leoni.

Oltre questi paramentali, il sagrestano mi faceva vedere pure mitre vescovili, e bastoni pastorali, i quali per le loro forme peregrine e fuori d’uso, meritano fissare l’attenzione degli antiquari.

Cercai invano busti o ritratti di quei Papi, non ve ne sono; esiste unicamente in una specie di nicchia, o tabernacolo di forma curiosa ed antica, sulle mura esterne della chiesa, e sotto il cornicione del tetto, la statua in marmo di un Papa. Mi si disse che quella statua, lavoro grossolano e di goffa espressione, rappresentasse Bonifacio VIII.

In tempi posteriori si collocarono nel coro del duomo i ritratti dei quattro Papi, dipinti su specie di stendardi in tela, i quali ora si trovano appesi liberi all’aria nelle due gallerie del coro stesso, idea bizzarra la quale risale al secolo XVII o forz’anche soltanto a quello XVIII.

Prima di lasciare il duomo, voglio ricordare alcune scene che a questo si riferiscono, le quali porgono grande interesse a noi Tedeschi, siccome quelle che si collegano intimamente alla nostra storia, imperocchè molte furono le relazioni della cattedrale di Anagni colla stirpe degli Hohenstaufen. Si fu davanti a questo altare che Alessandro III nel giovedì santo del 1160 maledì solennemente il grande imperatore Barbarossa; ivi diede Innocenzo III lettura della bolla la quale scomunicava Federico II. Ivi finalmente Alessandro IV maledisse il giovane nostro eroe Manfredo. Scene barbare o selvaggie del medio evo, scomparse da gran tempo, al pari dello splendore del nostro grande impero romano, e del prestigio del Papato stesso.

L’ultimo Papa nativo di Anagni si fu Bonifacio VIII della famiglia Gaetani, e fu quello che procurò rinomanza maggiore alla città. Chi non conosce la sua prigionia nel proprio palazzo, la sua liberazione, ed il tragico fine che gli tenne immediatamente dietro? Stimiamo non essere fuori di proposito ricordare qui il tutto, in breve. [p. 346 modifica]

Nel 1294 la sorte aveva tolto l’eremita Pietro da Morone dalla profonda sua solitudine del monte Maiella, per innalzarlo sulla cattedra di S. Pietro; il solitario debole ed incapace aveva fissata la sua stanza in Napoli, dove era stromento cieco nelle mani di Carlo re; intanto ambiva la tiara pontificia, l’ambizioso ed energico cardinale Benedetto Gaetani da Anagni. Pietro, o per parlare con più esattezza, Celestino V, si decise ad abdicare, e così fece cinque mesi appena dopo la sua elezione, rientrando tosto nella sua solitudine. Se non che, appena il Gaetani, che tolse nome di Bonifacio VIII fu eletto Papa, fece prendere il fuggitivo e lo portò nel suo palazzo in Anagni, e da questo poco dopo lo rilegò nel vicino borgo di Fumone, dove il povero eremita cessò di vivere.

Bonifacio poi non aveva punto dimenticato che i due cardinali della casa Colonna, Jacopo e Pietro, avevano contristata vivamente la sua elezione, e si decise di umiliare ed indebolire questa famiglia potente. Venne apertamente a rottura con essa nel 1297, per motivi o pretesti che non monta qui riferire. Scomunicò per la prima volta i due Colonna nel 1297; poco tempo dopo rinnovò la bolla, e confiscò tutti i loro beni, città, e castella. Tenne dietro a ciò una decisa crociata, o guerra del Papa, contro i Colonna. Questi avendo considerato, con ragione, la distruzione di Palestina quale violazione per parte del Papa del trattato in forza del quale la città si era arresa a discrezione, si decisero fuggire per sottrarsi alla collera del vendicativo Pontefice. I due cardinali, scomunicati e privi della loro dignità, si ritirarono a Rieti, e Sciarra Colonna, capo in quel tempo della famiglia, si ricoverò in Francia dove incontrò favorevole accoglienza presso Filippo il Bello, il quale era in guerra con Papa Bonifacio che lo aveva scomunicato, e dichiarato decaduto dal trono. Il re e Sciarra formarono il disegno di sorprendere Bonifacio nel suo palazzo di Anagni, dove si trovava nella state del 1303, e di farlo prigioniero. A questo fine Sciarra si unì con Guglielmo di Nogaret, il quale godeva di tutta la fiducia del [p. 347 modifica]re; radunarono in silenzio un trecento cavalli e maggior numero di fanti, e dopo che Nogaret ebbe presa posizione a Ferentino con alcune truppe, per essere pronte ad ogni evento, Sciarra nella notte del 7 settembre uscì fuori dal vicino borgo di Scurgola. I Ghibellini di Anagni gli aprirono le porte; desso assaltò il palazzo Gaetani, e penetrò negli appartamenti del Papa. È noto come Bonifacio abbia opposta a quell’atto violento una dignità eroica. Rimase per tre giorni prigioniero di Sciarra e di Nogaret, i quali lo schernivano, minacciandolo di balzarlo dal soglio pontificio, nella stessa guisa che desso aveva costretto a scenderne l’infelice Celestino. La soldatesca straniera saccheggiò il palazzo, portando via tutto quanto vi era di meglio. Intanto il cardinale Luca del Fiesco andava eccitando gli Anagnesi a liberare il Papa, loro concittadino, dalle mani di quei masnadieri. Il popolo diede di piglio alle armi, e li cacciò dal palazzo. Il Papa liberato fu portato a Roma, dove l’11 ottobre di quello stesso anno «per il dolore di quella ingiuria, rabbioso morì» Sono parole di Nicolò Macchiavelli.

I cardinali suoi concittadini, membri del sacro collegio, avevano tradito l’infelice Bonifacio. Allora quando Benedetto XI successore di lui, pubblicò la bolla contro quelli che avevano perseguitato Bonifacio, prese a sclamare «La stessa sua patria non lo protesse; lo stesso suo palazzo non valse a dargli asilo; la più cospicua dignità sacerdotale venne insultata; la chiesa ed il suo sposo furono avvinti di catene! Quale sarà quindinnanzi il sito atto ad offrire sicurezza! Dove mai si potrà trovare asilo dopo che lo stesso romano Pontefice venne offeso! O empio misfatto, sacrilegio inaudito! Guai a te Anagni, che tollerasti una tanta onta nelle tue mura! Non cadano sopra te più nè pioggia nè rugiada; le ottengano gli altri monti, ma te lascino in disparte, perchè fosti spettatrice di quanto avresti potuto impedire, lasciasti cadere il forte, e tollerasti gli fosse fatta violenza!» Tali sono le parole che si leggano nella bolla Flagitiosum scelus. [p. 348 modifica]

La maledizione biblica di Benedetto XI non pesa oggi più sopra la città di Anagni; ma nell’anno 1616 pareva che gli abitanti di essa vivessero tuttora sotta la influenza di quella. Allorquando in quell’epoca il noto viaggiatore Leandro di Bologna visitò Anagni, non trovò che un mucchio di capanne di paglia, ed il palazzo Gaetani desso pure in rovine. La terribile guerra della Campagna, condotta dal duca d’Alba, aveva devastato tutta la contrada, ed i poveri Anagnesi si lagnarono al bolognese, che dal giorno in cui l’altiero Bonifacio era stato tradito nelle loro mura, fossero andati soggetti di continuo ad ogni specie di calamità.

Domandai in Anagni dove fosse stato il teatro di quella scena singolare e barbara, la quale pose fine con Bonifacio VIII alla potenza politica del Papato fondata da Gregorio VII; se non che l’antico palazzo Gaetani venne distrutto da gran tempo, e quello al quale ora danno gli Anagnesi quel nome, è un bello edicio moderno appartenente al marchese Traetti. Sorge però nell’area stessa dell’antico palazzo Gaetani, sul margine della collina, non lontano del duomo, con il quale mi si disse avesse l’antico palazzo comunicazione diretta. Mi portarono nella corte del palazzo dove esistono ancora antiche mura della residenza di Bonifacio VIII e finalmente mi si fecero vedere a tergo del palazzo attuale le rovine imponenti di una antica loggia, della quale sussistono tuttora tre archi grandiosi, i quali sostengono la collina. Sorge poi ai piedi di questa una grande muraglia di antica costruzione, e mi fu detto fosse avanzo delle stalle di Papa Bonifacio; e per quanto scarse siano in complesso tutte quelle varie rovine, bastano però a ricordare il fatto importante che qui ebbe luogo. Se non che, anche in questa occasione ebbi a provare essere maggiore l’influenza delle cose presenti, che non quella delle memorie del passato; imperocchè dimenticai affatto Bonifacio VIII nel contemplare la stupenda vista della contrada severa e solitaria, che mi stava davanti agli occhi. Si scorge una regione sassosa di forme [p. 349 modifica]serie, nella quale sorge un tempio dorico, di costruzione moderna, il quale segna il sito del campo santo dei tranquilli abitanti di Anagni d’oggidì. Più in là s’erge il bruno Monte Acuto. Salendo per pochi passi sulla collina, si scorge alla distanza di sei miglia una rupe grigia, arida sulla quale, quasi in abbandono, giace una città nera e cupa. Quella è Fumone, mi disse una donna sopraggiunta colà, e soggiunse con aria di disprezzo. «Quando Fumone fuma, la campagna trema.» Non comprendendo quel detto ne richiesi il senso, ma la donna non mi seppe dire altro se non che «osservate come è misero; colà gli uomini sono sempre affamati!» Quello era dunque Fumone dove morì Celestino V, l’unico Papa il quale abbia abdicato, e la cui istoria fu romantica quanto il medio evo stesso, in cui si svolse.

E qui debbo fare menzione di un incidente ridicolo. Avevo cavato fuori di tasca un cannocchiale guernito in metallo lucido, per osservare Fumone, allorquando per caso lo diressi sopra un giovanetto il quale stava a poca distanza sulla strada. Il giovane gettò un grido di spavento, e si diede tosto a fuggire, e tosto sboccarono fuori uomini, donne, ragazzi, a domandare che cosa mai fosse stato, e mi sovvenne allora dell’altra ridicola scena di Genazzano, quando ero stato tolto per un mago, perchè stavo leggendo in un vignetto.

Intanto abbiamo oramai visto e fatta parola di quanto vi dia di più notevole in Anagni, e ne possiamo partire. La storia di esso, cessa dall’essere interessante con Bonifacio VIII. Dopo d’allora non si parlò più che due volte di Anagni, nel 1378, allorquando dopo l’elezione di Urbano VI, i cardinali francesi, avversari del partito romano, colà cercarono rifugio per eleggervi un antipapa, dando per tal guisa origine ad uno scisma, e nel 1556 allorquando i soldati del duca d’Alba conquistarono la città e la distrussero. Fu ridotta pressochè in rovina, la quale cosa è provata dal suo aspetto tutto moderno. Oggi la è città povera, tranquilla, solitaria, unicamente di campagna, città [p. 350 modifica]morta, senza industria, senza commercio per i suoi sei mille abitanti altieri tuttora dei loro ricordi, dei loro quattro Papi, e delle loro famiglie patrizie. Sono queste oggidì tuttora in numero di dodici; e sussistono tuttora le più antiche e le più illustri, quelle dei Gaetani e dei Conti, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Nuove famiglie si unirono a queste, fra le quali mi è grato fare menzione del casato degli Ambrogi.






Fine del Vol. I.