Ricordi storici e pittorici d'Italia/Le sponde del Liri

Le sponde del Liri

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I monti Volsci Avignone
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LE SPONDE DEL LIRI

1859.

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I.

Una gita tranquilla ai confini del paese latino, da Veroli a Casamari, ad Isola, Sora, Arpino, Arce, Acquino, S. Germano, e Montecassino, si è quella alla quale voglio invitare il mio lettore, mentre l’Italia centrale ribocca di armati, mentre le Romagne hanno scosso il giogo pontificio, mentre tutti gli animi sono preoccupati dalla quistione romana.

Questa regione è la continuazione del Lazio; il Liri divide naturalmente la Compagnia in due parti; quella romana è attraversata dal Sacco il quale si getta appunto nel Liri al disotto di Ceprano, ed è questa propriamente la campagna romana. L'altra metà, stupenda pianura fra l’Apennino ed i monti volsci, nella quale corre il Liri è la Campania napoletana. Dessa si stende per vero dire fino a Capua, ma i monti si ripiegano di fronte a S. Germano, e la separano dalla Campania felice. I monaci di Montecassino mi fecero osservare un giorno su quei monti il castello di S. Pietro in Fine, e mi vollero spiegare quel nome quasi in fine Latii, se non che l’erudito D. Sebastiano Calefati mi osservò che in fine poteva anche significare al confine della giurisdizione della famosa badia. Non entriamo però in una discussione geografica; scendiamo tranquillamente da Veroli, per arrivare sulle sponde dal Liri, in una bella giornata di ottobre, mentre un sole tepido splende sui campi, tingendo de’ più bei colori dell’autunno i monti, mentre si stende davanti ai nostri [p. 78 modifica]occhi la classica Campania attraversata dal Liri, il cui nome poetico risveglia le idee le più graziose, le più soavi.

Nell’uscire dalle porte dell’alta città di Veroli, e nel camminare lungo le sue mura rovinate per metà, prima di scendere nella pianura, ebbi per la prima volta la vista della regione che intendevo percorrere. Ma stavano a diritta i Campi di Ceprano, il suo ponte dove Manfredo fu tradito, e più in là la Catena azzurra dei monti volsci; a sinistra i monti maestosi di Sora, i quali appongiandosi agli Abruzzi, piegano verso il Miri. Ma quella che fissò in modo particolare il mio sguardo fu la vetta di un monte, per dir meglio la costa bianca che si scorgeva in cima a quello. Era dessa Arpino, la patria di Mario, e di Cicerone. Produce grande impressione il vedere per la prima volta, e per di più in modo confuso ed a distanza una località la quale segna due grandi epoche, e di cui vi è noto il nome fin dall’infanzia. Ricorrono alla memoria infiniti particolari dell’età giovanile, ed alla vista di Arpino, il mio pensiero si riportava ai banchi della scuola, su cui ci veniva spiegate Cicerone, allo stesso volume stracciato e stampato su carlaccia di colore bigio delle sue orazioni allo altisonante ed indimenticabile Quousque tandem Catilina! Ed ora mi trovo precisamente in vista della patria di Cicerone, di quello Arpino, che a quell’epoca non avrei mai sperato, o creduto di dover vedere un giorno.

Mi fu d’uopo scendere di cavallo per il ripido sentiero che ci portava abbasso da Veroli, che non havvi altra strada carrozzabile, all’infuori di quella sotto Casamari, e tutta questa regione dei confini latini non ha altro mezzo di comunicazione coi paesi finitimi che la via Latina, la quale porta a Capua. Tutti gli abitati che scorgevano intorno a noi, in gran parte più antichi di Roma, sorgono in cima a colline sassose, neri, cupi di aspetto, e da secoli nello stesso stato. I conti ed i baroni el medio evo vi avevano fabbricato in ognuno il loro castello feudale, che sorge tuttora abbandonato e deserto a stanza dei gufì. Il contadino vi lavora tuttora, soggetto ad un principe romano, [p. 79 modifica]o ad un convento, coltivando col sudore della sua fronte la vite, l’olivo, il gran turco, e la sua condizione non è punto mutata, tuttochè non sia più propriamente servo della gleba. Quando si vuole attribuire la spopolazione dei dintorni di Roma all’influenza della mal’aria, la quale non è però la sola causa di quella, si trova che questa regione non vale per il Lazio, regione saluberrima. Fa senso percorrere una contrada la quale in distanza appare allo sguardo come un eliso, e non trovare poi che un deserto pittorico con poco gran turco qua e là, sugli aridi campi del quale, popolati unicamente di ginestri e di asfodelo, svolazzano descrivendo ampi circuiti gli uccelli di rapina. Si prova stupore di non trovare una popolazione attiva ed agiata, città fiorenti, e di non iscorgere che alcuni gruppi qua e là di case meschine sulle alture. Gli abitanti del Lazio, bella, buona, e forte razza d’uomini, sono rimasti in uno stato prettamente primitivo; il loro modo di vivere i loro costumi, i loro bisogni non hanno subita mai la menoma variazione, e se uno dei loro antenati tornasse al mondo, non troverebbe forse null’altro di nuovo nel proprio paese, che l’uso del tabacco, degli zolfanelli fosforici, e della polvere da fuoco. Tutti quei castelli Veroli, Pofi, Arnara, Bauco, Ripi, risalgono alla più remota antichità. Si trovano menzionati nei documenti dei secoli IX, X con i loro nomi attuali, colle stesse chiese, con i loro conti e giudici, e per lo più di stirpe Longobarda, e non sarei in grado di citare un luogo, il quale fosse di fondazione posteriore.

Il sole del pomeriggio splendeva tuttora ardente su quegli aridi campi, allorquando mi posi per una strada orribile, per un sentiero a mala pena praticabile ai cavalli, affine di errivare al monastero di Casamari. Entrai in una corte deserta, dove già si trovava una compagnia di persone venute da Veroli, e fra queste alcune ragazze elegantemente vestite, le quali stavano ballando e scherzando, producendo una grata sensazione in quella solitudine. Si sarebbero potuto paragonare ad un volo di uccelletti gar[p. 80 modifica]ruli in una cupa foresta. Seguiva una buona strada fiancheggiata da olivi e da vigneti ben coltivati i quali annunciavano una possessione tenuta con metodo di coltura ben diverso da quello di tutte le campagne dei dintorni. Non tardai ad incontrare una schiera di pellegrini, gli uomini col bordone in mano, le donne colle loro ceste ripiene di provvigioni sul capo, abbigliati tutti nella foggia pittorica degli abitanti dei monti latini. Dessi venivano dal rinomato convento di Casamari.

Avevo udito fare le tante volte parola di questo, mi si era detto che era, con quello di Fossanova, il più bel convento di tutto il Lazio, e particolarmente una meraviglia di architettura gotica, ed ora me lo trovavo di fronte, mole grandiosa di edifici d’aspetto serio, di tinta bigia, i quali sorgono solitari, e dominano la sottoposta pianura. Campeggia la facciata della chiesa, preceduta da una corte con una porta imponente alla foggia romana, la quale dà accesso ad un porticato, che ricorda L’arcus Deambulatorii dei ricchi monaci del medio evo. Corre a fianco un rivo l’Amasena, ombreggiato da pioppi malinconici, ed il tutto ha un aspetto di solitudine severa, solenne, che fa pensare a quella di S. Antonio nella Tebaide. L’aspetto di un tale monastero, segregato addirittura dal resto del mondo, non può a meno di produrre una profonda impressione, siccome quella che vi fa rivivere totalmente nel passato. In generale i monasteri oggigiorno hanno un non so che di desolato, di morto, siccome quelli che più non corrispondono all’indole dei tempi. Quivi invece nulla è cambiato; l’atmosfera morale vi è rimasta quella di vari secoli addietro i monaci continuano a cantare, a pregare, a tacere, a lavorave come in passato, rivestiti degli stessi abiti, negli stessi locali, colla stessa uniformità monotona. Tutto si andò mutando nel resto del mondo, ma dessi non vi hanno presa, non vi prendono parte veruna; loro basta che durino come in passato la chiesa, i vescovi, il Papa in Roma. Nulla ha cambiato nei dintorni. Veroli, Pofi, S. Giovanni, sussistono tuttora come in passato, colle loro chiese, [p. 81 modifica]coi loro santi; i pellegrini continuano come in passato a battere alla porta del monastero. Non hanno a temere più dei Saraceni, dei baroni rapaci, dei capitani di ventura, ma vivono in continuo pensiero per la rivoluzione, la quale finirà per tornare loro più fatale che i Saraceni ed i masnadieri del medio evo, imperocchè questi non avevano a temere che l’incendio od il saccheggio, con quella si tratterà di essere, o non essere. Inoltre i beni dei monasteri saranno incamerati, e l’importanza della chiesa non potrà a meno di soffrirne grave iattura. Un monastero finirà per diventare unicamente un soggetto d’arte di studio, di distrazione, come un’antica pergamena, un codice miniato.

Il nome di Casamari venne spiegato erroneamente; come pure erroneamente lo spiega Wesphal nella sua opera sulla campagna di Roma per Casa amara, in allusione alla regola severa dell’assoluto silenzio prescritto ai monaci i quali vi hanno stanza. Vuolsi invece derivare da Casæ Marii, case di Mario, imperocchè la badia venne eretto in un fundus Marii, in un antico possedimento del rinomato eroe di Arpino. Così porta la tradizione, e così pure asserisce Rondini, che scrisse la storia del monastero pubblicata a Roma nel 1707. Venne questo fondato nel 1036 da alcuni pii abitanti di Veroli, e primi ad abitarlo furono i monaci dell’ordine di S. Benedetto; se non che essendo venuta a rilassarsi la loro disciplina; Eugenio III v’introdusse nel 1152 i Certosini, che possedono pure il bello e vicino convento di Trisulti. Federico II con un diploma del 1221, datato da Veroli, e che tuttora sussiste, confermò i monaci di Casamari in possesso dei loro beni, ma i suoi soldati rovinarono il monastero quando quell’imperatore venne a rottura con Roma.

La storia di Casamari non offre del resto veruna particolarità; non fu che una continua successione di guerre, di distruzioni, di costruzioni, alla quale andarono soggetti più o meno tutti gli antichi monasteri. Nessun uomo distinto uscì dalle sue mura. Casamari non ebbe una storia [p. 82 modifica]propria, come la vicina Fossanova, di cui Muratori pubblicò la cronaca; non ebbe mai le ricchezze di Trisulti, possiede però beni nella campagna romana. Il suo maggior vanto consiste nella sua stupenda chiesa, la cui prima pietra venne collocata nel 1203 e pertanto nell’epoca in cui l’architettura gotica cominciava ad essere introdotta in Italia.

Nell’entrare nella corte che precede la chiesa, provai un disinganno, imperocchè la facciata di questa, alla quale si accede per mezzo di un’ampia gradinata, ed il vestibolo a foggia di porticato, mistura di varii stili di architettura, promettevano poco davvero. Trovai nel vestibolo una statua di Pio VI, ed una lapide in onore di Pio IX, per avere desso ristabilito il patrimonio del monastero. Appena entrato poi nella chiesa, provai una grata sorpresa, per trovarmi in un tempio a tre navate, ampio, di proporzioni armoniche, bello, chiaro, ad archi a sesto acuti, con il coro separato unicamente da una cancellata, il tutto di una semplicità elegante. L’armonia delle proporzioni, la semplicità dell’edificio, la tinta tranquilla del travertino, l’architettura gotica del mio paese natio, mi produssero la migliore impressione. Il mio occhio assuefatto da vari anni alle basiliche di Roma col loro soffitto piatto, ed alle chiese sopracariche di ornati dei tempi posteriori, non potè a meno di trovare nel gotico uno stile architettonico nuovo, svelto, imponente per la connessione della ricchezza colla semplicità, dell’arditezza colla grazia, della forza colla leggerezza, per l’armonia delle varie parti le quali concorrono tutte a formare un complesso bello, raro sorprendente. Assuefatto oramai a vedere le chiese sopracariche di sculture, di ornati barocchi e pesanti, di pitture, d’iscrizioni di tombe, di altari, e nulla trovando qui di tutto ciò, mi parve questa chiesa un tempio bello, semplice, propriamente adatto all’esercizio del culto di una religione pura ed immateriale.

Nessuna statua, nessuna nicchia, nessuna cappella, un unico altare sotto una lanterna, il tutto come nelle antiche chiese cattoliche di Germania, diventate tempi protestanti. [p. 83 modifica]Non ricordo avere visto in Italia edificio di stile gotico, di tanta bella semplicità. La navata di mezzo ha sette archi a sesto acuto, sostenuti da fasci di colonne; al quinto arco trovasi la cancellata, la quale divide il grazioso coro. Al di là di quella non eravi nessuna statua, nessun ornamento bizzarro; unicamente a fianco dell’altare due grossi vasi con due piante di amaranto in piena fiorittura, ed è facile comprendere quanto si addicessero queste alla lindura ed alla semplicità elegante della chiesa.

Questa soltanto al monastero è di stile gotico puro; le altre parti di esso sono invece di stile romano pesante. La corte è un ampio quadrato, con archi semigotici, interrotti a metà da due colonne, e non è punto bella. La sala del capitolo è di un genere strano. Il gotico di essa volge allo stile moresco. La vôlta è sostenuta da fasci di otto colonne addossate alle pareti, da cui partono archi a sesto acuto, e l’impiego alternato nella costruzione di pietre bianche e nere, accresce l’originalità del colpo d’occhio.

Non vidi che pochi monaci, i quali passeggiavano silenziosi su e giù nell’interno del monastero, e che non mi volsero la parola. Un frate laico mi recò un bicchiere d’acqua, e sentendo che venivo di Roma, mi domandò che cosa vi fosse di nuovo colà, e dove si trovasse Garibaldi. Il nome longobardo di questo prode capitano del popolo, risuona sopra ogni bocca al confine del regno di Napoli, come tanti secoli sono vi risuonarono quelli parimenti longobarbi dei duchi Garibaldo, Grimoaldo, Romoaldo e Gisolfo di Benevento. La figura di lui, popolare anche colà dove eccita timori a vece di speranze, pare avere un’influenza propriamente magica, e non dovevo tardare ad averne la prova sul Napoletano. Nel medio evo correvavo in queste parti i nomi di Nicolò Piccinnino, di Fortebraccio da Montone, di Sforza, di Attendolo, e di altri capitani di ventura diventati famosi per cento scorrerie, battaglie, e conquiste di città. In sostanza però non erano quelli che arditi briganti, ed i loro fatti d’armi erano la peste la più obbrobriosa d’Italia; mentre l’eroe attuale del popolo, Ga[p. 84 modifica]ribaldi, ha consacrata la sua spada e la sua vita, allo affrancamento della sua patria.

Salii di nuovo a cavallo per continuare il mio viaggio, quando il sole volgendo al tramonto, colorava delle più belle tinte i monti di Arpino. Dal monastero ai confini del Napoletano non havvi guari più di un’ora di strada. Dove confinano i popoli, gli stati, si osservano un carattere intermedio, una certa vivacità di spiriti. Gli abitanti dei confini stanno per lo più in guardia gli uni contro gli altri. Mentre gli uomini che abitano nel centro degli stati, diventano facilmente indolenti, ai confini sono irrequieti, mobili, avidi di novità, di fede dubbia, perchè agitati sempre dalla presenza, dal contatto dei forastieri. Un nuovo orizzonte si apre davanti i loro occhi, li spinge ad indagare, a paragonare, li rende proclivi al biasimo, alla critica. Il contatto di due diverse popolazioni, non può a meno di produrre una condizione d’incertezza; corrono ad ogni istante voci, romori, nella stessa guisa che l’invidia ed il sospetto hanno per l’ordinario la loro sede sui confini morali dell’umanità. Non tardai ad arrivare alla dogana romana, la quale trovasi in una casa isolata sulla strada, e dove le guardie di finanza uccidevano il tempo fumando il loro sigaro, i quali per dirlo di passaggio, son buoni nello stato pontificio, e pessimi in quello di Napoli. Di là la strada volge in una regione coltivata a vigneti, ed in breve arrivammo al vero confine, indicato da un semplice sasso. Il Dio Termine congiunge quivi in modo del tutto pacifico i campi di Roma e di Napoli, che non sono nemmeno disgiunti da un fosso. A pochissima distanza del confine sorge il primo villaggio del Napoletano, Castelluccio, e poco al disotto di questo, nel letto del Liri, quello amenissimo d’Isola. Folti gruppi d’alberi annunciano la vicinanza del fiume, graziose ville, fabbriche industriali sorgono fra le piante, e la campagna, stupendamente coltivata, annuncia la fertilità e la ricchezza che hanno sede generalmente in prossimità ai grandi corsi d’acqua. E sopra questi campi ben coltivati, in una ragione ondulata, sorgono a poca di[p. 85 modifica]stanza belli e maestosti i monti di Sora. Questo tratto di paese illuminato dal sole cadente, mi ricordò la Conca d’oro di Palermo per la fertilità della pianura, per l’aspetto serio e severo delle montagne: se non che a vece del mare corrono quivi il Liri ed il Garigliano, i quali scendono impetuosi, romorosi, dagli Abbruzzi, irrigando i campi romani e napoletani, prima di scendere, diventati placidi e tranquilli, al mare.

Quando si varcano i confini del Patrimonio di S. Pietro per entrare nel regno, non conviene aspettarsi ad impressioni piacevoli, imperocchè, vuolsi pure confessarlo, gli abitanti dello stato pontificio conservano tuttora oggigiorno traccie dell’antica grandezza romana. Nei Romani havvi un non so che di serio, di riflessivo, di misurato, una disinvoltura ed una franchezza di contegno, una libertà di parola, una certa generosità di tratto, le quali vi si mantennero dai tempi antichi. La costituzione stessa dello stato della chiesa, dove il potere puramente monarchico poco compare; la mancanza di un regimento civile accentrato, la mancanza pure non abbastanza apprezzata dai Romani di un esercito permanente; le franchigie municipali guarentite da lunga serie d’anni da trattati e da statuti locali (imperocchè vennero per la prima volta annullate dalla repubblica francese, e più tardi sotto la ristaurazione del cardinale Consalvi); finalmente la mancanza di una dinastia ereditaria, tutte queste cose contribuirono a mantenere, fino ad un certo segno, negli stati della chiesa spiriti repubblicani. Toccato appena il territorio Napoletano, non tarda il viaggiatore ad accorgersi che tutto muta d’aspetto, e che il cangiamento non è a favore di quest’ultimo; il naturale serio dei Romani scompare tutto ad un tratto; il dialetto diventa barbaro, inintelligibile; gli uomini sono meno forti, meno vivaci, meno generosi, diventano importuni, e sono ad un tempo paurosi. Abbondano i soldati, i poliziotti, le spie, le guardie di finanza di un governo sospettoso, mal sicuro, illiberale.

Trovai ad Isola una bella cascata d’acqua, una stupenda [p. 86 modifica]vegetazione, praterie freschissime, ma vi tovrai pure la dogana napoletana. Mi fu forza far ivi una lunga fermata e perdervi gran tempo a motivo di sei poveri volumi. Ad eccezione di un Orazio, riguardavano tutti la storia del medio evo; si può quindi pensare se fossero innocenti! ma gl’impiegati di dogana non ne comprendevano il titolo. Lamentarono per dir vero meco la morte di Humboldt, quasi dovesse riuscire questa dannosa alla coltura intellettuale di Napoli; lodarono l’istruzione della Prussia, dove le opere filosofiche sono famigliari ad ognuno; ma conchiusero che i miei sei volumi costituivano merce di contrabbando, che dovevano spedirli al capo luogo, ad ufficio superiore che mi sarebbero stati restituiti fra due o tre giorni. Osservai che ben diversamente procedevano le cose in Germania mia patria, dove si procura agevolare agli studiosi i mezzi di viaggiare, anzichè creare loro ostacoli, e che trovavo addirittura barbare le loro leggi di dogana. Intanto mi rallegrai per aver avuta la precauzione di non recare meco a Montecassino miei manoscritti, che diversamente avrei corso il rischio di perdere il frutto di alcuni anni di lavoro. Questa è la sorte che in questo beato regno di Napoli può toccare ad uno straniero, che viaggi occupandosi tranquillamente di studi seri intorno al medio evo; e difatti non havvi proibizione più stupida, più barbara di questa contro l’introduzione dei libri. In ultima analisi però, mi riuscì persuadere quell’impiegato, il quale era del resto uomo garbato, che poteva lasciar passare i poveri miei volumi, senza punto mancare al suo dovere. Vuole poi giustizia che io accenni, come sia più liberale lo stesso governo del papa; allorquando tornai di Montecassino con gli stessi libri, con altri che mi aveva colà regalato D. Luigi Tosti, e coi materiali che avevo colà raccolto, e che mi presentai con quella merce di contrabbando al ponte di Ceprano, l’impiegato della dogana pontificia non fece che gettarvi sopra un rapido sguardo, e mi disse con gentilezza romana. «Passate pure Signore.»

Intanto io aveva perduto un tempo prezioso, e quasi, [p. 87 modifica]non potei vedere Isola, che già si avvicinava la notte. Giace questo paesello in una bell’isola del Liri, ombreggiato da folte piante. All’estremità dell’isola le acque del fiume, di colore smeraldo, si precipitano impetuose a modo di cascata. Superiormente all’isola sorge una rupe dell’altezza di un ottanta piedi circa, in cima alla quale torreggiano le rovine di un antico castello. Si ode da lontano il romore delle acque, ed avvicinandosi la vista è rallegrata sia dal corso del fiume stesso, sia di molteplici canali i quali mettono capo in esso, dopo aver irrigato campi popolati di stupendi platani, pini, e ricchi della splendida vegetazione dei paesi meridionali colà dove abbondano le acque. Il fiume è già grosso a quel punto, perchè poco sopra l’isola riceve il tributo del Fibreno, e non giova unicamente a fertilizzare i campi, ma dà moto eziandio a moltiplice fabbriche di carta, di panni, le quali procurano lavoro ad alcune migliaia di operai, e diffondono il ben essere, l’agialezza nella contrada.

II.

Tanto Isola quanto Sora sono paesi industriali, e la buona e bella strada che li congiunge, è fiancheggiata da fabbriche, da casini, da giardini. Havvi quasi un oasi sorprendente di bella coltivazione, e rallegra il trovare finalmente lo spettacolo dell’attività umana, in queste regioni così belle, cotanto derelitte.

Mi portai a Sora, distante appena un’ora, con un bel lume di luna, prendendo posto in un Char a’ bancs, che quivi, non so perchè, si dà tal nome francese al curricolo napoletano che comincia ad esservi in uso, e che si spinge di galoppo, a furia di sferzate al povero ronzino che lo trascina. Il lume della luna rendeva più bella ancora quella contrada già così amena per sè, e l’aspetto moderno di tutte quelle costruzioni; imperocchè la prosperità materiale di Sora e d’Isola non data che dal principio [p. 88 modifica]del secolo; produce una viva impressione a chi viene dalle provincie romane dove ogni cosa è antica, dove tutto appartiene al papato, alla storia, dove le cupe ed oscure città le quali sorgono sui monti, risalgono ai tempi favolosi di Giano e di Evandro. I dintorni dell’Isola non hanno che un ricordo storico, quello di Cicerone, del quale faremo parola a suo lempo.

Le fabbriche attuali, che sono per lo più di carta, erette su vasta scala e secondo i migliori metodi moderni, devono la loro origine a’ Francesi del tempo di Murat, e principalmente ad un signore Lefévre il quale venuto qui povero, trovò sulle sponde del Liri un Eldorado, riuscendo a trarre partito della forza motrice delle sue acque. Lasciò a suo figlio le sue fabbriche, ed alcuni milioni. Il re di Napoli, credo Ferdinando I, accordò alla famiglia Lefévre la dignita comitale, che aveva questa ben meritata chiamando una contrada povera e negletta a bella agiatezza la quale non può più scomparire, ed anzi deve con tutta probabilità aumentare.

L’aspetto di quanto possa l’umana attività riesce sempre di molta soddisfazione, anche dove ne sono frequenti gli esempi come in Inghilterra, in Germania, in Francia; si può quindi pensare l’impressione che debba produrre nel regno di Napoli, dove pur troppo una tale attività fa cotanto lagrimevole difetto.

I due principali stabilimenti industriali della casa Lefévre, la cartiera del Liri e quella del Fibreno, sono due belli e grandiosi edifici. Egli è un piacere vedere tutta quella folta di operai intenta a fabbricare, direi quasi a fondere la carta; imperocchè tutta quella pasta liquida, scorre quasi un denso fiume di latte, e passando su cilindri riscaldati, si svolge in una bianca striscia senza fine, pronta ad accogliere il pensiero. Iddio ha creato il mondo in certo modo come i signori Lefévre creano la carta, abbandonandolo allo studio ed alle disputazioni degli uomini. Non si può vedere scorrere quel bianco fiume, senza pensare a tutti gli usi moltiplici ai quali serve [p. 89 modifica]quella creazione meravigliosa che fu la carta. Quella striscia bianca che si svolge davanti ai nostri occhi, verrà alla luce stampata coi prodotti del genio o della sciocchezza, nelle scienze o nelle arti, o sotto forma di giornali, di cambiali leggitime o falsificate, di partecipazioni di nascite, matrimoni, o morti, di sentenze criminali, di trattati di pace, di opere drammatiche, di passaporti, di opuscoli politici destinati a far romore, siccome lo fa in questi giorni Le Pape et le Congrés, di carte da giuoco, di fotografie, di lettere d’amore, ed in quei tanti altri usi infiniti ai quali serve la carta.

Fui accolto in una villa presso Isola, il cortese proprietario mi condusse nel parco vicino del conte Lefévre, che dapprima era di sua spettanza, e può quel bel giardino stare al pari con quelli delle ville di Roma. Sovratutto potrebbero i principi Doria e Borghese invidiare al conte Lefévre abbondanza d’acque che non ebbe uopo di procurarsi con arte, imperocchè un braccio del Fibreno attraversa il suo parco, precipitandosi dapprima di scoglio in iscoglio, ed allargandosi quindi in placido e tranquillo lago. Le sponde di questo sono ricche di stupenda alberatura, di belle praterie. Vi sono viottoli ombrosi, recessi solitari, fiori in abbondanza, in una parola, trovai un piccolo Tivoli, dove sarebbe una delizia passeggiare, riposare, leggendo, fantasticando, lasciando la briglia sciolta al pensiero.

Arrivai a Sora, città vescovile e la prima del regno di Napoli in questa parte, trovando alloggio in una buona locanda. Mi accorsi tosto che avevo mutato di paese, che diversi erano gli usi, imperocchè il cameriere mi offrì una lista di vivande i cui nomi sarebbero stati inintelligibili addirittura a Roma e non mancò di darmi del Don. Al mattino trovai Sora città moderna discretamente pulita, con buon strade, ed aspetto di attività industriale, di commercio. Giace dessa sulle sponde del Liri, che volge le sue acque verdognole fra alti pioppi, simile affatto ad un fiume Germanico. Stavvi sovrapposto un ponte in legno, [p. 90 modifica]passeggiai lungo le sponde del fiume, e trovai vari luoghi dove mi sarei fermato volontieri, imperocchè la campagna vi è fertile, ben coltivata a giardini, a vigneti, collegati fra di loro da buone strade, le quali portano nei paesi vicini.

La città di Sora trovasi in perfetta pianura nella valle del Liri, circoscritta in distanza dai monti. In qualche punto questa si restringe, ed esce un contrafforto della catena, ed immediatamente sopra la città sorge un monte piramidale, alto, ripido, d’aspetto severo, essendo di roccia nera, e totalmente incolto. Scorgonsi in cima a questo le rovine pittoriche dell’antica rocca, denominata Sorella, non mena nere del monte. Si distaccano e campeggiano in modo imponente nell’azzuro del cielo, e per tal guisa trovansi riuniti quivi in un breve spazio pianura, fiume, e montagna. Sora riposa tranquilla all’ombra di quel monte, tutta moderna di aspetto, sebbene sia antica città volsca, la quale non ha mai mutato nome, mutando sorti; imperocchè divenne più tardi sannitica, quindi latina, poscia romana. Nel periodo romano nacquero colà i tre Deci, ed Attilio Regolo; vi ebbe stanza la gente Valeria, alla quale appartenne l’oratore Quinto Valerio; ivi pure nacque Lucio Mummio, complesso di nomi, ì quali bastano ad illustrare quella città.

Durante il medio evo trovasi fatta menzione frequente di Sora, quale città di confine, la quale fu ripetute volte sorpresa e saccheggiata dai duchi longobardi di Benevento. Può darsi che allora fosse bizantina, Posseduta quindi dai vari duchi di razza longobarda, i quali furono padroni di tutta la contrada fra il Liri ed il Volturno, finì per venire in potere dell’imperatore Federico II, il quale la distrusse. Appartenne più tardi ai conti di Acquino, diventati padroni della massima parte del territorio, posseduto dapprima dai Longobardi. Carlo d’Angiò nominò conte di Sora un Cantelmi, congiunto degli Stuart, ed Alfonso d’Aragona eresse Sora in ducato, di cui primo duca fu Nicolò Cantelmi. Intanto i Papi non avevano mai cessato [p. 91 modifica]di aspirare alla signoria di quella bella regione, che stava ai confini del loro stato, e la ottennero sotto Pio II, il quale conquistò Sora per mezzo del suo capitano, Napoleone Orsini. Il re Ferdinando I di Napoli confermò il possesso, ma Sisto IV ne privò la chiesa nel 1474 investendone suo nipote Lionardo della Rovere, allorquando sposò la figliuola del re. Più tardi nel 1580 Gregorio XIII acquistò Sora dal duca di Urbino, per suo figliuolo Don Giacomo Buoncompagni, e furono pochi i nipoti di Papi, i quali abbiano ricevuto donazione cotanto cospicua. Rimasero quelle terre in possesso dei Buoncompagni Ludovisi sino al fine del secolo XVIII in cui tornarono al regno di Napoli, ed ai Buoncompagni non rimase che il palazzo di Sora in Roma, ed il titolo di duca di Sora, portato oggidì dal figliuolo primogenito del principe Ludovisi-Piombino.

Mentre i della Rovere possedevano Sora, nacque colà un uomo illustre, l’ultimo che abbia prodotto quella città. Per quanto dilettevoli, per quanto pittoricamente irradiate da splendido sole siano quelle sponde del Liri, ombreggiate da lunghi filari di pioppi, non è men vero che non produssero un poeta, un Orazio, un Ovidio, un Ariosto, il quale pare vi avrebbe pure dovuto trovare adatta culla. Per contro quelle pianure produssero rinomati uomini di guerra e grandi oratori, e per dir vero questi ultimi non potevano a meno di rinvenire nella contemplazione di quella splendida natura, argomento di imagini e di tropi. Cesare Baronio nacque il 31 ottobre 1538. Può essere considerato quale il Muratori della Chiesa, di cui dettò gli annali della nascita di Cristo all’anno 1498. Fu pubblicato nel 1588, il primo volume della sua opera, compilata con i materiali degli archivi del Vaticano, lavoro di fatica erculea, al quale si può ricorrere utilissimamente quale a fonti originarie in molte parti, e specialmente per i primi e più oscuri secoli del medio evo, ma libro però del quale convien far uso con molta prudenza, imperocchè non erano ancora a quell’epoca progrediti gli studi sto[p. 92 modifica]rici come progredirono di poi, opera del resto informata di spirito illiberale ed ingiusta, siccome quella la quale venne scritta durante il periodo più ardente della reazione cattolica contro la riforma. Dagli oratori suoi concittadini Baronio non tolse nè il sale attico, nè la squisitezza di urbanità, nè lo spirito di discussione filosofica, nè la purezza della lingua. Si può dire unicamente che non gli difettasse una certa abbondanza Ciceroniana, ed una certa grandiosità la quale compare tanto maggiore, dacchè furono di tanto inferiori le opere di Laderchi e di Rainaldo suoi continuatori. Desso aveva fatto i suoi primi studi in Veroli, poscia a Napoli; ed in Roma era stato discepolo assiduo di quel santo abbastanza originale che fu S. Filippo Neri, e visse qual monaco nell’oratorio fondato da questi in S. Maria della Vallicella. Fu cardinale, e dopo la morte di Clemente VII, Aldobrandini, poco mancò non ottenesse la tiara, ma desso, che punto non era ambizioso, lo volle collocare in capo a Leone XI de’ Medici amico suo, e morì due anni dopo il 30 giugno 1607. Venne sepolto in quella chiesa dei padri dell’Oratorio in Roma. Rimarrà sempre una gloria della storia ecclesiastica, e la sua potenza di lavoro sarà sempre meritevole di ammirazione.

Devo ora pregare il mio lettore di gettare ancora uno sguardo su quell’altura di dove abbiamo prese le mosse, e dove si scorge tuttora Veroli. Chi non conosce, o non ha quanto meno udito parlare di un’opera italiana intitolata «Del beneficio di Cristo?» pubblicata nel 1542 in Venezia in grande quantità di copie, diffusa per moltiplici traduzioni, era, dopo trent’anni appena, diventata irreperibile, tante mani si erano affaticate a farne ricerca ed a consegnarla alle fiamme. Udimmo, son pochi anni, che inaspettatamente se n’era scoperto un esemplare in una biblioteca di Cambridge, e venne di poi ristampato in Inghilterra, in Germania, in Italia. Aonio Paleario di Veroli fu l’autore di quel piccolo libro, ed io voglio porlo a fronte di Baronio suo contemporaneo e quasi suo concittadino, essendo nati a due ore di distanza l’uno dal[p. 93 modifica]l’altro. Aonio non morì cardinale; dopo avere passato tre anni nelle prigioni della inquisizione, fu tratto al patibolo, e condannato a morire sul rogo fra le fiamme. Si dura fatica ora a comprendere, come un uomo abbia potuto essere condannalo a morte per aver intrapresa colla coscienza di un santo, la giustificazione della dottrina cristiana; ora che si legge dopo alcuni secoli quello scritto soave e pio, fondato unicamente sui precetti del vangelo non si arriva a comprendere come per questo l’autore abbia potuto essere condannato al rogo da Cristiani. Era il tempo in cui venne giustiziato pure Carnesecchi l’amico di Clemente VII; il tempo dei riformatori italiani di Giovanni Valdez, di Bernardino Ochino, di Vergerio, di Paolo Ricci, di Antonio Flaminio; il tempo in cui anche cardinali, come il Morone, il Contarini, il Polo, vennero citati davanti alla inquisizione. Le fiamme del rogo che arsero Paleario, eccitarono lo zelo di Baronio, ed i suoi annali se ne risentono, perchè furono scritti alla luce di quelle.

La città di Sora, e tutti i paesi del confine riboccavano di soldati imperocchè vi si stava stendendo un cordone militare. Sulla piazza erano disposte artiglierie di montagna, lancieri correvano di galoppo per ogni dove, e poco dopo il mio arrivo giungeva da Capua il settimo reggimento ci linea che riempiva tutte le strade di baionette. Trovai che la fanteria aveva molto migliore aspetto che la cavalleria, ed osservai, particolarmente fra gli ufficiali, parecchi uomini bellissimi. Tanto la cavalleria però quanto la fanteria erano vestite di tela, di un colore fra il bigio ed il torchino, il quale fuceva cattiva figura. Il luccicare di tutte quelle baionette, quelle fisionomie abbronzate, gli abiti ricoperti di polvere, la ressa alla porta delle caserme, le grida di comando davano imagine di una piccola guerra; ed io mi trovavo tutto ad un tratto propriamente a fronte della quistione romana. Quelle truppe erano avviate verso gli Abruzzi, per formarvi un corpo di osservazione; non si comprendeva ben chiaro contro qual [p. 94 modifica]nemico, ma si parlava di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Correvano le notizie le più strane, le più contradditorie; gli uni assicuravano che Garibaldi si trovasse di già negli Abruzzi, gli altri che i Francesi fossero in marcia verso Ceprano. La completa segregazione di Napoli, la mancanza di giornali, di ogni mezzo di publicità, favorivano la diffusione di tutte quelle voci, tanto più che tutti quegli apparecchi, accennavano positivamente a probabilità di guerra.

Nel proseguire il mio viaggio, incontrai Wuppe per ogni dove, e durai fatica a prestar fede a miei occhi, allorquando nel tornare di Arce presso al ponte di Ceprano, trovai stabiliti sulla strada gli avamposti, come se il nemico fosse stato difatti già alla frontiera. I Romani ridevano di cuore di tutto quello apparato di guerra. «Non vi potete fare una idea, mi si diceva in Ceprano, della paura che i Napoletani hanno di Garibaldi; giorni sono abbiamo avuto qui una festa di chiesa, e come si suole dovunque, abbiamo sparato alcuni mortaretti, e lanciato alcuni razzi, e sapete che cosa furono capaci di fare questi Napoletani? Presero a tremare, ed a dare nei tamburri in Arce, ed Isola» — «Che cosa ve ne pare, mi disse un altro, di questi Napoletani? Se potessimo disporre di cinquecento uomini soltanto, arriverebbero senza intoppo fino a Napoli ma bisognerebbe che fossero buoni parlatori; sapete!» frase quest’ullima perfettamente italiana, e la quale vale a dare una giusta idea della natura delle persone.

I militari intanto avevano presa stanza nei loro quartieri, ed io mi posi per istrada onde recarmi alla patria di Mario. Il curiccolo che mi portava correva a precipizio, ed anzi presso al ponte atterrò una povera donna, la quale per buona sorte non ebbe altro danno che lo spavento, ed il mio auriga continuò a sferzare maledettamente il suo ronzino. Per andare da Sora ad Arpino, conviene passare di bel nuovo presso ad Isola; prendemmo colà due signori di Arpino, i quali lungo la strada furono molto loquaci, evitando però parlare di politica, ma ap[p. 95 modifica]pena giunti nella città, fecero mostra per prudenza di non avere mai veduto il forastiero.

In vicinanza di Sora passammo presso il convento, un di famoso ed ora rovinato, di S. Domenico. Sorge in un isola del Fibreno o Carnello, nome che questo assume poco prima di sboccare nel Liri, in una località bellissima, ricca di piante. Ivi sorgeva la villa nella quale nacquero Cicerone, e suo fratello Quinto.

Questo S. Domenico non va confuso coll’illustre Spagnuolo fondatore dell’ordine dei Domenicani; desso fu santo del secolo X contemporaneo di S. Nilo, e di S. Romualdo. Nato a Fuligno nel 951, fu monaco benedettino a Montecassino sotto l’abate Aligero; fondò parecchi monasteri nella Sabina, e nel 1011 questo di Sora, aderendo alle preghiere del conte Pietro di stirpe longobardo, ed esistono tuttora i documenti di quella fondazione. S. Domenico fu ivi abate, e vuole la tradizione che Gregorio VII abbia vissuto qual monaco benedettino, in quel convento.

Quante volte non avrà quell’uomo grande e singolare passeggiato fantasticando sotto i pioppi dell’isola dì Cicerone, ma non si sarà per certo mai imaginato allora, di dover vedere un giorno un imperatore a suoi piedi in atto di penitente, e di dover sostenere in Roma, ed anzi nella storia nel mondo, una parte ben più importante di quella di Mario e del debole Cicerone. Ad onta della memoria di Gregorio, la disciplina si venne rallentando fra i monaci di S. Domenico, a contatto di quella splendida e voluttuosa natura, nella quale è difficile, anche a monaci, non cedere alla umana fralezza; e non a torto provvedeva S. Benedetto collocando i suoi nella severità di monti selvaggi. Onorio III pertanto nel 1221 riunì per sempre il monastero di S. Domenico, hortus deliciarum, come lo qualifica nella sua bolla, a quello di Casamari. Rimase quello disabitato per ben cinque secoli, finchè Clemente XI vi allogò i Trappisti, i quali finirono per unirsi ai monaci di Casamari. Finalmente Ferdinando II fece dono di S. Domenico alla basilica vaticana, la quale ne ritrae attualmente un piccolo reddito. [p. 96 modifica]

La chiesa, di stile gotico, trovasi quasi pienamente rovinata, e nulla havvi più notevole nel convento; la sola ricordanza di Cicerone, invita a sostare in quella località.

Ivi Cicerone, Quinto, ed Attico, si trattennero in quei colloqui che ci rimangono tuttora nei tre libri, de Legibus. Vennero qui da Arpino passeggiando lungo il Fibrena, pervenuti in insula qua est in Fibreno, vollero ivi fermarsi a riposare, discorrendo di argomenti filosofici. Attico non può saziarsi di ammirare la bellezza del luogo, e Cicerone osservando che soventi e volontieri vi si porta a pensare, a leggervi, a scrivervi, soggiunge trovare desso inoltre a quella località una particolare attrattativa, per essere quella la propria culla, quia hæc est mea, et huius fratris mei germana patria, hinc enim orti, stirpe antiquissima, hic sacra, hic gens, hic maiorum multa vestigia. Dice essere stata quella proprietà. già del suo avo; essere ivi invecchiato negli studi di suo padre malaticcio, di cui fa un grand’uomo. Soggiunge Cicerone che nel vedere quel suo luogo natio, comprende il sentimento di Ulisse, il quale preferiva l’aspetto d’Itaca alla stessa immortalità. Riconosce che Arpino fa sua patria quale civitas, ma che desso propriamente appartiene all’agro Arpinate, ed allora Attico descrive le bellezza dell’isola circondata dalle acque del Fibreno le quali vanno a rinfrescare quelle del Liri, e che sono fredde cotanto, che a mala pena vi si può tenere immerso il piede. Seggono allora per trattenersi intorno alle leggi, e ci rappresentiamo più volontieri il gruppo di quei tre personaggi togati, eminenti per istruzione e per urbanità, che i monaci in tonaca, con ispida barba, contemporanei di Gregorio VII in pieno secolo XI nell’epoca della maggiore barbarie, della maggiore decadenza di Roma. Quale sorpresa non avrebbero provata Cicerone, Attico, e Quiuto, se avessero potuto vedere i Romani del secolo XI.

Cicerone nacque pertanto fra questi pioppi del Fibreno, di cui udiamo tuttora con piacere il mormorio delle foglie [p. 97 modifica]agitate dal vento. Ma a che far parola della sua stupenda culla, a coloro che non potranno forse mai gettare uno sguardo su questa campagna smaltata di fiori, rallegrata da continua primavera? Quale stupendo panoramo di monti tutto all’intorno, quali tinte calde non si perdono nei vapori all’orizzonte! Cicerone fu figlio della pianura, non dei monti; desso, spirito vasto, radunò in se quasi fiume possente tutti i rivoli della scienza a suoi tempi; Mario per contro, fu figlio dei monti, nato propriamente in Arpino fra le mura dei ciclopi, e colassù vogliamo ora salire.

Vidi pochi terreni frastagliati come in questa patria di Cicerone; sorgenti, canali, ruscelli ad ogni passo e di tutte le tinte; ed in mezzo a tutto ciò, il rumore delle ruote, le grida dei lavoratori della campagna, ed il fracasso del nostro curricolo, il quale correva sempre a precipizio. Passammo nella pianura, a fianco di parecchi casini, e bei giardini, quindi lasciata la valle del Fibreno, cominciammo a salire il monte per una bella, e buona strada. La distanza di Sora ad Arpino è di sei miglia, quattro dei quali corrono in una regione coltivata ad oliveti. A misura che si sale vengono mancando le case, e di raro se ne incontra una per istrada. Arrivai finalmente ad Arpino verso l’una pomeridiana, ed entrai nella città per l’antica porta romana.

III.

La patria di Cicerone e di Mario, conta attualmente diciasette mille abitanti. Le strade vi sono strette, la piazza piccola, ma non mancano case le quali hanno apparenza signorile. Del resto la città è morta, e non vi si scorge indizio di attività industriale. In quasi sutte le città delle Romagne esistono chiese antiche; Arpino non ne possiede veruna, sebbene anticamente la sua cattedrale fosse tempio dedicato alle nove muse. Ora è dedicato quello agli Angeli, quasi fosse stato d’uopo della musica celeste [p. 98 modifica]di questi, per far dimenticare ai Cristiani i canti pagani delle nove sorelle dell’Olimpo. Arpino è divisa in due parti; la città antica, la quale trovasi sul punto più elevato dove sorgeva l’antica rocca, e le città propriamente detta, la quale si stende ai piedi di quella sul ripido pendio del monte. Questa divisione è antichissima, e carattere distintivo di tutte quante le antiche città volsche e latine. Del resto le mura ciclopiche le quali scendono dall’altura su cui stava la rocca, fanno prova che la città moderna sorgeva sulla stessa area dell’antica, ed anche la porta della città, è dessa pure di origine ciclopica. Le mura sono in tutto simili a quelle di Segni, e delle altre antiche città del Lazio. Sono in generale abbastanza ben conservate, sopra tutto nella parte più eminente, alla quale si sale per una ripida strada scavata nel tufo calcare, fiancheggiata da oliveti, i quali scendono fino alla parte bassa. Sorgeva colassù la rocca ciclopica, e nel medio evo il castello dei conti Longobardi. Sussiste tuttora una vecchia torre rivestita di edera ed in vicinanza a questa, quelle mura di giganti le quali non si possono mai contemplare senza stupore. Formavano un quadrato attorno alla rocca, ed esiste tuttora una bella porta ciclopica. Per l’ordinario tali porte finiscono in un arco a sesto acuto, o tozzo, come quelli di Alatri, di Segni, di Norba; questa invece è di stile quasi gotico, se non che esiste tuttora il macigno che serviva di chiave alla volta, ed è possibile abbia questa assunta la sua forma attuale per rovina accidentale. Le pareti sono formate di sei ordini di macigni, collocati tre per tre; la larghezza della porta è di otto passi, la sua profondità interna di sette, e l’altezza di circa quindici piedi. I macigni di tufo calcare oltremodo poroso, sono di forma pressochè quadrata.

Di là scendono le mura con dolce pendenza come a Segni, interotte qua e là da una porta quadrata di stile etrusco, o da torri di guardia del medio evo. L’edera le ricopre; nelle loro fessure crescono olivastri, arbusti in fiori, ed il loro aspetto, cupo e severo, riporta a quei [p. 99 modifica]tempi primitivi d’Italia, coi quali comincia la storia di Micali. «Nei primi tempi regnò in Italia Giano, quindi Saturno, il quale fuggendo dalia presenza di suo padre Giove dalla Grecia, si ricoverò nella città di Saturnia. E siccome stette in Italia nascosto (latuit) ne venne a quella regione il nome di Latinus.» Gli Arpinati sostengono positivamento, che la loro città sia stata fondata da Saturno, (imperocchè quale si è la città latina la quale non lo ripeta per fondatore?) e che ivi sia stato sepolto; in prova del chè additano ai viaggiatori presso la porta dell’Arco il così detto monumento, antico sepolcro di costruzione gigantesca, a cui danno nome di tomba di Saturno. In una iscrizione moderna della città alta, si leggono poi le parole seguenti le quali per certo non peccano di soverchia modestia «Arpinum a Saturno conditum, volscorum civitatem Romanorum Municipium Marci Tullii Ciceronis eloquentiæ principis et Caii Marii septies consulis Patriam ingredere viator; hinc ad imperium triumphalis aquila egressa, urbi totum orbem subiecit eius; dignitatem agnoscas et sospes esto. Del resto si può perdonare alquanto di vanità ad una città cotanto antica stata stanza di Saturno, e patria di Mario, e di Cicerone. Lo stemma attuale di Arpino consiste in due torri sormontata dell’aquila di Giove, e delle legioni romane, conquistatrici del mondo.

Si può ancora concedere al canuto Saturno di riposare in quella tomba colossale, ma l’ingenuità degli Arpinati varca ogni limite quando additano al forastiero la casa di Cicerone. Mi si portò in un angolo della città antica dove sorgevano una cappella ed alcune casipole, ed additandomi una specie di stalla tutta nera, addossata ad una di quelle, mi si disse «ecco la casa del famoso Cicerone.»

Mi fermai per riposarmi sulle mura ciclopiche, godendo della vista stupenda della campagna latina, che tutta si scopre da quella altura. Il monte di Sora mi apparve di là quasi una piramide d’Egitto; la città era immersa nell’ombra di questa, e si poteva tener dietro al corso del Liri, fra i monti maestosi che lo fiancheggiano. Si scorgevano di [p. 100 modifica]là la Posta dove ha la sua sorgente il Fibreno, i Sette Fratelli dedicati ai figliuoli della Felicità, dove il monaco Alberico ebbe la visione famosa la quale precedette quella di Dante, e probabilmente diede origine al poema di questi. Parecchie altre città e castella, si staccavano biancheggiando dall’azzurro dei monti; nelle Romagne si scorgevano Veroli, Monte S. Giovanni, Frosinone, Ferentino, ed a fianco un monte piramidale di forma strana, sul quale sorge la Rocca d’Arce; ed un altro sul quale campeggia nel cielo la torre solitaria e bruna di Montenegro.

Tutte quelle città risalgono ai tempi di Saturno, e contemplandole da quelle mura ciclopiche, si vive per così dire nella più remota antichità.

Su queste mura stesse si arrampicava un giorno, provando e sviluppando le sue forze il giovane plebeo Caio Mario, nell’epoca in cui tutti i popoli, dalle Calabrie al Liri ed al mare Adriatico, erano insorti per i loro diritti civili, e di là gittava il giovanetto lo sguardo verso il Lazio, verso quella gran Roma, alla quale erano rivolti nelle provincie i pensieri di tutti coloro che anelavano all’operosità, alla fortuna. E per dir vero questo ciclopico Arpino vuol essere ritenuto per culla adatta al sanguinario Mario, per vera culla di un gigante, la cui terribile e rozza natura porge un non so che di ciclopico, posto a contatto principalmente di quella tutta aristocratica di Silla, il quale con arti volpine gli attraversa di continuo la strada, ed arresta costantemente il corso della sua fortuna.

Tutto Arpino è popolato dalle memorie di Mario, e di Cicerone. Uno si trova quivi ad una delle sorgenti della storia, che si visitano colla soddisfazione che procura nell’ordine fisico la ricerca delle fonti modeste, da cui hanno origine i grandi fiumi, i quali diffondono nel loro corso la fertilità, e la vita. La scienza di Cicerone si può paragonare ad un fiume regale della letteratura antica accresciutosi nei secoli del medio evo, ed al quale ancora oggidì si ricorre con frutto, merito questo positivo, che non valgono a monomare nè la sua vanità, nè la sua debolezza [p. 101 modifica]di carattere. Mario per contro fu uomo di grande energia, ed il suo nome segna un’epoca nella storia di Roma, e dell’impero, ove si ponga mente alla grande spinta da lui data a Roma ed al mondo. Senza di lui non sarebbe sorto l’impero; ed Augusto, Tiberio, Caligola, tutta quella serie di despoti, tutte quelle proscrizioni dell’umanità, possono dirsi aver avuta origine da Mario, ed essere stata Arpino la caverna del dragone, di dove uscì l’impero romano.

La figura africana di Giugurta, il suo fine terribile nelle prigioni del Campidoglio, i Cimbri ed i Teutoni, i quali profetarono in certo modo la rovina di Roma per opera delle razze germaniche, la terribile guerra civile, la figura asiatica di Mitridate, Mario nascosto nelle paludi di Minturno, Mario profugo seduto sulle rovine di Cartagine; Mario vecchio di settantadue anni, il quale entra in trionfo a Roma; l’uccisione dei promotori della proscrizione, e cosa strana! La morte tranquilla di un tal uomo; tutto ciò mi veniva in mente, e mi si presentava davanti agli occhi, nel mentre stavo seduto sulle mura ciclopiche di Arpino. Quindi pensavo a Cicerone giovanetto, quando Mario era canuto; alla caduta della republica di cui fu testimonio, stata preparata dalla lotta fra Mario e Silla. Attorno a Cicerone sorgevano le imagini degli oratori, degli uomini di stato più distinti della morente republica; le imagini di Cesare, di Pompeo, di Antonio, di Ottaviano, di Bruto, di Catone, di Cassio, di Attico, di Agrippa, e finalmente l’imagine della testa sanguinosa di Cicerone stesso, esposta su quella tribuna, teatro le tante volle, della splendida sua eloquenza!

L’imaginazione del mio lettore potrà completare queste considerazioni storiche, conseguenza naturale della situazione dove mi trovavo, e che avrebbe fatto desso al pari di me, quando si fosse trovato solo, dove sorgeva la rocca di Arpino. Nella stessa guisa che esistono punti elevati dai quali si scopre tutta la vista di una campagna, esistono punti dai quali appare tutto il panorama della storia. Arpino è uno di questi punti, e nello scendere da [p. 102 modifica]quell’altura mi ricorreva alla memoria il passo di Valerio Massimo, in cui riassumeva concisamente, ma esattamente, la natura e la vita di Mario. «Da questo Mario, da questo Arpinate d’infima condizione, da quest’uomo ritenuto per ignobile in Roma, da questo candidato preso poco men che a dileggio, sorse quel Mario il quale soggiogò l’Africa, il quale trascinò il re Giugurta avvinto al suo carro; il quale debellò le orde dei Teutoni e dei Cimbri; il quale entrò per ben due volte trionfatore in Roma; fu ben sette volte console; da proscritto diventò promotore di proscrizioni. Fuvvi vita nella quale al pari della sua abbondassero i contrasti! Di lui si può dire che fu tra gli infelici infelicissimo, tra i fortunati fortunatissimo.»

Il rozzo Mario, e l’astuto Silla colla sua fisionomia pallida, col suo aspetto neghittoso, effeminato, svogliato, sprezzatore di ogni cosa, e dominatore ad un tempo di ognuno e di ogni cosa, sono pure due delle figure storiche più caratteristiche della antica Roma. Intanto, sulla piazza di Arpino, l’ultima cosa alla quale si pensasse oggi 4 ottobre, era la storia romana; era il giorno natalizio del re Francesco II, e della regina sua consorte. I ritratti dei giovani coniugi reali stavano esposti in una specie di loggia, direi quasi di teatrino nel palazzo municipale, e scorgevasi colà la imagine di una graziosa principessa bavara, di una figliuola di quei Teutoni e di quei Cimbri debellati un dì dal terribile Mario. Tutto si va mutando al mondo! Sorge sulla stessa piazza un grande edificio, nella facciata del quale stanno allogati entro apposite nicchie i busti di Mario, di Cicerone, e di Agrippa, imperochè anche quest’ultimo, secondo i buoni Arpinati, nacque nella loro città. Sotto ai busti si legge la seguente iscrizione ampollosa Arpinum a Saturno conditum Romanorum Municipium, M. Tullii Ciceronis, C. Marii, M. Vipsanii Aprippæ, Alma Patria. Quell’edificio porta nome di collegio Tulliano, e vi hanno stanza i gesuiti. Le finestre erano tutte aperte; e si vedevano i padri colla loro sottana nera i quali prendevano dessi pure parte alla festa. Sulla [p. 103 modifica]piazza stava suonando un banda musicale, vestita in modo abbastanza ridicolo, e si gridava Viva il Re! La banda si mosse, ed andò fare accoglienza solenne al giudice, il quale prese posto dietro quella non già rivestito della toga color di porpora, ma in abito nero e guanti gialli, fiancheggiato dal sindaco e dal primo eletto, i quali parevano felici del loro abito nero e dei loro guanti gialli dessi pure. Si gridò di bel nuovo «Evviva il Re!» ed il corteggio si portò alla cattedrale. Alla sera vi fu musica, o per parlare con più esattezza chiasso diabolico sulla piazza, al quale si dava nome di concerto; vi furono parimenti fuochi artificiali, o per dir meglio razzi e mortaretti, come nelle feste di chiesa.

Non voglio poi dimenticare che Arpino vanta ancora una celebrità moderna, un pittore, Giuseppe Cesari, conosciuto sotto il nome del cavaliere d’Arpino. Al pari di Cicerone e di Mario andò a Roma per farvi fortuna, ed ivi dipinse, fra le altre cose, la grande sala nel palazzo dei Conservatori, dove rappresentò a fresco fatti della storia romana; le sue pitture murali, pregevoli particolarmente per il colorito, sono ritenute fra le migliori del fine del secolo XVI. La cattedrale di Arpino possiede una bella Madonna, del suo penello.

Partii di Arpino in un curricolo, per recarmi a Montecassino. La strada sale per una collina coltivata tutta ad olivi. Si gode la vista del finitimo territorio romano, ombreggiato qua e là da pioppi, e si passa a fianco dell’alto e pittorico Monte S. Giovanni. La regione montuosa a sinistra, è poco meno che deserta; di quando in quando si scorge una antica torre del medio evo, come quella di Montenegro, od un antico castello come quelio di Santo Padre. Si arriva sopra un’altura imboschita, che divide le acque del Liri da quelle della Melfa, e si passa in vicinanza di Fontana e di Arce, senza però toccarle.

Quest’ultimo ha propriamente l’aspetto di una fortezza inespugnabile, e tale difatti era ritenuta durante il medio evo; però si arrampicarono colassù, e se si impadronirono i [p. 104 modifica]Provenzali di Carlo d’Angiò, non meno svelti ed arditi degli zuavi dell’epoca nostra. La caduta di Arce sgomentò tutte le città ghibelline del regno, e fu il preludio della sconfitta di Manfredo.

Questa antica rocca dei Volsci sorge sur una rupe alta, scoscesa, dove tuttora ne rimangono le vestigia, attorniate da mura ciclopiche, mentre la città moderna si stende sul pendio del monte. La disposizione di tutte le città è identica; in alto la rocca, al disotto la città. Nella rocca si rifugiavano al medio evo gli abitanti della città e delle campagne, quando erano minacciati dalle scorrerie degli Ungari e dei Saraceni. Non è possibile percorrere le sponde del Liri, ed in particolare la pianura ridente di Acquino senza ricordare il terrore che vi hanno sparso un tempo i Saraceni. Non meno di trent’anni funestarono questi la contrada vicina al Liri ed al Garigliano, fin presso Minturno, di dove sboccavano in quella dei Tusci e nella Sabina; saccheggiarono e distrussero i monasteri di Montecassino, di S. Vincenzo al Volturno, di Subiaco, e di Farfa, riducendo in cenere gli archivi e le biblioteche, perdita questa irreparabile. Furono scacciati in agosto del 916 mercè una lega italo bizantina, per opera dello energico Papa Giovanni X, e pertanto un Papa fu quello, il quale ebbe vanto di avere liberata l’Italia di quei barbari.

Al di sotto di Arce havvi una dogana, denominata le Murate, dove mi fu richesto il mio passaporto, ma dove per buona sorte non fu visitato il mio bagaglio. Avevo presa la precauzione coll’aiuto del mio auriga, giovane arpinate molto disinvolto, di nascondere accuratamente nella carrozza un libro, ed il manoscritto del mio giornale di viaggio, che cavammo in trionfo fuori dal loro nascondiglio, appena oltrepassata la dogana. Stavano dovunque truppe, le quali erano accampate, e si andavano esercitando su questo antico teatro di tante guerre, e portavano per tal guisa sempre più il mio pensiero a ricordare gli avvenimenti storici di queste stupende contrade, imperocchè qui appunto, comincia il territorio sto[p. 105 modifica]rico dell’Italia meridionale. In principio del medio evo era diviso in tre gruppi; negli stati longobardi di Benevento, Salerno, e Capua, in quello bizantino delle Calabrie, e nelle repubbliche marittime di Napoli, Amalfi, Gaeta, e Sorrento. Tutte queste regioni vennero più tardi in possesso dei Normanni. Mentre tutti questi diversi elementi Longobardi, Greci, imperatori germanici, Papi, repubbliche, Saraceni, ereno fra di loro in continua lotta, la storia dell’Italia meridionale diventa un vero caos. L’inferno di Dante non può dare che una debole idea di tulti gl’intrighi, passioni, delitti, arti diaboliche, che si muovevano, si agitavano in tutti quegli stati, in quelle corti, che a lungo funestarono questa bella parle della penisola. Manca tuttora la storia di que’ tempi in queste regioni; dessa è un vero labirinto. Montecassino possiede tuttora molti elementi di essa nelle sue collezioni di diplomi, particolarmente in quelli di Gaeta. L’opera rinomata di Giannone, pregevolissima nelle parti che riguardano l’ordinamento civile, e quello della giustizia, non è sempre esatta nel resto, e non corrisponde più al grado attuale della scienza.

Arrivammo poscia al ponte sulla Melfa, la quale non ha mutato l’antico suo nome, e che trovasi tuttora, in ottobre, torrente pressocchè asciutto, nell’ampio suo letto sassoso. Vuolsi abbia segnato desso una volta i confini fra gli stati della Chiesa, o ducato di Roma, e quello longobardo di Benevento, ma la cosa è tutt’altro che sicura, ed è più probabile che, in allora come attualmente, il Liri dividesse i due stati. Stavano accampati in vicinanza al fiume, attorno ad una pila di fieno, soldati di cavalleria; le loro lancie con le banderuole rosse piantate in terra, bel soggetto per un pittore fiammingo.

Poco dopo varcato il ponte si apre l’estremo Lazio, la bella campagna di Pontecorvo e di Acquino, irradiata dal sole, ed attraversata dalla strada stupenda che porta a Capua. Sorge a sinistra la catena degli Appenini, e si scorgono la vetta del Cimerone, ed i Borghi di Castello, Rocca Secca, Palazzuolo, Piedimonte; più in là sorge il [p. 106 modifica]Monte Cairo, scopo di nostra gita, e già si scorgono gli edifici grandiosi e le cupole di Montecassino, l’Atene rinomata del medio evo, faro della scienza nella cupa notte di quei tempi. Colà Paolo Diacono scrisse la sua storia dei Longobardi.

A diritta della pianura si scorgono le cime azzurre dei monti Volsci, di natura indentica a quelli di Segni e di Gavigliano, e si vedono S. Giovanni in Carico, Pontecorvo, il piccolo territorio pontificio già principato di Bernadotte, e più lontano Oliva, Rocca Guglielma, ed altri. Il Liri corre ai piedi dei monti, a traverso campi deliziosi, che pare abbandonare a stento, perchè allunga la sua strada con mille sinuosità; ad ogni passo accoglie il tributo di un rivo o di una torrente, ed è propriamente bella qua e là, la vista delle sue acque le quali splendono ai raggi del sole. Con qual diletto non devono avere quivi soggiornato i Saraceni, che sponde più amene non trovarono sul Guadalquivir, nè sul Sebeto, nè sul fiume Ciane. Moltiplici popoli dopo l’era romana funestarono della loro presenza queste belle contrade; i Visigoti con Alarico ed Atalulfo, i valorosi Goti di Totila e di Teia, gli Isauri, gli Unni, i Sarmati, i Greci; le orde terribili di Lotario, e di Bucellino; i docili Longobardi i quali finirono per occupare tutte queste terre, per coltivarle e farle rifiorire; gli Arabi, gli Ungari, i Normanni, i Francesi, i Tedeschi, gli Spagnuoli, tutti quanti qui si accamparano, vi guerreggiarono; tutti quanti comparvero nella Campania felice chiave del reame di Napoli.

Vedemmo pure più lontano i monti di fronte a S. Germano, su cui sorgono Rocca di Evandro, S. Elia, S. Pietro in Fine, e dai quali emerge il magnifico Acquilone. La maggior parte di questa bella pianura apparteneva alla diocesi di Montecassino, e parecchi di questi borghi, di queste città, vanno debitori a quel monastero della loro esistenza. Questa parte estrema del Lazio non possicde la grandiosità severa della campagna di Roma; tutto vi è di tinte più calde, più dolci, più meridionali, la coltivazione vi è migliore, e vi sono minori le colline. [p. 107 modifica]

Essendo giorno di fiera in S. Germano, incontrai per istrada molti contadini. Vestono come nella valle del Sacco e portano qui pure i sandali; ma le donne a vece del busto portano larghi nastri che scendono dalle spalle, e due vesti di cui la superiore fatta a guisa di grembiale, il tutto di aspetto groziosissimo.

A questo punto invito il mio lettore ad abbandonare la strada di Capua, ed a piegare a diritta verso Acquino, il quale giace in mezzo alla pianura. Attraversiamo con piecere la linea recentemente ultimata fino a questo punto della strada ferrata di Capua, la quale non può essere ancora attivata, imperocchè se il governo napoletano si affrettò e compierla sul suo territorio, quello pontificio trovasi in ritardo a costrurla sul suo, dove non giunge che poco oltre Albano.

In un quarto d’ora, ed a traverso campi coltivati a gran turco, si arriva ad Acquino. Questa città, grande ai tempi dei Romani, è ora un borgo lungo e stretto, dal quale non sorge che un campanile. La sua posizione, a fianco di un rivo, non ha nulla di distinto, se non che sono bellissimi per ricchezza e per frescura di vegetazione i suoi dintorni, ed è poi stupendo il suo orizzonte. Esistono tuttora in vicinanza alcune rovine della città romana, avanzi di porte, di mura, reliquie dei tempii di Cerere e di Diana, in complesso però, nulla di rimarchevole. Stanno presso il rivo le rovine di una chiesa del secolo XI, S. Maria Libera, basilica a tre navate, sulla porta della quale si scorge tuttora una Madonna in mosaico, opera bizantina, in oltimo stato di consercazione. Sorgono per tanto vicine le une alle altre le rovine d’Acquino romano e di quello del medio evo, ed a quelle due epoche parimenti appartengono le celebrità della città.

Vanta pure Acquino un imperatore romano ma degl’infimi, Pescennio Nigro, il quale vi nacque in umile condizione al pari di Mario. Prode soldato, si distinse quale generale in Siria; dopo l’uccisione di Pertinace vestì la porpora, ma la dovette cedere ben tosto all’Afri[p. 108 modifica]cano Settimio Severo, il quale lo balzò dal soglio, e lo fece prima imprigionare, poi decapitare. Maggior gloria procurarono ad Acquino due altri suoi figli. Sono due figure le quali rappresentano due epoche, e che si possono luna all’altra contraporre come le rovine di un tempio romano, e quelle della basilica di S. Maria Libera. Imperocchè può sussistete un contrasto maggiore di quello che passi fra Giovenale, e S. Tommaso di Acquino, fra il grande poeta satirico della corruzione pagana di Roma, ed il più grande filosofo della sacra teologia scolastica, il quale ottenne il nome di dottore angelico? Si direbbe che questi due contrasti abbiano voluto prodursi entrambi in Acquino, nella stessa quisa che la corruzione pagana di Roma richiedeva la rigenerazione cristiana.

Giovenale ci porta immediatamente in quelle condizioni di Roma, preparate da Mario e confermate dalla stirpe Giulia dopo la caduta della repubblica; in quella Roma, pantano sanguinoso, putrida palude morale, menzogna in tutto, dove ogni cosa era avvelenata, in quella Roma fisicamente e moralmente ammalata, vile in tutto; dove patrizi e cittadini si affollavano famelici attorno ad un despota onnipotente, terribile core il destino; dove pensiero, parola, penna, erano avvinti in ceppi; dove unica libera era l’adulazione; dove non si rinvenivano che idee servili, libidine di piaceri ed una mostruosa prostituzione contro natura; dove in quella folla lasciva, e dominata dal terrore, alcuni spiriti stoici in sè raccolti davano sfogo ai loro sensi per mezzo di satire o di storie, non appena consentivalo un despota più temperato degli altri.

Giovenale era nato in Acquino; poco però si sa della sua vita, come di quella della maggior parte dei poeti dell’antichità, la qual cosa però non torna per nulla a loro danno. Le loro persone assumono per tal guisa in certo modo l’aspetto di un mito. Nessun erede, parente, od amico indiscreto pubblicò la loro corrispondenza; nessun giornalista descrisse con esattezza scrupolosa il loro aspetto esteriore nei più minuti particolari, non li accompagnò [p. 109 modifica]passo a passo nella loro vita partendo dalla culla; non tenne conto delle loro virtù, dei loro vizi, dei loro errori, dei loro debiti presso gli Ebrei e Cristiani, d’ogni altro loro più minuto affare. Due pagine bastano alla vita oscura di Orazio, di Virgilio, di Ovidio; della morte di Eschilo, di Euripide, non rimane che tradizione favolosa; l’arguto Terenzio scomparve tranquillamente in qualche angolo dell’Ellade, presso la palude Stimfalica. Di Giovenale unicamente da un suo verso, apprendiamo esser egli nato in Acquino. Venne desso esiliato in Egitto od in Iscozia? Dove cessò di vivere? Nessuno lo sa. La sua lunga vita fu a vicenda rattristata, od allietata dai regni di Claudio, Nerone, Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano, Nerva, Traiano, ed Adriano; fu spettatore dei più grandi contrasti; vide sul trono, che dettava leggi a tutto il mondo, una serie di demoni feroci, ed una di principi buoni; vide tempi miserrimi, e tempi felicissimi.

E facile quindi imaginarsi quali idee abbia dovuto formarsi della vita, quali sensazioni abbia dovuto provare un uomo di mente e di cuore, il quale all’aspetto truce di un Nerone, potè controporre la fisonomia serena di un Tito.

Se desso non avesse vista quella doppia serie di imperatori, se a vece di essere nato sotto Claudio, fosse nato ai tempi di Tito, probabilmente non possederessimo le satire di Giovenale; se non che le impressioni della gioventù diedero la direzione allo spirito di lui, ed in sostanza poi la società romana ai tempi di Tito era tuttora la stessa di quella dei tempi di Nerone. Povero Giovenale, condannato ad essere il poeta della sua età, all’epoca in cui l’umanità si andava corrompendo sotto l’azione del dispotismo! La sua lingua, la sua narrazione già oscura, difficile, serrate come quelle di Tacito sotto il peso della atmosfera romana, sotto la stretta della sua amarezza, dovettero esercitarsi sopra argomenti ai quali non sarebbero stati adatti nè il marmo nè l’argilla, ma unicamente il fango. Chi può leggere senza ribrezzo le sue due satire [p. 110 modifica]sugli uomini, e sulle donne di Roma? Chi non può compiangere un ingengo eletto come il suo, condannato a cercare le sue ispirazioni in quel pantano morale della socielà romana a suoi tempi! Facit indignatio versum, qualemcumque potest!

Si paragonò, e per dir vero con qualche verità, Giovenale a Tacito, il suo grande e nobile contemporaneo; ma lo storico di quell’epoca aveva almeno la coscienza di chiamare il dispotismo davanti al tribunale supremo della posterità, sempre pronto a pronunciare le sue sentenze. Ma chi, o qual cosa può confortare il poeta satirico, od il pittore della impudicizia, nel ribrezzo che deve provare a descrivere la generale corruzione de’ suoi tempi? Eppure, quanto non è superiore Giovenale ai romanzieri ed ai dramaturgi dei tempi nostri, i quali vilmente descrivono il vizio sotto ai più bei colori, e ci porgono assassini vilissimi, quasi tipo dell’ideale? Teniamoci almeno fortunati noi Tedeschi che se non possediamo nella nostra letteratura un Giovenale, non abbiamo neppure un Alessandro Dumas, e siamo tuttora in grado di deporre una corona non contaminata in capo ad uno Schiller: il poeta generoso della libertà, e dell’ideale nell’umanità.

Ambedue quei Romani, Giovenale al pari di Tacito, lamentarono la perduta libertà repubblicana; ambedue disperarono dell’avvenire, il quale non appariva loro diversamente da un abisso, Giovenale però in maggior grado che Tacito. Ed in faccia a dessi, di già sorgeva, conosciuto soltanto quala setta giudaica, il Cristianesimo, ideale tuttora velato, di una umanità ringiovanita. Ed intanto i Germani, di cui Tacito ammirava la schietta naturalezza e la semplicità eroica, apparrecchiavano ad abbattere in Roma il dispotismo e la menzogna.

Il Cristianesimo! Siamo nelle rovine di Acquino, e fra i ruderi di S. Maria Libera appare un santo illustre, il dottore Angelico. Veste l’abito dei frati Domenicani, tiene un fascio di libri sotto il braccio, è di statura alta, asciutto, cammina curvo, ha testa voluminosa, faccia abbronzata e [p. 111 modifica]rugosa, però molli carne, quæ acumen ingenii et excellentian indicaret.

Erano trascorsi mille anni da Giovenale e da Tacito allorchè nel 1224 Tommaso nacque, non già in Acquino stesso ma nel pittorico castello di Rocca Secca, edificato dall’abate Manso di Montecassino, sul monte Asprano verso il fine dal secolo X. Appartenne questo poi ai conti longobardi di Acquino, dell’antica famiglia Landolfo. Il padre di Tommaso era il conte Landolfo, sua madre Teodora Caracciolo, e suo zio, Landolfo era abate di Montecassino. Allorquando il ragazzo ebbe cinque anni, i suoi genitori lo portarono nel monastero di S. Benedetto, colla speranza fosse per diventare ivi abate un giorno. Fu sempre costume dei Benedettini quello di accogliere fra monaci ragazzi dì tenera età, e lo mantengono tuttora. Don Luigi Tosti, uno degli storici più illustri d’Italia, Don Sebastiano Calefati l’erudito bibliotecario, uomini prestantissimi i cui nomi saranno ricordati sempre con gratitudine da parecchi letterati tedeschi, entrarono nel monastero di Montecassino in età di otto anni. Tommaso dimorò nel monastero sette anni, quindi si portò a Napoli, dove attese per altrettanti anni allo studio della teologia, vestì l’abito dei Domenicani, quindi andò studiare a Parigi, ed in Colonia, trattovi dalla fama di Alberto Magno; fu professore a Napoli, e morì il 7 marzo 1274 nel convento dei Cisterciensi di Fossanova presso Piperno, alla distanza di poche ore della sua patria. Fu uno degli uomini più illustri del medio evo, siccome quello che propriamente introdusse la filosofia nella teologia, ovvero ridusse questa a sistema filosofico. Quando si nomina in oggi la scolastica, si pensa, non a tordo, ad un laberinto di definizioni, di sottigliezze, di distinzioni, che tenne per il corso di molti secoli imprigionato l’ingegno umano. Chi può oggi ancora immergersi nella Somma di Tommaso d’Acquino, in quel fitto ginepraio del pensiero aristotelico cristiano? Noi consideriamo attualmente quella filosofia gotica quale un’anticaglia; tutte quelle distinzioni, tutte quelle ricerche [p. 112 modifica]morali e speculative, tutti quei problemi privi di utilità posiliva, non porgono più interesse nè a chi tenda a scopo pratico e materiale, nè a chi ami spaziare liberamente nelle regioni del pensiero. Però non dobbiamo dimenticare, che anche quel sistema fece progredire la scienza, ed ammettere che a fronte degli alti problemi che può affrontare l’ingegno umano, anche i filosofi del secolo XIX, non ne sanno quasi più che gli scolastici del medio evo, od il primo uomo nel paradiso terrestre.

Mi allontanai intanto di Acquino, soddisfatto di averlo veduto. Tornammo sulla strada di Capua, ed in poco men di un’ora arrivammo ai piedi del Monte Cairo, girammo il monte avendo davanti agli occhi l’anfiteatro di S. Germano, questa città stessa di gaio aspetto, e sormontata dal rinomato castello di Janula; e finalmente Montecassino. Se non che è oramai tempo di chiudere queste pagine, le quali furono forse anche troppe. E se ci facciamo a considerare tutto quanto ci venne fatto di osservare, tutto quanto ci fu richiamato alla memoria, suggerito di pensare in contanto breve tratto di strada, non si potrà a meno di considerare con stupore la ricchezza di queste contrade. In nessun’altra vi fu tanto sviluppo di vita. La natura e la storia ebbero sempre predilezione per l’Italia, ed ogni epoca, ogni periodo di civiltà, lasciò in questa la sua impronta.

L’Italia fu pure la madre della civiltà in occidente. Se dessa ora sarà veramente per risorgere, per prendere il suo posto quale nazione indipendente, fra tutti quei popoli i quali dopo avere da essa ricevuta la propria educazione, a vicenda la occuparono, la signoreggiarono, la devastarono, nulla vi sarà in ciò di strano, imperocchè l’Italia è pure una nobile terra degna d’affetto! Ed anche in mezzo a tutti i rivolgimenti dell’età presente, in questa confusione di errori e di verità, non possiamo a meno noi pure Tedeschi, di far voti per lo affrancamento di questa bella contrada.