Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. I/Capitolo II

Capitolo II

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Capitolo I Capitolo III

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CAPITOLO II.


Pellegrino Bossi da Ginevra a Parigi e da Parigi a Roma.


(Periodo francese 1833-1846).


Per la verità storica è necessario rilevare che, se Pellegrino Rossi era rimasto — come affermava lo Cherbuliez — italiano fino alla punta delle unghie nei suoi diecisette anni di residenza a Ginevra, in tutti i suoi atteggiamenti esteriori e di pensiero, egli era rimasto sempre e ugualmente italiano nei sentimenti e negli affetti: la fiamma dell’amor di patria gli aveva riscaldato sempre il petto. Egli si era sempre mantenuto in relazione co’ suoi amici liberali d’Italia, e specialmente coi Romagnoli, come risulta da due documenti esistenti nel Museo del Risorgimento italiano presso il Municipio bolognese, documenti rimasti ignoti ai precedenti biografi di Pellegrino Rossi, e che io per la prima volta pubblico. Dal primo di essi risulta come la polizia del restaurato governo pontificio temesse e vigilasse il Rossi, intimando, fin dal 1815, all’avvocato Casoni, amicissimo di lui, di consegnare tutta la corrispondenza che gli aveva lasciato in un pacco sugellato in presenza di molte persone il professore profugo1. Questo fatto spiega le precauzioni che prendeva il Rossi nel corrispondere poscia col Casoni, assumendo i nomi di Antonio Fratti e di Girolamo Storti2. Il secondo documento, assai più importante, è la minuta del memoriale che il Rossi inviava dalla Svizzera ai suoi amici bolognesi perchè lo mandassero ai Cardinali che stavano, dopo la morte di Leone XII, per [p. 56 modifica]riunirsi in conclave a Roma, nel febbraio del 1829. In quel memoriale, che doveva esprimere le aspirazioni e i desideri delle popolazioni, dopo esposti i molti mali da cui era afflitto, da tanto tempo, lo stato pontifício, era detto, con forma molto insinuante e rispettosa, ma con nettezza di pensiero, che «un solo può essere il rimedio efficace e principale di tutti; stabilire delle leggi organiche che siano come fondamento del pontifício governo. Abbia una volta lo stato pontifício quello di che non mancano ormai appena gli stati più lontani da civiltà; quello che, per la sua natura di elettivo, più facilmente di ogni altro potrebbe avere».

Se i lettori vorranno scorrere fra i documenti annessi al presente volume il memoriale del Rossi, vi troveranno uno stile quasi agghindato e certe locuzioni ricercate che fanno testimonianza di quella specie di purismo a cui Pellegrino Rossi si era, a quel tempo, abbandonato nella sua Accademia dei Fllodicologi, fra le lautezze linguistiche di Paolo Costa e di Monsignor Pellegrino Farini.

Tutte le idee contenute in questo memoriale il Rossi poi le sviluppò più radicalmente nella lettera al Guizot, quando si accorse che la Curia romana era sorda ed impenitente3. In fatti il 10 aprile 1832 il Rossi scriveva al Guizot - che, allora, non era ministro - una lettera da questo conservata alla storia4 e la quale indubitatamente attesta come, anche in quei momenti, in cui la mente del Carrarese doveva essere ed era intesa a cure tanto gravi e diverse, essa fosse, come sempre, rivolta all’Italia sua. Il Rossi, evidentemente, non poteva assistere, impassibile, alla sciagurata politica del ministro Casimiro Perderla quale era pure appoggiata dal Guizot - nelle vicende della penisola.

[p. 57 modifica]Le altisonauti promesse dei ministri francesi, i quali clamorosamente avevano affermato la Francia liberale non essere disposta a tollerare intervenzioni armate della Santa Alleanza negli stati europei in cui avvenissero movimenti liberali, avevano prodotto, come è noto, il loro effetto: Parmegiani, Modenesi e Romagnoli, nel febbraio del 1831, si erano sollevati contro i loro governi; le milizie austriache erano intervenute e avevano represse quelle sollevazioni, senza che la Francia avesse fatto alcuna opposizione; e solo avevano ottenuto i ministri francesi, che, represso il movimento insurrezionale, gli Austriaci sgomberassero tosto lo stato romano. Ma, appena i Croati si furono allontanati, avvenne in Romagna un nuovo rivolgimento, onde gli Austriaci tornarono ad invadere le Legazioni e le milizie francesi occuparono Ancona. Se si fosse dovuto badare alle parole risonanti alla tribuna francese, così sovrabbondevole sempre e romoreggiante di frasi, l’occupazione d’Ancona si era effettuata nell’interesse dei principii liberali e a beneficio delle oppresse popolazioni italiane; ma, alla stregua dei fatti, risultò che quella occupazione era stata determinata, e fu mantenuta per sei anni, al solo scopo di equilibrare la soverchia influenza dell’Austria in Italia, a solo vantaggio della politica interna ed esterna della Francia. Ora il Guizot aveva chiesto all’amico Pellegrino Rossi il suo pensiero su quella politica e questi, che sperava e aveva fede in quei coperti, e pur puerili, avvolgimenti della nuova monarchia francese, rispondeva all’amico: «Voi pensavate a me, e non v’ingannavate pensando che dell’Italia io mi occupava: essa è il mio pensiero di tutti i giorni e lo sarà finché avrò un soffio di vita. Ho compreso il vostro sistema, come voi avete compreso il mio cordoglio. Non si può impedire all’ammalato che ha fame di lamentarsi, anche quando il medico è obbligato ad essere inesorabile. Voi mi domandate quali sono i miei sogni e le mie speranze ragionevoli. Lasciamo stare i sogni, tutti ne fanno: i! crederci è cosa diversa; il trattarne seriamente in iscritto è anche peggio. Le mie speranze, suggerite dal buon senso, sono più facili a dirsi... Io spero che l’Europa sia ormai convinta che la rivoluzione, nel senso di una profonda incompatibilità fra il presente sistema di governo e le popolazioni, è penetrata fino nelle viscere del paese. Ogni opinione [p. 58 modifica]contraria è una vera illusione. Si sgombri domani lo stato romano, lasciando le cose presso a poco come sono e poi si vedrà dopo domani. E la rivoluzione non si arresterà più al territorio delle Legazioni e delle Marche. Io spero, quindi, che il governo francese, nel momento di richiamare le sue truppe, insisterà gagliardamente sopra riforme sinceramente proporzionate ai bisogni. E spero che, tra le riforme, vi sarà quella dell’amministrazione generale, se non esclusivamente, almeno essenzialmente laica; un’amministrazione comunale e provinciale che non sia una chimera: un Consiglio centrale di governo composto, almeno in parte, di delegati delle provincie con voto consultivo: un cambiamento radicale nell’amministrazione della giustizia; una commissione legislativa incaricata di preparare, senza ulteriori indugi, la riforma delle leggi civili, criminali e commerciali, finalmente un ordinamento militare che non sia opprimente pel paese, nè tale da gettarlo in preda all’anarchia, o al furore di una soldatesca prezzolata ed infame»5.

E, dopo espresse, cosi, quelle che erano le aspirazioni ad un tempo e le speranze dei patriotti italiani, ma specialmente dei Romagnoli, Pellegrino Rossi, impenitente nelle sue antiche opinioni e nelle vecchie diffidenze contro il governo teocratico, eccita l’amico suo e i ministri francesi a non farsi illusioni, affermando che Roraa è sempre Roma, e che il Papa prometterà riforme fino a che i Francesi saranno in Italia, ma che poi nè esso, né l’Austria - senza garanzie positive - non rispetteranno le fatte promesse». Ed egli assicurava, con grande calore, il Guizot che, non provvedendo a sanare quella piaga, appena partite le milizie straniere dallo stato romano, vi avverrebbero nuovi rivolgimenti, non importa se bene o male ordinati, se bene o male indirizzati, ma tali sempre da mettere a pericolo la politica pacifica che voleva seguire il governo francese. E, alla fine della lettera, il Rossi si spingeva fino a suggerire, come rimedio a tanti mali, la costituzione delle Romagne e dell’Umbria in governo autonomo, tributario del Papa, sotto la triplice garanzia della Francia, dell’Inghilterra e dell’Austria.

[p. 59 modifica]E poiché mi trovo su questo punto delle opinioni professate da Pellegrino Rossi intorno alla potestà temporale dei Papi, antecedentemente alla sua venuta in Roma, importa che io inviti il lettore a soffermarcisi un momento, essendo cosa assai interessante conoscere ciò che pensasse nel 1833, a proposito del Papato, quest’uomo che darà, sedici anni appresso, la propria vita, per farne fragile e vano puntello al trono di Pio IX.

In un articolo, in cui Pellegrino Rossi esaminava, nel 1833, la Storia della Francia sotto Napoleone, scritta dal signor Bignon6, investigando il bene e il male della politica seguita dall’Imperatore verso il Papato, egli scriveva: «Il Papa e Napoleone erano due potenze che non si conoscevano fra di loro: Napoleone non comprendeva più la forza del capo del cattolicimao; Roma ignorava l’importanza del principio rappresentato da Napoleone, la possanza della rivoluzione.

«Nati nella medesima culla, il Cristianesimo e il 1789 ignoravano ancora la loro comune origine e la stretta loro parentela. E nondimeno la pace del mondo e il progresso della nuova civiltà non saranno assicurate che il giorno in cui questo riconoscimento sarà avvenuto e la pace fraterna sarà suggellata...

«Verso Roma non c’erano che due sistemi da adottare: o star fermi al concordato e affidare il resto all’azione lenta, ma sicura, del tempo e dell’esempio. Circondata da governi nuovi, da nuove istituzioni, da popoli imbevuti delle nuove dottrine sociali e politiche, impossibilitata d’impedire l’entrata di queste dottrine nei suoi stati, che avrebbe potuto Roma?

«Il potere temporale sarebbe un giorno caduto dalle sue deboli mani senza lotta, senza sforzo, come è avvenuto ieri, come avverrà domani se lo straniero gli toglie il suo appoggio7. Napoleone non aveva da far altro che dichiarare che considererebbe come caso di guerra - e ne aveva il diritto - qualunque sbarco di milizie straniere nello stato del Papa, le quali [p. 60 modifica]avrebbero preso posizione così fra il suo regno d’Italia e il reame di Napoli».

E qui, con calore di vera eloquenza, dimostrava come Roma avrebbe finito per comprendere che il Cristianesimo, il Papato, la religione «sono cose sante necessarie, indistruttibili, come le conquiste progressive dell’umanità»; che la religione cristiana fu ed è la naturale alleata della civiltà. «Se Cristo è venuto», continuava, «per l’israelita e pel pagano, è anche venuto per gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi: egli non ci ha apportato la religione di un luogo, o quella di un secolo. Sventura a coloro che vorrebbero abbassare il cattolicismo all’ufficio di statuto municipale, o farne un anacronismo. Il cattolicismo è di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Esso è - e li sta la sua gloria, la sua forza, il suo miracolo - esso è immobile come la fede, progressivo come la ragione. Roma lo sa. Se ella conserva il deposito di credenze immutevoli, essa ha più d’una volta abusato di ciò che vi può essere di variabile e di circostanziale nell’organizzazione e nell’insegnamento cattolico. Il giorno in cui il Papato comprenderà queste verità-e questo giorno verrà se realmente esso è fondato sulla pietra angolare-quel giorno il cattolicismo, che agevolmente ha trionfato della crisi dell’incredulità, trionferà di un malore ben più temibile, ben più difficile a guarire, dell’indifferenza religiosa».

Venendo poscia all’altro corno del dilemma che egli si era posto, a proposito della politica di Napoleone verso il Papato il Rossi continuava: «L’altro partito, possibile forse, ma più pericoloso, era quello di proclamare altamente, come principio, la distruzione del potere temporale del Papa: d’indagarne gli inconvenienti, gli abusi, di appellarsene all’opinione dei popoli, di far loro comprendere che i nemici della loro emancipazione non erano già i vicari di Cristo, ma i principi temporali di Roma, che come principato Roma aveva disertato la causa della libertà per quella del privilegio, quella dell’intelligenza per il potere, e posto al servizio di tutto le oligarchie l’inquisizione e l’indice. In questo sistema occorreva anzi tutto evitare qualsiasi discussione religiosa, circondare la religione, le sue istituzioni, i suoi ministri di un rispetto profondo e sincero: procedere francamente, apertamente e, sopra tutto, non appropriarsi [p. 61 modifica]le spoglie della Santa Sede. Bisognava riunire il regno d’Italia a Roma, ovvero permettere allo stato del Papa di organizzarsi a suo beneplacito, di darsi un reggimento nazionale»8. Qui, come agevolmente si vede, il dottrinarismo guizottiano a proposito di filosofia della storia, del quale era tutto imbevuto Pellegrino Rossi, faceva capolino in quelle postume ipotesi, in quei consigli che il Rossi dava a Napoleone, con la facile scienza del postero, tutto pieno della sapienza del poi, in quella presunzione di incassare i fatti storici dentro le categorie preconcette della scuola dottrinaria. Novella prova - se ce ne fosse di bisogno che l’amore soverchio delle teorie finisce sempre per avviluppare e ottenebrare alquanto anche i più lucidi e poderosi intelletti.

Ad avere più ampia la nozione dei pensieri del Rossi intorno al Papato spigolerò ancora qualche idea da un articolo da lui inserito nella Revue des Deux Mondes del 1842 - nella quale da più anni il Rossi scriveva la Revue politique in ogni fascicolo9 a proposito dei dissidi sorti, per causa religiosa, fra papa Gregorio XVI e l’imperatore di Russia Nicolò I. L’insigne pubblicista esaminava le ragioni di quel dissidio e riconosceva che la Russia abusava della forza e adoperava la violenza, che è l’arma del dispotismo, e quindi osservava che «Roma non è impossente, neppure ai nostri giorni, allorché essa ha per’ sé la ragione e il diritto. Se la Russia ha baionette, prigioni e deserti, Roma ha nel mondo intiero preti, confessionali e chiese; se la Russia ha giornali, Roma ha pulpiti. Se i Gabinetti carezzano la Russia, i popoli ascoltano le doglianze del Pontefice, perchè oggi l’opinione pubblica è imparziale anche riguardo a Roma. Non è più il tempo in cui la filosofia mendicava, con vergognose [p. 62 modifica]adulazioni, una protezione niente affatto sincera a Pietroburgo o a Berlino; queste miserevoli commedie non sono più in voga. Se Roma tenta di ricondurci al medio evo, o se essa rinnova il patto che ebbe la sciagura di stringere nel secolo decimosesto col potere assoluto, l’opinione pubblica la abbandona e cammina da sé per altra via. Ma se Roma, al contrario, riconosce e santifica il legittimo svolgimento dell’umanità, propugna i diritti della fede e della coscienza, allora l’opinione pubblica è con lei e si ride di coloro che la vorrebbero spaventare con le parole prete, superstizione, sacristia. Questa è la verità».

Esaminate quindi le gravi condizioni in cui Roma si trovava fra i due sistemi di governi dominanti in Europa allora, il dispotico, cioè, e il costituzionale, egli rileva come verso i governi costituzionali si volga ora l’opinione pubblica, come presso i governi costituzionali il cattolicismo trovi rispetto, giustizia e protezione, anche in Inghilterra, non ostante la supremazia della Chiesa anglicana. Ed eccitando il Papato ad allearsi con le monarchie costituzionali, francese ed inglese - giacché i «governi costituzionali sono oggi la forza e la gloria dell’Europa» — esprime un arditissimo suo convincimento, il quale va notato, perchè ci rivela la evoluzione benevola verso la Chiesa e verso il Papato che si veniva operando nella mente e nell’animo dell’illustre Carrarese e perchè esso soltanto può darci non dirò la giustificazione, ma quasi direi la spiegazione, o meglio la scusante dell’atteggiamento, certamente erroneo e fatale e che altrimenti sarebbe inesplicabile, da Pellegrino Rossi assunto a Roma nel settembre del 1818 e pel quale, sventuratamente, fu ucciso. «L’avvenire di Roma è là, nella sua alleanza intima con i governi costituzionali. Il patto del decimosesto secolo, sciagurato, ma politico allora, oggi sarebbe ugualmente un ridicolo anacronismo e un errore enorme. Dopo avere, nel sedicesimo secolo, abbandonato la libertà, perchè essa era moribonda, vorrebbe Roma oggi restar fedele all’agonia del dispotismo? Questo è un errore in cui Roma non cadrá, perchè non è nell’indole sua di cadervi. Occorrerebbe per ciò che essa avesse un potere che non ha, il potere di snaturare sé stessa, di rinunciare ai suoi principii, alle sue tradizioni, alla sua missione. Roma sa proporzionare l’istrumento mondano ai tempi, alle circostanze, ai [p. 63 modifica]bisogni. Essa non si separa mai definitivamente dall’avvenire e l’avvenire oggi appartiene ai governi costituzionali»10.

Ciò per riguardo al Papato: quanto all’Italia, da lui sempre amata e alla quale spesso pensava e che soventi volte ricordava ai suoi ascoltatori, ecco, per esempio, che cosa diceva a proposito della penisola nella sesta delle sue lezioni di diritto costituzionale nel 1835: «L’Italia è stata e, sventuratamente per essa, è ancora in modo strano divisa... Ebbene! un braccio poderoso prese un giorno un certo numero di queste parti e ne fece un tutto» - alludeva a Napoleone I. - «Là non c’era punto libertà, non ve ne era che la forma apparente... eppure questo ravvicinamento cominciò a sviluppare affinità politiche fra quelle parti diverse... Non è meno vero che queste affinità morali e politiche fra le diverse parti dello stato concorrano maggiormente all’esercizio della pubblica potestà quando il paese interviene nella gestione degli affari, che quando esso è sottomesso a un governo come quello di cui io parlo. In questo concorso al maneggio della cosa pubblica havvi un possente mezzo d’incorporazione, di assimilazione, d’unità nazionale ... Questo grande lavoro si troverà più o meno paralizzato, anche quando il governo sarà un governo nazionale, se questo governo non fosse un governo unico, un governo centrale, ma un governo federale. Io non voglio qui descrivere i governi federali, ma quando noi parliamo di unità nazionale, ferma, compatta, è evidente che non è col governo federale che si può giungere a questa unità»11. Era fresca la ricordanza della Svizzera!

Nelle quali parole, insieme alla profondità dello storico, campeggiano le calde aspirazioni del patriotta e le meravigliose chiaroveggenze dei mezzi coi quali soltanto sarebbe in avvenire possibile la redenzione e l’unità d’Italia.

Intanto, nel principio dell’anno scolastico 1833-34, Pellegrino Rossi, fiducioso in sè stesso, con ardimento pari alla destrezza ed al tatto, saliva sulla cattedra di economia politica al Collegio di Francia, dove insegnò fino al 1840, anno in cui lasciò quella [p. 64 modifica]cattedra - nella quale gli successe un altro illustre economista, Michele Chevalier - allorché fu nominato membro dei Consiglio reale dell’istruzione pubblica.

A diminuirgli le difficoltà dell’esperimento, assai gli giovò il fatto che il predecessore suo Giambattista Say, a vero dire, «non professava, ma leggeva». Ora, dice un chiaro biografo, che fu ascoltatore del Rossi al Collegio di Francia, «siano pure quali si vogliano la solidità delle dimostrazioni, la chiarezza e l’eleganza della forma, chi non sa che l’arte dello scrittore differisce profondamente dal metodo del professore? Vi ha nella parola parlata una virtù, che non appartiene alla parola scritta. I procedimenti non sono punto i medesimi nel libro e sulla cattedra. Il professore - e io penso al Rossi così dicendo - fa della sua lezione un discorso, talvolta quasi un piccolo dramma, formante un tutto organico: egli mette, per così dire, in azione, attorno ad un pensiero unico e centrale, tutta una serie di fatti e di argomenti. La nettezza delle deduzioni, il rigore dei principii e delle conclusioni sono le qualità richieste in colui, che si fa innanzi, come il rappresentante di un dramma scientifico. Questa prova che era mancata all’economia politica, le fu utilissima quando il Rossi si assunse di farne l’esperimento. In lui meravigliosamente si accordavano l’indole dell’ingegno suo e quell’ufficio che egli si era assunto. Chi era dunque più abile alla deduzione, di quella sua si vigorosa intelligenza, aiutata da una perspicacia chiaroveggente, da un corredo di dottrina di numerose opere, nelle quali i vari punti di cui si occupa la scienza economica erano disseminati e restavano come scolpiti nella moltitudine degli ascoltatori? Non c’è quindi da meravigliarsi che egli sia diventato come il legislatore della scienza economica»12.

Egli cominciava a parlare lentamente, gravemente: € le parole uscivano adagio dalle sue labbra, poi, man mano, egli si animava e, con dizione sempre efficace e colorita, si accalorava e diveniva eloquente»13. L’uditorio, numeroso, fin dalle prime lezioni, crebbe sempre più e il successo del Rossi e come [p. 65 modifica]economista e come oratore, fu completo. Dall’intelletto suo lucidissimo ed eminentemente logico, le idee scaturivano meravigliosamente e metodicamente incatenate fra di loro ed egli le presentava avvolte in immagini trasparenti ed allettevoli, che rivelavano tutte le sue grandi attitudini di artista.

Il Baudrillart, dopo avere affermato che «non bisogna rimproverare, come fu fatto, a Pellegrino Rossi di avere avuto più patrie, fatto, d’altronde, che da eccezionali circostanze è spiegato onorevolmente», e dopo avere, forse non giustamente e non avvedutamente, sentenziato che «Pellegrino Rossi per le sue opere appartiene alla Francia e per la morte appartiene definitivamente alla patria italiana», osserva acutamente che «come pensatore a lui giovarono i diversi soggiorni e le diverse patrie, per i contatti con gli uomini eminenti dei vari paesi. Cosi egli potè trattare i problemi del lavoro e della ricchezza con un vero spirito di cosmopolitismo, paragonando i diversi sistemi di economia politica, come del diritto penale e del costituzionale di parecchi paesi»14; perchè, in fatti, le diverse dimore e la conoscenza dei vari costumi, degli speciali ambienti e delle diverse istituzioni, all’intelletto di lui, eminentemente assimilatore, debbono aver dischiuso nuovi orizzonti nel campo delle quistioni economiche.

Ma, anche come professore di economia politica, il Rossi è variamente giudicato; chè, se tutti gli scrittori, i quali sotto questo aspetto lo considerarono, sono concordi nell’apprezzare altamente i meriti dell’insegnante, non ugualmente concordi sono nel sentenziare dello scienziato.

Alcuni ravvisano in lui e nel suo Corso di economia politica un grande valore, che altri non riconoscono che in parte soltanto nel libro e nell’autore.

Parecchi convengono nell’affermare che grande autorità conferivano alle speculazioni ed ai giudizi dell’economista Rossi le grandi cognizioni e gli ampli studi del Rossi giureconsulto.

Il Wolowschy scriveva nel 1842: «Ciò che dà un posto distinto all’opera del signor Rossi, ciò che l’ha fatta riguardare come la rivelazione di un metodo fecondo, è che ad ogni pagina [p. 66 modifica]la scienza del giureconsulto viene a dare un energico soccorso alla soluzione delle quistioui più delicate, sulla formazione e distribuzione delle ricchezze» 15.

Il Corso di economia politica di Pellegrino Rossi fu da prima pubblicato in due volumi contenenti trentasei lezioni, poscia, integrato delle lezioni mancanti, fu nuovamente edito completo.

Esso è composto di quattro volumi, dei quali i primi due trattano della produzione, il terzo della distribuzione dei prodotti, cioè delle rendite e dei salari, e il quarto delle cause efficienti della produzione e delle teorie sulla imposta e sul credito.

L’economia politica, al tempo in cui il Rossi la insegnava al Collegio di Francia, e cioè oltre a sessant’anni fa, era - come scienza, non come complesso di fatti storici ed economici - appena appena adulta; giacché può asseverarsi che, meno piccole scritture concernenti qualche tenue argomento speciale fra la grande moltitudine dei fenomeni e dei fatti economici, scritture, del resto, pochissimo conosciute, nessun libro importante e diffuso fosse stato scritto prima del finire del secolo decimosettimo.

Si può dire che l’economia politica, come scienza, avesse la sua culla fra gli scritti del consigliere Boisguillebert e del maresciallo Vauban, i quali due uomini, eminenti ambedue, tendevano ad affermare un grande principio economico, l’uguaglianza delle imposte 16. I due grandi uomini, nè in quei due primi, nè in [p. 67 modifica]posteriori loro scritti sullo stesso importantissimo argomento, furono — come è noto — fortunati; anzi i loro libri e le loro idee furono condannate ed essi, per avere constatato altamente dolorose verità, onde sanguinava il popolo francese, e per aver proclamato un alto principio scientifico, caddero in disgrazia del così detto Gran Re. Anzi, in quella culla dell’economia politica, l’illustre magistrato di Rouen lasciava anche un altro elemento costitutivo della nuova scienza, con l’assegnazione del loro vero valore data ai metalli. Ai quali due elementi un terzo ne aggiunsero gli scritti e il sistema di Giovanni Law, il quale sistema, non per l’uso, ma per l’abuso del principio su cui si fondava, condusse alla terribile catastrofe economica del 1720, ma lasciò la cognizione della utilità e della importanza della carta moneta. La scienza economica, ancora in fasce, aveva trovato tosto conforto ed alimento nel Melon, che fissava una teoria tlegli scambi, e in quei tre grandi che furono il Gournay, il Quesnay e il Turgot, addirittura grandissimo, e dietro ad essi in Vittore Righetti di Mirabeau, nel Lemercier, nel Dupont de Nemours e nel Morellet, i quali - mentre in Italia il Galliani, l’Ortes, il Ricci, i Verri, con utili studii, si affaticavano attorno ai problemi economici - riprendendo e continuando l’opera del Boisguillebert e del Vauban, iniziavano e propugnavano le belle e sante dottrine della scuola fisiocratica. Certo il desiderio del bene e le intenzioni anche troppo filantropiche di quelle dottrine, la sete febbrile dell’emancipazione dell’agricoltura, del lavoro, dei commerci sollevavano i seguaci di quella scuola dalle regioni della realtà a soverchia astrazione di teorie; certo, per logica e legittima reazione contro il governo che, fin li, aveva, in Francia, prodotto tanto male, i seguaci di quella scuola esageravano le attribuzioni che volevano imposte al governo nell’opera di riparazione; e certo essi assegnavano troppa importanza al capitale e specialmente alla terra; ma, non ostante tutte queste esagerazioni, i principi! diffusi dalla scuola fisiocratica completavano quasi gli sparsi elementi della nuova scienza, entrata in una vigorosa adolescenza e alla quale ormai non mancava che una alta mente ordinatrice che a tutti quei principii e a quelle dottrine desse consistenza organica e complessiva concretezza.

[p. 68 modifica]Questa gloria era riservata ad Adamo Smith, il quale quegli elementi vide tutti e raccolse e coordinò e, con indagini profonde e con meravigliose intuizioni, trovò le leggi che governavano i vari fatti economici, scopri le relazioni che esistevano fra di loro e, con nesso logico, le armonizzò in un tutto organico che fu la scienza economica. Egli comprese, rialzò, santificò il lavoro; gli attribuì il suo giusto valore nella produzione della ricchezza; studiò le sue suddivisioni; propugnò la sua libertà emulatrice; conobbe le differenze fra il capitale fisso ed il circolante; vide e studiò tutti i fenomeni della produzione e della libera concorrenza nei commerci, e rivendicò la potenza e la dignità dell’individualità umana. Egli fu il rivelatore e l’istitutore dell’economia politica ad altezza vera di scienza.

E, allora, nel campo di questa scienza, erano apparsi Coblet, Ricardo, Mac Culloch, James Mill, Torrens, Sismondi, Say, tutti lavorando sui fondamenti posti dallo Smith, cercando di correggerne qualche dottrina che loro pareva esagerata, procurando di trarre dai principii ammessi da lui nuove deduzioni, dando sviluppo maggiore ad alcune sue teorie.

Ma, accanto a questi sorgeva terribile, con le sue inesorabili prove statistiche, a turbare quella specie di ottimismo, in cui si cullavano quasi tutti quegli economisti, Roberto Malthus17 a dimostrare che l’aumento delle ricchezze non è e non può essere in proporzione dell’aumento della popolazione e spaventava l’umanità con il lercio e squallido spettro della fame, intanto che numerosi sbucavau fuori gli esageratori, i sottilizzatori, gli utopisti, i quali, uscendo dal campo veramente scientifico, veramente pratico in cui la scienza economica aveva sapientemente circoscritto lo Smith, si diedero a spaziare nell’infinito azzurro delle astrazioni speculative e, disdegnando il bene, per inseguire il fantasma dell’ottimo, pretesero, col mezzo della scienza economica, che aveva insegnato ormai la genesi e le evoluzioni storiche e razionali di tutti i fatti relativi alla [p. 69 modifica]produzione, alla ricchezza ed al consumo, pretesero ottenere una più equa ripartizione del benessere, o una completa uguaglianza di agiatezza per tutti.

Cosi, per opera del Saint-Simon, del Fourier, dell’Owen e dei loro discepoli Augusto Corate e Vittorio Considérant, allorchè Pellegrino Rossi imprendeva il suo insegnamento dell’economia politica al Collegio di Francia, le più strane utopie di socialismo e di comunismo, avvolte, qua e là, nei veli di un morboso misticismo, inspirate spesso da nobili sentimenti e da elevate quantunque nebulose idealità, più spesso abilmente sfruttate da mediocri ciarlatani politici o da volgari agitatori, sconvolgevano le menti e turbavano gli spiriti delle moltitudini, sempre bisognose e ansiose di miglioramenti e, per ciò, sempre credule alle più stravaganti promesse. È tanto dolce il credere alla effettuabilità delle cose desiderate!...

Come rigorosamente concepisse e intendesse Pellegrino Rossi la scienza economica lo disse egli stesso nella seconda delle sue lezioni al Collegio di Francia. «La scienza, quale ne sia l’obietto, non è che il possesso della verità» - diceva il Rossi - «la conoscenza riflessa dei rapporti che scaturiscono dalla natura stessa delle cose, conoscenza che ci permette di risalire ai principii e di incatenare fra quelli le deduzioni che se ne traggono. La conoscenza di un certo ordine di verità, questo è l’oggetto, il fine particolare della scienza: il mezzo è la ricerca della verità con l’aiuto del metodo. La scienza non è incaricata di fare qualche cosa. Se non esistessero in questo mondo che miseria, ignoranza, sventura; esisterebbe sempre una scienza deireconomia politica. Sarebbe sempre vero che, applicando le forze dell’intelligenza e le forze organiche dell’uomo alla materia in questa o in quell’altra maniera, si produrrebbero degli oggetti atti a soddisfare i bisogni dell’uomo e che, se si lasciassero le cose al loro corso naturale, questi prodotti si distribuirebbero in una certa maniera fra i produttori; se l’uomo, informato delle conclusioni della scienza, ne trae partito per la ricchezza, per il benessere, per il progresso civile, egli fa ciò che deve fare; ma la scienza resta sempre la stessa. Se non vi fosse una sola barca sull’Oceano, pur vi sarebbe un’astronomia, e l’astronomia sarebbe sempre ugualmente vera; qualunque sia il partito che se ne trae per la [p. 70 modifica]navigazione, la scienza stessa, l’astronomia non è che la conoscenza della verità relativamente a un certo ordine di fatti»18.

La prima lode attribuita al Rossi, in questa condizione di cose, da parecchi valorosi economisti che giudicarono dell’opera sua, fu questa: in mezzo a quelle tendenze morbose, in mezzo a quelle popolari esagerazioni utopistiche egli non vacillò, non si lasciò abbacinare l’intelletto dall’effimero luccichio di quelle fallaci teorie, non si lasciò sedurre dal desiderio dei plausi volgari, stette saldo e camminò diritto nel campo della scienza.

«Nè grida, nè clamori ebbero effetto su di lui» - nota il Reybaud: - «seguì la sua via, riprese la scienza dove l’avevano lasciata i suoi predecessori, esaminò le dottrine dello Smith, del Ricardo, del Malthus, del Say, e le discusse liberamente da padrone e da maestro. Respingere gli eccessi dei nuovi economisti, nulla accettare dai suoi predecessori senza verificazione, ecco il suo merito». E, appresso, lo stesso scrittore osserva che «le teorie dello Smith e del Ricardo hanno preso, passando per la sua penna, una forza e un’autorità che non avevano che in germe: il signor Rossi, spiegandole, le rettifica e le amplia. Avrebbe potuto - e nessuno meglio di lui - sottoporre ad un esame più severo le dottrine dei predecessori e imprimere nella scienza economica una impronta di originalità, che non volle dare per prudenza e per discrezione, temendo in ciò un pericolo per le dottrine verificate. In mezzo alle eccentricità e agli eccessi degli altri preferì l’ubbidienza alle vere teorie scientifiche e antepose di restare soldato, quando tutti pretendevano essere generali»19. «L’economia politica, lo diciamo francamente» — scrive lo Cherbuliez — «aveva bisogno d’essere rilevata in Francia da un tale libro, perchè essa era caduta, dopo la morte di Giambattista Say, in tale discredito donde le produzioni dei signori Dutens, Alban de Villeneuve, Blanqui e di altri non erano atte a rialzarla»20.

[p. 71 modifica]Dopo questo merito al Rossi riconosciuto quale economista, un altro importantissimo vanto gli è dato per un elemento quasi nuovo da lui introdotto come fondamento etico nella scienza economica. «Muovendo dal principio» — scrive Joseph de Croze — «che nel mondo moderno v’ha un’autorità dinanzi alla quale tutti i fatti si piegano e quest’autorità è la giustizia, il Rossi pose l’economia politica sopra una base immutabile: il diritto.

Uno dei meriti essenziali del Rossi è di aver compreso questo nuovo bisogno, di averlo analizzato e di averlo soddisfatto, aiutandosi nelle sue ricerche con le regole eterne dell’equità, e facendo concorrere la giustizia a collocare le società economiche sugli immutabili principii dell’uguaglianza civile»21.

E io ho detto quasi nuovo, perchè realmente — sembra che il De Croze lo dimenticasse — anche Adamo Smith di quell’elemento aveva mostrato tener conto; quantunque non vi sia dubbio che da Pellegrino Rossi esso ricevesse ampio, scientifico ed eloquentissimo svolgimento.

Ampli elogi tributa pure al Corso di economia politica del Rossi Alphonse Courtois, segretario perpetuo della Società di Economia politica di Parigi, il quale trova che «le pagine che il Rossi ha consacrato alla divisione delle scienze morali e politiche, alla separazione dell’economia politica in pura e applicata, alla rendita, alla libertà commerciale, ai prodotti immateriali, ai principii della popolazione, alla ricchezza immobiliare, alla schiavitù, ecc., ecc., sono scintillanti di inspirazione e di elevatezza di pensiero»22.

Un altro caldo ammiratore del Corso di economia politica del Rossi, in mezzo alle molte e continuate lodi che rivolge all’illustre autore, gli dà grandissimo merito «per avere affermato che alla scienza appartiene di distinguere e di incatenare i fenomeni sottomessi alla stessa legge; all’arte, applicando questa legge, di impadronirsi delle cause per reagire sugli effetti. Unità nella scienza, varietà nell’arte. Il signor Rossi quindi [p. 72 modifica]stabilisce una distinzione fondamentale fra la scienza pura e razionale e la scienza applicata».

A questa lode si associa con entusiasmo il De Broglie perchè «mediante questa distinzione l’economia politica ha potuto progredire, di un passo più fermo e col rigore delle scienze esatte, nello studio delle risorse naturali della società e apprestare più tardi al governo i medesimi lumi che la buona anatomia apporta nell’arte del guarire»23.

Però, sia esaminando il Corso di economia politica del Rossi, sia tenendo conto dei vari e non sempre concordi giudizi pronunciati intorno ad esso, e allora e poi, dagli scrittori più competenti nelle economiche discipline, si può affermare, senza tema di offendere la verità, che anche in quest’opera Pellegrino Rossi fu guidato dal desiderio, quasi direi dalla smania dell’eclettismo conciliatore a cui lo traevano - come già dissi e dimostrai l’indole del suo ingegno, le meravigliose sue attitudini assimilatrici e le sue vive aspirazioni dottrinarie au juste milieu.

Egli, infatti, cercò di fondere ed armonizzare fra loro le varie dottrine dello Smith, del Ricardo e del Malthus, ma, per consenso della maggior parte dei suoi critici, non lasciò nel suo Corso di economia, pure ammirabile ed ammirato per l’ampia dottrina, per la profonda conoscenza delle materie trattate, per la precisione scientifica e per la lucida trasparenza della esposizione, nessuna traccia di originalità24.

«Ciò che v’ha di più caratteristico e di più meritorio in tutto l’insegnamento economico del Rossi, è la maniera con cui egli definisce l’obietto e limita il dominio della scienza economica; ed è ciò che noi teniamo più a segnalare e constatare. [p. 73 modifica]Noi abbiamo detto che egli sposava fedelmente le dottrine della scuola inglese, quelle del Ricardo più specialmente e quelle del Malthus, che sembravano essere stati i suoi maestri prediletti. I lievi mutamenti, le innovazioni di principii o di particolari che egli tenta talvolta di introdurvi, come per far prova di indipendenza, non hanno una grande importanza e sono, in generale, di una discutibile giustezza; ma se egli non ha arricchito la scienza di alcuna idea nuova un po’ feconda, egli le ha reso il grandissimo servigio di insegnarla correttamente e di propagarne cosi, per quanto era in suo potere, le sane dottrine e, sopra tutto, di riconoscere e di mostrare il punto ove ella era arrivata, il cammino che essa aveva percorso, la via che essa doveva seguire per andare più lontano, il campo che doveva, d’ora innanzi, contentarsi di coltivare»25.

«Egli ha molto illuminato» - aggiunge un altro critico al Rossi benevolo - «tutte le questioni trattate e ha specialmente svolto - meglio che non lo avessero fatto i suoi predecessori - la teoria del valore, quella del principio della popolazione e quella della rendita e ha abilissimamente riuniti gli argomenti principali che rendono irrefíutabile la legittimità della libertà del lavoro e del commercio. Egli parteggia per le idee di Ricardo sulla rendita, per quelle di Malthus sulla popolazione, ma quanto riesce più intelligibile degli economisti inglesi!»26.

«Si è qualche volta ricercata l’originalità del Rossi» - osserva il Reybaud; - «in quella sua equilibrata finezza di percezione, in quella affascinante e limpida vivacità di linguaggio che gli sono proprie sta la sua originalità: essa è in quella vita che egli comunica a ciò che tocca, in quel valore che egli aggiunge a ciò che espone, commenta e rende accessibile alle intelligenze. Trattare la scienza cosi, è darle una nuova impronta, è, in realtà, appropriarsela»27.

«Egli era» — aggiunge un altro suo discepolo e ammiratore — «al Collegio di Francia ciò che era alla Scuola di diritto, un maestro finito e affascinante i suoi uditori per la concatenazione e [p. 74 modifica]la chiarezza delle sue deduzioni, per la distinzione delle sue idee, per la vasta estensione del suo sapere, per la elegante concisione della sua parola. Su tutte le questioni che egli trattava in quest’altra cattedra - cioè in quella di economia politica - egli diffondeva anche una brillante ed utile luce. Se egli non vi arrecava il genio della scoperta, egli vi apportava ugualmente, almeno, la potenza della dimostrazione e l’eccellenza del metodo. In lui non v’era nulla di quegli spiriti che ruminano tutte le cose di cui parla Montaigne, ma di quelli che illuminano tutte le cose. Le sue esposizioni economiche come le sue dissertazioni politiche resteranno modelli d’insegnamento: egli continua e completa, spiegandola e coordinandola, con arte ammirabile, l’opera dei grandi economisti che lo hanno preceduto»28.

Il Baudrillart, espertissimo, come lo Cherbuliez, nella materia, fa intorno al Corso d’economia politica del Rossi parecchi rilievi critici e, pur lodandolo della distinzione da lui introdotta nel valore e della duplice definizione che egli ne dà in valore d’uso e valore di scambio, trova che esso rischia di impigliarsi in soverchie sottigliezze più scolastiche che scientifiche. Ma, in fine, si felicita col Carrarese che ha con originalità riempite le lacune su questo punto lasciato nei suoi Principii di economia politica dal Ricardo29. Egli non può approvare senza riserve le bellissime lezioni che il Rossi consacra alla difesa delle idee del Malthus, ma non può esimersi dall’entusiasmarsi «alla viva argomentazione, ai molteplici felici esempi tolti dalla storia, all’eloquenza toccante alle volte fino al patetico, all’alta ironia intorno ai bugiardi rimedi proposti da una cieca filantropia», pregi che egli riscontra ugualmente nella Introduzione del Rossi al Saggio sulla popolazione Malthus, introduzione che il Baudrillart crede «poter qualificare del nome di capolavoro per la severa bellezza della forma»30.

[p. 75 modifica]Assai è pure lodato, il Rossi, per aver oppugnato il protezionismo e per «aver fatto obietto di due capitoli la libertà di commercio, i quali capitoli sono modelli di chiarezza e di logica argomentazione»31; è altamente lodato per avere, energicamente e con mirabile eloquenza, combattuto il materialismo di quegli economisti che paragonavano l’operaio alla macchina e per aver rivendicato le differenze che pongono l’uomo assai sopra alla macchina32; è altamente lodato per l’esame amoroso e sapiente da lui fatto della questione operaia e «per avere tracciato, con una autorità e con uno splendore che rendono ormai facile la vittoria, il cammino che si dovrà seguire per armonizzare gli interessi degli intraprenditori e quello degli operai, restando nel campo della realtà, fuori del quale l’economia politica non può lottare, dal momento che Adamo Smith, che era un grande intelletto, volle farne una scienza sperimentale; onde sarebbe una infelice deviazione dare ad essa andamenti troppo speculativi»33; è altamente lodato perchè «investigatore paziente e laborioso, egli ha messo in rilievo il legame che unisce le osservazioni fra di loro e la causa principale della loro esistenza; spirito ingegnoso e sagace egli ha dedotto, con moltissima chiarezza e precisione, le meravigliose combinazioni del lavoro, i magnifici effetti della volontà umana, e le grandi leggi che entrano nella cerchia del mondo [p. 76 modifica]economico; analizzatore profondo e metodico, egli estrae dai più piccoli particolari splendide verità; onde, sotto la sua penna, la scienza economica s’aggrandisce e domina la società»nota.

Léon Say stima che Pellegrino Rossi fosse «piuttosto quello che si chiama il condottierenota dell’economia politica». Egli ha combattuto per quelle che credeva le buone cause, senza preoccuparsi di mettere d’accordo le varie sue preferenze. Due cose lo caratterizzano: lo spirito critico e lo spirito di combattimento. Gli si è rimproverato di non avere il genio della scoperta: egli aveva troppa ambizione per coltivare la scienza con quella tenacità che conduce ai grandi lavori: egli non era tenace che nell’azione; e così è che, in tutta la sua vita, non ostante il suo scetticismo, egli ha sostenuto e propagato la libertà degli scambi»nota.

In sostanza e per raccogliere tutti i giudizi in uno, il Corso d’economia politica di Pellegrino Rossi ebbe una importanza grandissima nel tempo e nell’ambiente in cui fu pubblicato e per molti anni fu adottato come libro di testo in molte scuole d’Europa. Quel libro non fece progredire con la scoperta di qualche importante dottrina nuova la scienza economica nel campo segnatole dai maestri che il Rossi avevano preceduto, ma quel libro rese più chiare, più precise, più popolari le dottrine scientifiche fino a quel punto fissate, per l’impronta limpida, eloquente, attraentissima con cui l’illustre autore seppe magistralmente esporle. Quel libro fu una delle colonne miliarie sul cammino percorso dalla scienza economica — e così 34 35 36 [p. 77 modifica]rapidamente in questi ultimi sessant’anni — e, anche oggi, dopo tanti progressi fatti dalla scienza, quel libro non solo può utilmente, ma deve essere onninamente letto e meditato da chi seriamente voglia dedicarsi alle discipline economiche.

Però, come fu detto da alcuni biografi di Pellegrino Rossi e come candidamente è confessato dallo stesso Guizot, questa cattedra di economia politica al Collegio di Francia «non era sufficiente a risarcire il Rossi della situazione che esso aveva abbandonato in Svizzera e a indurlo a fissarsi definitivamente in Francia. Quando si vuole acquistare un uomo raro e i suoi servigi, è, al tempo stesso, giustizia e buona politica l’assicurargli quelle condizioni esteriori della vita che danno la libertà e la tranquillità di spirito nel lavoro»37. Quindi il Guizot, fin da quando aveva, nominato il Rossi professore di economia politica al Collegio di Francia, gli aveva fatto intravvedere la possibilità di creare per lui una nuova cattedra nella Scuola di diritto, affidandogli l’insegnamento del diritto costituzionale. E, di fatti, il 22 agosto 1834 il Guizot presentava al re Luigi Filippo, facendolo precedere da una chiara e breve relazione, il decreto che istituiva la cattedra di diritto costituzionale, con corso obbligatorio per gli studenti aspiranti alla licenza nella Scuola di diritto di Parigi. E nel successivo giorno 23 agosto, dopo che il re de’ Francesi ebbe firmato il decreto con cui si istituiva tale cattedra, firmava quello che nominava a professore di diritto costituzionale Pellegrino Rossi.

Allora avvenne ciò che lo Cherbuliez melanconicamente pensava, nel momento che Pellegrino Rossi abbandonava Ginevra. «L’obbligo di carezzare continuamente e di adulare frequentemente cotesto amor proprio nazionale, che talvolta tien luogo di patriottismo ne’ Francesi, non era uno dei minori imbarazzi che la nuova posizione del Rossi imponesse alle sue attitudini di oratore. Sposando la Francia, egli aveva sposato tutte le illusioni millantatrici, tutte le pretensioni vanitose di questo paese, che si immagina sempre di camminare alla testa della civiltà, esso che, nondimeno, non ha preso l’iniziativa di alcuna idea grande e benefica dei tempi moderni, esso che non [p. 78 modifica]ha saputo dare al mondo nè il vaccino, nè il mutuo insegnamento, nè il governo rappresentativo, nè l’abolizione della tratta dei negri, nè l’affrancamento degli schiavi, né l’emancipazione della Grecia, nè nulla infine di ciò che, da un secolo, ha reso il mondo più bello e migliore»38.

Non tutti i Francesi pensavano come il De Broglie, lo Cherbuliez e il Guizot e come - più tardi - mostrò di pensare il Reybaud, che la Francia, cioè, nel Rossi avesse fatto «un prezioso acquisto»39; anzi la maggior parte dei patrioti! francesi videro di malanimo il rapido ascendere di questo straniero. Per il che la nomina sua produsse una certa commozione alla Scuola di diritto, la cui Facoltà non era stata consultata; gli oppositori politici del Ministero videro in quell’atto un arbitrio ministeriale, gli invidiosi un atto di favoritismo. Quindi cinque professori della Scuola di diritto, mentre il Rossi aspettava in una vicina stanza di essere ammesso a prestare il giuramento per dar principio alle sue lezioni, sollevarono le più formali obiezioni contro la legalità della nomina di lui. La maggioranza dei professori, però, benchè tutt’altro che benevola verso il Rossi, non volle seguire i cinque suoi colleghi, capitanati dal professore Bugnet, i quali volevano che si chiedesse allo straniero non solo il decreto di naturalizzazione, ma anche la laurea dottorale conseguita in una scuola francese. E quando i cinque videro respinta questa loro proposta, emisero formale protesta ed uscirono. Allora la maggioranza, rimasta nell’aula, deliberò che si domanderebbero al Rossi spiegazioni sulla questione della naturalizzazione. Ammesso alla presenza dei colleghi. Pellegrino Rossi presentò l’ordinanza reale con cui, in data del 13 agosto 1834, egli era stato naturalizzato francese, onde fu ammesso a prestare giuramento40.

La protesta dei cinque professori fu inviata prima al [p. 79 modifica]Consiglio reale dell’istruzione pubblica, che la respinse, poi al Consiglio di Stato, il quale ugualmente la rigettò.

In tale condizione di cose, Pellegrino Rossi si presentò il 29 novembre 1834 sulla nuova cattedra alla Scuola di diritto: l’aula rigurgitava di spettatori. Al suo apparire egli fu accolto dagli applausi di una parte del pubblico e dai fischi dell’altra, intanto che parecchi strepitavano: alla porta lo straniero! Appena egli cominciò a pronunciare qualche frase, col suo accento italiano, fu interrotto da voci che esclamavano: parlate francese!, intanto che altri gridavano: lasciatelo parlare!

Egli, turbato da prima, riprese tosto tutto il freddo suo imperio su sé stesso, tentò più volte di cominciare la sua lezione, ma non gli fu possibile mai compiere un periodo; pure rimase, per tutta l’ora che avrebbe dovuto durare la lezione «calmo e dignitoso sulla sua cattedra dinanzi a questo indescrivibile disordine»41.

La seconda e la terza lezione furono tempestose come la prima; onde si dovette fare intervenire la forza armata alla Scuola di diritto: vi fu qualche collisione, qualche percossa, qualche lieve ferita42; per cui il Consiglio dei ministri, su proposta dello stesso Guizot, ordinò la sospensione del corso di diritto costituzionale e contemporaneamente una inchiesta che ponesse in luce quali fossero i sommovitori interni ed esterni di quei tumulti: frattanto gli spiriti agitati si sarebbero calmati. «I due [p. 80 modifica]provvedimenti» — scrive il Guizot — «raggiunsero il loro fine: i nemici ebbero un po’ di vergogna, i turbolenti si stancarono, il signor Rossi riprese il suo corso e, qualche anno dopo, con la piena approvazione tanto degli studenti come dei professori suoi colleghi, egli era decano di quella Scuola di diritto in cui egli era entrato in mezzo a tante inimicizie e a tanti rumori»43.

Anche sul Corso di diritto costituzionale di Pellegrino Rossi non sono concordi i giudizi dei biografi e dei critici.

«Con grande arte» - scrive il Mignet - «insegnava l’organismo ben pensato di quel governo che egli, il Rossi, stimava proprio dei paesi democratici, come degli aristocratici. Ciascuna delle sue lezioni aveva un soggetto determinato ed offriva l’interesse di un piccolo dramma, ed egli, contrariamente all’uso comune, si palesava conciso improvvisatore ed elegante espositore»44.

«Ecco, sommariamente» - scrive un altro suo ascoltatore «quale era il disegno del suo corso. Il signor Rossi distingueva tre specie di diritti: il civile, o privato, di cui egli non si aveva ad occupare; poi i diritti politici e i diritti pubblici i quali egli comprendeva nel suo insegnamento. Egli chiamava diritti politici quelli che si ricollegano con l’esercizio della potestà pubblica, ma che esigono una certa capacità, come l’elettorato, l’eleggibilità, la qualità di giurato, ecc. Quanto ai diritti pubblici essi si riconnettono altresì a l’organizzazione sociale, ma appartengono a tutti. Così gl’incapaci, la donna, il fanciullo, l’interdetto hanno diritto alla libertà di stampa, di coscienza, a l’uguaglianza avanti alla legge», ecc.

Il corso completo comprendeva due anni. «Nel primo, il signor Rossi trattava dei diritti politici, che egli faceva precedere da nozioni storiche sulla formazione dello stato francese. Nel secondo anno, egli si occupava dei diritti pubblici. Il corso non era obbligatorio per gli studenti che per un anno, ma un gran numero di essi continuava a seguirlo nell’anno successivo per possedere l’insieme del diritto costituzionale... [p. 81 modifica]«Egli trascinava il suo uditorio con la sua parola ardente e appassionata, che il suo accento italiano rendeva più vibrante e incisiva. Usava talora frasi arditissime: un giorno, per esempio, disse: "la libertà, signori, un popolo non la riceve, se la prende"»45; ovvero come questa: «Un principio sempre attivo di guerra intestina non prepara la sommissione, ma la rivolta»46.

Talora emetteva sentenze acute e profonde: come ad esempio, questa: «D’altronde l’ignoranza non si può nascondere: essa non tarda ad essere conosciuta e proclamata: la perversità, al contrario, si dissimula lungamente e — fatto deplorevole — dietro il talento essa si può nascondere, nel proprio fulgore può abbagliare gli sguardi del pubblico»47; o come quest’altra: «Ora la libertà è un tesoro utile non soltanto a chi lo possiede, ma anche agli altri — Gli altri dunque e la società hanno interesse che il possessore di essa non ne faccia cattivo uso e che non la dilapidi. Anche la storia ha sempre provato che coloro che negligevano questa massima, che si credevano felici allorchè erano attorniati di schiavi, facevano un’azione di cui tosto o tardi le conseguenze ricadevano sull’intera società»48.

Il Baudrillart nota che il Rossi in questo insegnamento aveva «la opportunità di difendere la carta costituzionale in presenza dei progressi del radicalismo e di mostrare ai giovani che la semplicità in fatto di organizzazione politica, questa semplicità assoluta, così seducente, talvolta, per la logica e per la passione, non genera che debolezza e tirannia»49.

Giudizio molto laudativo pronuncia pure sul Corso di diritto costituzionale di Pellegrino Rossi un chiaro italiano, il quale, esaminando diffusamente il libro del Carrarese, lo trova, nell’infanzia quasi in cui si trovava, allora, nell’Europa continentale, la scienza dei governi rappresentativi, trattato importantissimo, ricco di elevate idee, di profonde osservazioni, di [p. 82 modifica]gonze divinatrici e conchiudendo afferma che «perciò noi abbiamo rivendicata per l’Italia la gloria del Rossi, il quale non ha mai cessato di essere profondamente devoto alla patria che il cielo gli aveva dato, che fece sempre voti per la sua liberazione e che da lungo tempo aveva tracciato la politica che le permise di raggiungere il nobile fine de’ suoi sforzi»50.

Caldo ammiratore dello stesso libro si palesa anche un altro eminente pubblicista italiano il quale, dopo aver lodato pienamente il concetto fondamentale su cui il Rossi svolse tutte le sue teorie costituzionali, «riconoscendo nello stato una persona morale, una legge naturale dell’umanità, che deve trovare, nel suo ordinamento, i mezzi di assicurare all’uomo l’esercizio legittimo delle sue facoltà e di secondare in pari tempo lo svolgimento non soltanto dell’individuo, ma ben anche dell’umanità», dopo avere ugualmente piaudito ^calla coesione che il Rossi osservò esistere tra lo stato e la nazionalità», egli afferma che l’illustre Carrarese «divinò la dottrina dell’Humboldt, preparò quella del Mill e dell’Eòtròs e che egli diè la piena soluzione del problema sociale che consiste nel favorire lo sviluppo dell’individuo senza indebolire la legittima autorità dello stato»51.

In questo coro laudatorio - e, in verità, non adulatorio, perchè tutte quelle lezioni del Rossi, oggi, dopo sessant’anni, sono ancora belle, parecchie addirittura bellissime - stonano alcune voci autorevoli, le quali pure apprezzando le bellezze di questa o di quella parte del Corso di diritto costituzionale, trovano, nel suo complesso, deficiente e inorganico il libro e di molto inferiore ai due precedenti trattati dello stesso autore. E prima, in ordine di data e di autorità, si eleva la voce dell’illustre A. E. Cherbuliez il quale domanda e si domanda: «Si potrebbe ammettere che il Rossi, dopo avere rappresentato, prima in Italia, poi io Svizzera, una parte politica importantissima, non avesse [p. 83 modifica]alcuna opinione fissa sulle istituzioni che si era date la Francia e sui fondamenti razionali del diritto che esso era incaricato di insegnare? Non doveva egli, in presenza delle fazioni e delle chiesuole, profondamente divise, in mezzo al conflitto appassionato di negazioni e di affermazioni perentorie che esse portavano sui punti più essenziali della carta, essersi formato delle convinzioni meditate e avere il desiderio, provare anzi il bisogno di propagarle col suo insegnamento? È nell'interesse della rinomanza del Rossi che noi abbiamo tenuto a spiegare perchè il suo Corso di diritto costituzionale ha deluso la nostra aspettazione. Sotto l’impero di circostanze sfavorevoli, che non dipendevano dalla sua volontà, egli è rimasto inferiore a sé stesso e ha fatto opera che attesta piuttosto la finezza che la forza del suo spirito, la subtilità piuttosto che la potenza del suo ingegno. Il grosso del pubblico ammirerà, senza dubbio, in quest’opera l’alta intelligenza del professore, la perfetta concatenazione delle sue idee, la chiarezza della sua argomentazione. Noi che abbiamo udito il Rossi a Ginevra, noi cercheremmo, invano, nei quattro volumi del suo Corso quel calore di convinzione, quei movimenti oratorii, quella originalità di espressione e quella profondità di pensiero che tante volte ci hanno attratto e allettato: ma queste tracce puramente formali della situazione personale del Rossi ci sono ancora meno penose che certe reticenze e certe lacune, evidentemente comandate da questa situazione»52.

Le circostanze speciali alle quali allude l’illustre economista ginevrino nel suo profondo e splendido articolo sono due: la prima, la ristretta cerchia assegnata al Rossi nello svolgimento del diritto costituzionale dalla relazione del ministro Guizot che precedeva il decreto reale, ristrettezza che impediva al Rossi di elevarsi ad un insegnamento di carattere generale53; la seconda era costituita dalle relazioni personali e dai doveri di [p. 84 modifica]gratitudine che legavano Pellegrino Rossi al De Broglie, al Guizot e agli altri della consorteria imperante, e contro gli intendimenti e gli interessi della quale si sarebbe rivolta l’ampiezza e l’estensione che egli avesse dato all’insegnamento del diritto costituzionale, giunto già - secondo quei valentuomini - alle colonne d’Ercole nel mare della propria perfezione con la carta costituzionale del 1830.

Tanto la prima quanto la seconda di queste condizioni speciali e restrittive furono anche notate da altri scrittori54; e il Reybaud nota, anzi, con evidente rammarico, che «la gratitudine ai dottrinari amici suoi porta il Rossi a transazioni politiche che fanno deplorare che egli non abbia adoperato in politica quella rigidità di opinioni che usava nella scienza»55.

Il De Puynode nel 1867, più di trentanni dopo avere frequentato il Corso di diritto internazionale di Pellegrino Rossi, scriveva; «Ciascuna delle sue lezioni, consacrate alla spiegazione delle nostre leggi politiche, aveva un soggetto determinato che egli esponeva nell’ordine il più logico, con parola elegante e spigliata, concisa e severa insieme. Dove si incontra uno dei suoi antichi uditori che non si compiaccia ancora al ricordo delle sue sapienti e sagaci dissertazioni sul giuri, sulla proprietà, sulla libertà individuale, sulla stampa, sulle elezioni, sulla divisione dei poteri, su quella delle Camere, sui doveri della sovranità?

Quale elevatezza raggiungeva spesso il suo pensiero! Quale fascino si sprigionava dalla sua parola, lenta, senza imbarazzo, pura e degna senza affettazione! Quali preziose vedute storiche, giuridiche, economiche si univano, in questa parte del suo corso, alle sue vigorose dimostrazioni! Io consulto ancora — nel 1867 — con estremo piacere e con raro profitto le note prese in cinque [p. 85 modifica]libretti al suo corso, che era obbligatorio per il dottorato». Ma, con tutto ciò, egli non può esimersi dal muovere severi biasimi al Rossi, e perchè nella esposizione dei fatti storici da cui, secondo il Carrarese, derivavano ai Francesi l’eguaglianza avanti alla legge e Tunità nazionale «egli seguisse sempre troppo rigorosamente le dottrine ottimiste, quasi fataliste del suo potente protettore Guizot, che nessuno ancora contraddiceva e che hanno avuto fino sui nostri più recenti destini così funesta influenza; e perchè egli pure reputava il lungo dispotismo della regalità come l’origine della nostra unità, della nostra uguaglianza e delle nostre franchigie stesse!56; e perchè quasi tutti i giorni egli volgeva elogi, sotto le forme più svariate, alla nostra centralizzazione. Il Rossi» — continua il De Puynode — «checchè ne abbia detto il suo ammiratore Baudrillart, apparteneva tutto intero alla scuola liberale ultra-governativa. Tutte le franchigie amministrative che, congiunte alle economiche, permettono soltanto la solidità delle libertà politiche e danno le abitudini e le idee legali che al Tocqueville parevano l’unico contrappeso possibile alla democrazia, non ebbero mai avversario più risoluto del Rossi. Non vedeva egli, per esempio, una opposizione quasi fondamentale fra la libertà e l’uguaglianza e non credeva egli alla necessaria coesistenza dell’aristocrazia e della democrazia!»57

Ora, le conseguenze di queste circostanze speciali e restrittive furono, secondo lo Cherbuliez, la imperfezione del Corso di diritto costituzionale e le lacune e le reticenze e le deficienze che in quel libro si riscontrano. Lo scrittore ginevrino, con acutezza finissima di critica severa si, sebbene tutt’altro che astiosa, nota ad una ad una le principali fra quelle lacune e deficienze: principalissime l’avere il Rossi preso, meglio, l’aver dovuto prendere come tipo di esplicazione perfetta del sistema costituzionale la imperfettissima carta francese del 1830; l’aver dovuto, per carezzare l’eccessivo amor proprio francese e le dottrine già espresse per le stampe dallo storico Guizot, suo amico e protettore, [p. 86 modifica]ricercare — arrampicandosi, però, sugli specchi — le origini del diritto liberale moderno nella storia della Francia medioevale; il non avere potuto combattere come illiberale e pericoloso l’eccessivo vincolo della unità nazionale o il conseguente soverchio accentramento politico e amministrativo; il non aver potuto elevarsi a paralleli comparativi, come avrebbe dovuto, fra la costituzione francese e quelle di altri popoli e specialmente con quella inglese, che egli profondamente conosceva e che prediligeva e che era ed è la vera fonte primitiva di tutti i diritti costituzionali moderni e della quale costituzione inglese il Rossi non potè parlare, perchè avrebbe dovuto schiacciare lo ohauvinisme dei suoi uditori, tutti inebriati della spuma di questo champagne, che la Francia, cioè, fu maestra di libertà alle altre nazioni di Europa e che la carta gallica del 1830 era il non plus ultra del sublime nella storia del sistema costituzionale.

La gravità e serietà di queste censure invano potrebbe essere dissimulata. Anche questa volta Pellegrino Rossi si trovò costretto dalla ferrea inesorabilità di circostanze esteriori ed interiori, le quali gli si imponevano quasi con la sembianza implacabile dell’antica fatalità, a destreggiarsi fra la verità delle dottrine scientifiche e gli espedienti della opportunità e fu costretto, suo malgrado, a cadere ancora una volta nell’eclettismo conciliatore e a calcare la via du juste milieu. Fra il timore di ledere ed esautorare la scuola e il sistema dei dottrinari che egli seguiva ed amava e quello di favorire, con storici paralleli, le aspirazioni e gli interessi della opposizione dinastica e della fremente gioventù repubblicana, tratto, da un lato, dal suo ingegno e dal suo sapere a spaziare nel campo scientifico del sistema costituzionale — del quale egli profondamente conosceva la vera genesi, i principi! fondamentali e le storiche evoluzioni — e rattenuto dall’altro lato dalle gravissime esigenze del momento, dell’ambiente, della gratitudine, cui sopra ho accennato, desideroso di discorrere da par suo del diritto costituzionale complessivamente e dall’alto, e forzato a dibattersi fra le pastoie della storia francese e i particolari della carta del 1830, Pellegrino Rossi, più che un trattato di diritto costituzionale, scrisse un commentario apologetico di quella carta costituzionale. Cosi egli, che avrebbe potuto e saputo assurgere alla elevata e amplissima [p. 87 modifica]contemplazione dei diritti politici e del diritto pubblico moderno, dovette fare opera ristretta, particolare e incompleta.

D’altra parte non solo non deve negarsi, ma deve anzi affermarsi, a suo onore, che tutte le volte che la natura dell’argomento trattato gli consenti di spastoiarsi da quelle strettoie, tutte le volte che fu libero di levarsi a volo, in quello stesse lezioni, egli si innalzò a tale altezza di nobilissime idee e al tempo stesso così esattamente scientifiche da meritargli, e allora e oggi, l’ammirazione e le lodi dei trattatisti e dei cultori del diritto costituzionale.

Così, sebbene Pellegrino Rossi non conseguisse nè una larga e neppure una misurata popolarità in Francia, nè allora, nè poi, pur tuttavia, nel 1836, si era imposto, con l’alto suo valore, con l’eloquenza, col sapere, e, per effetto delle sue frequentate e applaudite lezioni di economia politica e di diritto costituzionale, si era cattivato l’alta estimazione della maggior parte del pubblico colto di Parigi e aveva acquistato numerosi amici nell’alta borghesia e nel mondo politico e letterario.

Già, nel 1835, egli era stato insignito della croce di cavaliere della Legione d’onore e nel 1836 gli fu concesso un onore più ambito e più grande; il 17 dicembre egli fu eletto membro dell’Istituto, ossia Accademia delle scienze politiche e morali, nella Sezione di economia e statistica, al posto lasciato vacante dall’illustre veterano della rivoluzione del 1789 abate Sieyès, autore famoso del famoso opuscolo Qu’est-ce-que le tiers État?

Pellegrino Rossi fu eletto membro dell’Accademia, con ventuno voti su ventiquattro votanti e - ciò che è notevolissimo – col voto anche di quel Carlo Comte, che era stato suo competitore tre anni innanzi alla cattedra di economia politica al Collegio di Francia e il quale volle essere trasportato, quantunque malato gravemente e quasi morente, all’Istituto per votare a favore del suo antico emulo58. Nello stesso anno 1836 fu nominato membro del Comitato del contenzioso presso il Ministero degli affari esteri, ufficio nell’esercizio del quale egli rese importantissimi servigi alla Francia, presentando, sopra diversi [p. 88 modifica]affari, relazioni «mirabili e che lo collocano ad un’altezza indiscutibile in lavori di questo genere»59.

Certo egli non era a Parigi così energicamente attivo lavoratore come lo era stato a Ginevra: ma, nondimeno, l’operosità del suo spirito, sempre ansioso di nutrirsi di nuovi studi, di assimilarseli e di esprimere ed affermare il proprio pensiero nelle principali quistioni giuridiche, storiche, politiche e sociali, si manifestava nelle lezioni che egli dava al Collegio di Francia e alla Scuola di diritto e nei vari articoli importantissimi che veniva pubblicando nelle principali riviste e molti dei quali, ricchi sempre di idee profonde e spesso di vedute nuovo, si possono leggere, con piacere e con profitto anche oggi, nei due volumi dei Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie i quali, se si fossero raccolte con maggiore amore e con più sollecita cura le tante sparse scritture di lui, avrebbero potuto essere quattro, anzi che due soli volumi, e ugualmente cari ed utili agli studiosi.

Ora il Rossi viveva vita agiata e tranquilla a Parigi e frequentava le conversazioni dei suoi amici dottrinari ed era in grande intimità più specialmente col De Broglie e col Guizot. Quanto meno egli piaceva alla folla e tanto più, invece, fulgeva in quei saloni, fra i visitatori dei quali esso addiveniva un vero conquistatore di anime. Il suo sapere, la sua eloquenza, il suo tatto, il suo spirito gli procacciavano numerosi ammiratori e fidi e sinceri amici. Al Guizot specialmente egli seppe, fin da quel tempo, inspirare così alta stima e così profonda fiducia, che da allora data non solo la loro intrinsechezza, ma la collaborazione quasi del Rossi nella politica del Guizot e della quale si hanno così numerose e notevoli traccio e negli otto volumi delle Memorie del Guizot stesso e nel libro del D’Haussonville60.

Nel novembre del 1837 un regio decreto lo confermava definitivamente nella cattedra di diritto costituzionale alla Scuola di diritto61.

[p. 89 modifica]Accolto dal re Luigi Filippo, da prima con benevolenza, poi con amicizia, seppe entrare nelle grazie di lui e della reale famiglia e specialmente in quelle del duca d’Orléans, principe ereditario, ciò che accrebbe prestigio ed autorità al suo nome nell’alta società parigina.

Nel maggio del 1838, con legge approvata dalle due Assemblee legislative, gli fu accordata la grande naturalizzazione francese, onde potè, nel novembre del 1830, essere nominato Pari di Francia, con un decreto reale che elevava a quella dignità il Béranger, il Cavaignac, il Daunou, il Merlin, il Viennet e qualche altro ragguardevole personaggio.

Nel 1840, nominato membro del Consiglio reale dell’istruzione pubblica, dovette lasciare la cattedra di economia politica al Collegio di Francia, in cui, come già accennai, fu surrogato da Michele Chevalier, ma rimase in quella di diritto costituzionale alla Scuola di diritto, la quale fu conservata a lui anche dopo la rivoluzione del febbraio 1848, per la energia con che il ministro della istruzione del governo repubblicano Carnot seppe resistere a tutte le pressioni che gli si facevano perchè ne dichiarasse decaduto il Rossi62.

Il 18 novembre 1843 il Rossi fu nominato decano della Facoltà alla Scuola di diritto e «anche per ciò sorsero malumori e minaccie di ostilità che egli seppe dissipare»63.

[p. 90 modifica]Però bisogna notare che i giornali più spigliati dei vari partiti di opposizione e, più specialmente, quelli umoristici, avevano cominciato ad assalire il Rossi con accuse e satire quasi al tutto ingiuste, quasi sempre calunniose ed immeritate. Si era segnalato in questa guerra contro Pellegrino Rossi il brioso Alphonse Karr che contro di lui aveva scritto in più luoghi del suo periodico Les Guèpes 64, Il Rossi, sempre altero e disdegnoso, non curava quelle satire e quei libelli, ma ognora più accumulava nell’animo lo sprezzo profondo, sempre [p. 91 modifica]manifestato per la democrazia, pei radicali, pei demagoghi e la collera mal dissimulata che egli, anche per ragione dei suoi convincimenti di dottrinario, contro quella gente aveva sempre provato.

Sull’opera di lui quale membro dell’Alta camera in Francia, se tutti gli scrittori, che si occuparono del Rossi, sono concordi nel rilevarne l’importanza, non sono tutti ugualmente d’accordo nel giudicare le idee da lui svolte e i principi! sostenuti come relatore di alcuni disegni di legge.

All’Alta camera egli raramente parlò; ma fu eletto a riferire sulle conclusioni delle Commissioni nominate per esaminare il disegno di legge sugli zuccheri, quello sul regime finanziario delle colonie e quello per la proroga del privilegio già accordato nel 1840 alla Banca di Francia. Le relazioni presentate dal Rossi e i discorsi da lui pronunciati in quelle diverse occasioni attestano luminosamente le profonde cognizioni sue e la sua indiscutibile esperienza in quelle materie. E tali relazioni sono altamente lodate65 meno quella sul privilegio accordato alla Banca di Francia, a proposito della quale due eminenti critici, il Baudrillart e il Ferrara, muovono censura al Rossi per essersi palesato propugnatore del privilegio più assai che dalle dottrine, precedentemente da lui espresse intorno alla libertà di commercio, gli fosse ragionevolmente consentito. «Egli osteggia — scrive il Baudrillart — «aspramente la libertà delle banche, senza esaminare se la garanzia della cauzione potesse essere un rimedio al [p. 92 modifica]male che nella libertà egli scorgeva». «Altrettanto» — diceva Pellegrino Rossi nella sua relazione — «varrebbe permettere al primo venuto di stabilire in mezzo alle nostre città spacci di veleni, o fabbriche di polvere da cannone. La libera concorrenza in materia di banche non è il perfezionamento, la maturità del credito: essa ne è l’infanzia, o se si vuole, la decrepitezza». E il Baudrillart, continuando, saviamente osserva che con queste sue idee il Rossi «oltrepassava di molto lo stesso protezionista Roberto Peel e che dimenticava, o non teneva alcun conto della smentita che sembravano dare a quella sua così assoluta dottrina le banche di Scozia e degli Stati Uniti, le quali funzionavano benissimo e producevano benefizi che non poteva produrre il privilegio. Lungi dall’essere considerato come decrepitezza, il regime della libertà delle banche dovrebbe» — concludeva il Baudrillart — «essere considerato come progresso»66.

Nè meno severamente ragiona e conclude il Ferrara67. Ma il Pierantoni cerca di scagionare il Rossi di quella censura dei due insigni economisti osservando «che un Parlamento non consente gli abiti dell’Accademia, che un relatore riassume il pensiero comune di una Commissione e che in una questione di proroga di privilegio, il monopolio bancario era un fatto esistente, dal quale conveniva prender le mosse»68. Alle quali obiezioni si dovrebbe, per la verità, replicare che a relatore di una Commissione è sempre scelto colui che meglio possa esprimere il pensiero della maggioranza e che, quindi, è evidente che il Rossi fu eletto perchè pienamente consentiva nell’opinione di quella dei pari di Francia nel 1841 e, per ciò, egli, manifestando quelle idee, affermava idee sue; che è innegabile che tali idee fossero in aperta contraddizione con quelle antecedentemente da lui, quale scienziato, affermate dalla sua cattedra di economia e che, ammesso pure che in quella questione di proroga la Commissione della Camera dei pari avesse dovuto tener conto del fatto del monopolio già esistente, non ne conseguiva e non ne consegue, a rigor di logica, che dal momento che il Rossi, per ragione politica e di opportunità, si sentiva tratto a passar sopra [p. 93 modifica]ai proprii convincimenti di economista, non avesse dovuto, in omaggio a quei convincimenti, almeno almeno, salvaguardare, con le più ampie riserve, il principio generale di libertà da lui professato, pure ammettendo che, nel caso speciale, per ragioni speciali, la Commissione proponeva, che la proroga del privilegio alla Banca di Francia fosse confermato.

La verità è che il Rossi, in questa, come in parecchie altre occasioni, si lasciò sopraffare dai sentimenti di gratitudine e dai vincoli che lo legavano al ministro Guizot e sacrificò agli interessi del suo partito politico le sue convinzioni di scienziato, come parecchi scrittori hanno notato e come io, per debito di storico imparziale ed obiettivo, ho già dovuto rilevare e rilevato69.

Una grave e ardente questione si discuteva dal 1840 in Francia e agitava gli animi e li divideva in due campi, onde nasceva una mischia che degenerava poi, nel 1844, in generale battaglia.

Nella carta costituzionale del 1830 era stata sancita la libertà d’insegnamento, che il Guizot ministro dell’istruzione pubblica, con la legge del 28 giugno del 1833, aveva introdotta nell’insegnamento primario; e che poi aveva tentato, ma non era riuscito, introdurre nel 1836 nell’insegnamento secondario. Rinnovava il tentativo il ministro dell’istruzione Villemain nel 1841 e poi nel 1844. Ma la questione era alta, grave e complessa e si riconnetteva con tutte le questioni di ordine morale e di organizzazione sociale. Le passioni politiche alimentavano le fiamme di quell’incendio; l’energia, con la quale i clericali domandavano, ad alta voce, l’applicazione della libertà d’insegnamento insospettiva e spaventava i liberali. I più intransigenti fra i clericali, nel chiedere la facoltà di impartire liberamente il medio e l’alto insegnamento, assalivano con violenza la scuola filosofica, l’insegnamento di stato e più specialmente le Università, accusandole dell’indifferentismo religioso, del materialismo, del pervertimento che si dilagavano sulla Francia. I filosofi, i pensatori, gli ammiratori delle Università, i liberali [p. 94 modifica]cusavano, alla loro volta, gli avversari di volere sottrarsi all’autorità moderatrice dello stato, di volere abusare della libertà dell’insegnamento per corrompere la gioventù francese, per educarla serva di Roma, per fare della Francia tutto un convento di gesuiti. I più fra i liberali ammettevano la libertà d’insegnamento, ma non volevano che questo fosse sottratto all’alta sorveglianza della potestà civile, affinchè non potessero, all’ombra della libertà, sotto l’egida della libertà, il clero, gli ultramontani, i gesuiti crescere ed educare all’odio della libertà, del progresso, della civiltà le nuove generazioni.

Di quella discussione, che appassionava gli animi e commoveva l’opinione pubblica, l’eco si ripercosse nelle due Camere dei rappresentanti del paese. E precisamente in occasione delle interpellanze indirizzate in proposito al ministro Villeraain nella Camera dei pari nel 1844, Pellegrino Rossi prese parte alla elevata e importantissima discussione in quell’aula sollevatasi fra uomini del valore del Montalembert, del Villemain e del Martin. Egli pronunciò allora, nell’aprile 1844, un discorso gagliardo, eloquente, elevatissimo che produsse profonda impressione non soltanto nella Camera alta, ma nel mondo politico, nel giornalismo e nel paese.

La lotta scoppiò, nella Camera dei pari, violenta, inaspettata, poderosissima, nella seduta di mercoledì 10 aprile 1844 a proposito della discussione del disegno di legge sui fondi segreti, pel quale il ministero Guizot domandava l’aumento di un milione di franchi. Il terreno era adattatissimo per un’ampia discussione politica: e siccome la quistione più ardente, quella che, ormai, commoveva, in un senso o in un altro, tutti gli animi in Francia, era quella della libertà dell’insegnamento e commuoveva i gesuiti e gli ultramontani per l’odio contro i liberali e contro l’insegnamento universitario e commoveva i liberali e i democratici per l’odio contro gli ultramontani e i gesuiti, così è naturale che su quella quistione vivissima irrompesse la battaglia.

Il conte di Montalembert, il belligero oratore della Destra, audace, convinto, eloquente e dottissimo nella storia della Chiesa, assalì il ministero per la sua politica ecclesiastica, con uno dei più alti e vigorosi suoi discorsi, che necessità di tempo e di [p. 95 modifica] spazio mi costringe a riassumere brevemente. Egli intendeva difendere la condotta del clero francese, biasimare quella dei liberali e degli insegnanti miscredenti della Università, ammonire il Governo, e sottrarlo ai perversi consigli e ritrarlo dal precipizio d’iniquità verso cui lo vedeva avviato. Rilevato e dimostrato, a suo modo, quindi, come il clero fosse in Francia vittima di una vera persecuzione, difendeva l’episcopato, battagliero per necessità e dovere di difesa, e affermava che «i vescovi son vescovi e fatti pei cattolici e per coloro che credono e non per coloro che non credono, ma essi non hanno autorità dalla legge, che riconosce la loro autorità in materia religiosa, essi hanno la loro autorità da Dio». (Mormorio).

E invocando gli esempli di san Basilio, che in nome dell’autorità ecclesiastica frenava l’audacia di Modesto, ministro imperiale, e quella di Fénelon che diceva ai principi: «non siete voi i protettori della Chiesa, è la Chiesa che protegge voi, il focoso oratore del clericalismo esclamava: «Ma a ciò i nostri avversari rispondono: Ma la Chiesa dunque è ancora al medio evo? È sempre, dunque, la Chiesa di Gregorio VII e di Bonifacio VIII? Buon Dio, si, o signori, è sempre la stessa: la Chiesa di Gregorio XVI è la stessa di Gregorio VII, come quella di san Gregorio VII era la medesima cosa di quella di san Gregorio il grande, di san Basilio, di sant’Ilario. Ah! lo comprendo, sarebbe più comodo che fosse altrimenti. Per noi, uomini di stato, sarebbe più comodo, lo comprendo, che la Chiesa potesse variar di dogmi, di diritti, di pratiche come i Codici e i tribunali! Non vi sarebbe in ciò che un piccolo inconveniente: la Chiesa cattolica non sarebbe più che una di codeste sètte religiose, che si trasformano di secolo in secolo, secondo l’ambiente in cui vivono. Chi ha cambiato adunque non è la Chiesa, ma la società: ed in ciò è il ridicolo di queste comparazioni ingiuste fra il passato e il presente, e le accuse addotte contro la Chiesa di voler intervenire oggi, come altra volta, negli affari umani. Se ella altre volte lo fece, fu perchè lo esigevano le circostanze e le condizioni della società, e perchè vi conveniva il mondo intero: ma cedere il governo delle anime, l’educazione delle anime, il diritto spirituale, ecco ciò che essa non fece e non farà mai».

E, dopo avere eloquentemente dimostrato, invocando le [p. 96 modifica]bertà gallicane, il diritto che aveva la Chiesa alla libertà d’insegnamento che reclamava, con slancio di retorica veramente efhcace, sebbene paradossale, gridava: «Ah vol.invocate l’antico regime contro di noi? P]bbene, allora ristabilite tutto ciò che,nell’antico regime,ci era favorevole. Cosi l’ordine del clero componeva una Camera tutta intiera, la prima degli Stati generali; noi avevamo ottanta milioni di beni prediali: ordini monastici, abbadie, conventi coprivano il suolo della Francia: ci erano consiglieri di Stato della Chiesa e consiglieri chierici al Parlamento». [Ilarità-rumori).

Allora il fiero oratore dichiarava che non chiedeva nulla di tutto ciò, ma non domandava pel clero e pei cattolici che la libertà tale quale esisteva di diritto in Francia, di fatto in Inghilterra, di diritto e di fatto nel Belgio, e affermava che negare questa libertà era il colmo dell’oppressione, dell’ingiustizia e dell’ipocrisia, e conchiudeva: «Noi non vogliamo essere iloti; noi siamo i successori dei martiri e non tremiamo dinanzi ai successori di Giuliano l’Apostata: noi siamo i figli dei crociati e non retrocederemo dinanzi ai figli di Voltaire». (Movimenti diversi) 70.

A questo vigoroso discorso, rispondeva lì per lì, e da par suo, il ministro Villemain e nella successiva seduta del 17 aprile replicava prima con un discorso, accolto freddamente, il guardasigilli Martin (du Nord), poi Pellegrino Rossi, col seguente discorso, che ho creduto mio stretto dovere di riprodurre:


Io non vengo a difendere qui l’Università. Fiero di appartenerle, io le apporterei il mio debole soccorso se credessi che essa ne avesse ancora bisogno. Non lo credo. Io vengo ad aggiungere qualche osservazione al discorso, sotto ogni riguardo eccellente, del guardasigilli, osservazioni che hanno per scopo di difendere lo Stato contro gli assalti, e la Chiesa contro gli errori del signor conte De Montalembert.

La questione delle libertà gallicane è stata riprodotta, ma si disse che non vi s’insisterebbe di più, perchè essa non era in fondo che una questione teologica. No, o signori; se la questiono delle libertà della Chiesa gallicana può essere considerata, sotto un certo aspetto, come una questione teologica e di diritto canonico, sotto un altro aspetto, sotto il punto di vista che interessa essenzialmente il potere dello stato, essa è una questione eminentemente politica, una questione di diritto pubblico.

[p. 97 modifica] Le libertà della Chiesa gallicana, tutti lo sanno, si compongono essenzialmente di due principii. Il primo, tutto politico, non si riduce che a questo: lo Stato è indipendente, lo Stato è sovrano, padrone di sè stesso; esso non ha qui in terra nè giudice, nè superiore.

Ecco quale è la prima delle massime gallicane. Che, a cagione delle circostanze dei tempi, sia stata enunciata dicendo più particolarmente che il Re era indipendente dal Pontefice nell’amministrazione del suo stato, nelle cose temporali, è cosa semplicissima: allora l’autorità suprema non temeva che le usurpazioni tentate qualche volta dai Papi. Si esprimeva il principio secondo le idee e le necessità dei tempi. Ugualmente si era detto: il Re non deriva che da Dio e dalla sua spada. E questa è una formula trovata nei tempi del feudalismo. In fondo s’intende dire: lo stato, di cui il Re è il rappresentante augusto e sovrano, è una potestà indipendente e sovrana.

La seconda massima è questa: la Chiesa di Francia, parte integrale della Chiesa universale, è senza dubbio sottomessa al Pontefice: frattanto la Chiesa di Francia riguarda il governo spirituale come riproducente le forme di una monarchia limitata e non assoluta: essa assegna alla potestà pontificia i limiti tracciati in particolare dal Concilio di Costanza. Tale è la seconda massima.

Ora, quando si viene a dirci da questa tribuna: dietro le libertà della Chiesa gallicana, che si vuol dire con ciò? Si vuol dire che oggi l’episcopato francese preferisce nel governo della Chiesa, nell’ordine spirituale, la monarchia assoluta alla monarchia limitata e che vuole considerare i canoni del Concilio di Costanza come non esistenti?

Io credo, in effetto, che questa potrebbe essere riguardata come una questione teologica e anche come una questione di diritto canonico. Checché ne sia, io non voglio trattare qui questo punto. Soltanto io sono ben lieto di avere udito il signor conte di Montalembert dichiarare, terminando, che egli non era l’organo dell’episcopato francese. Io non ne dubitavo. (Si ride).

Ma, io lo ripeto, è tutto qui ciò che si è voluto dire? Se così è, perchè portare oggi una siffatta questione a questa tribuna? Il giorno in cui fosse evidente che il clero francese, o una parte notevole di questo clero avesse introdotto un così profondo cambiamento nelle sue dottrine, forse il Governo avrebbe esaminato se questa è la Chiesa francese, la Chiesa nazionale, la Chiesa della maggioranza dei Francesi di cui parla la carta, che lo Stato protegge e che sostiene coi suoi tesori.

L’altro punto delle libertà della Chiesa gallicana non è, ridiciamolo, che la proclamazione dell’indipendenza dello Stato, dell’autonomia della nazione francese Quando si grida: Dietro le libertà della Chiesa gallicana senza distinzione, ci si vuole dunque ricondurre alla teocrazia, si vuol far della Francia una provincia del Papato?

Ecco certamente una questione esclusivamente politica ed ecco perchè io ho ragione di essere meravigliato ed afflitto di udir dire a questa tribuna: dietro le libertà della Chiesa gallicana.

Che m’importa che queste libertà siano state per la prima volta compilate da un giureconsulto, che m’importa — vado più in là — che esse siano, o che non siano scritte in una legge? Questa è una questione perfettamente oziosa. E che! quand’anche non vi fosse un solo documento di diritto [p. 98 modifica]positivo ove fosse detto: lo stato è indipendente, esso è sovrano, padrone di sè stesso verso e contro tutti, vi sarebbe qualche cosa di cambiato, qualche diminuzione dello stato? I diritti dello stato sarebbero essi meno certi, meno positivi, meno incontestabili, meno inattaccabili? Ha d’uopo dunque di una legge per provare che un uomo vivo non è morto? (Si ride).

Una legge per affermare che la Francia è un paese indipendente non è più necessaria che una legge destinata a stabilire che il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui due altri lati del triangolo rettangolo.

L’essenza dello stato è l’indipendenza; questo è un assioma. Sia grande o piccolo lo stato, eretico o cattolico, debole o forte, poco importa: i fatti possono variare, il diritto è lo stesso per tutti. L’indipendenza, l’autonomia dello stato, è un principio di diritto pubblico che domina tutta la legislazione di un paese, sia o non sia questo principio materialmente scritto in una legge speciale.

L’indipendenza di una nazione è scritta nella sua storia, nelle sue istituzioni, in tutte le sue leggi: essa è attestata da tutta la sua organizzazione sociale e politica.

La prima delle libertà della Chiesa gallicana non era che l’espressione diretta e formale di questo principio: e la storia spiega abbastanza perchè questa affermazione solenne ed esplicita parve necessaria: si volevano troncare così le querele che avevano esistito fra la Corona e il Papato.

Se mi si dice che oggi lo stato nulla di serio ha da temere dal Papato per la sua indipendenza, io sono il primo a riconoscerlo: se mi si dica che oggi il timore delle usurpazioni di Roma sulla sovranità della Francia sarebbe un timore chimerico, io sono d’accordo; ma che non ci si venga neppure a dire: dietro certe libertà la prima delle quali non è altro che un principio fondamentale del nostro diritto pubblico, un elemento essenziale della nazionalità francese.

Io vengo al secondo punto: parlando della Chiesa che cosa ci si è detto? Ci si è detto che la Chiesa cattolica, apostolica, romana, di cui facciamo parte, non ha cambiato mai.

Che si vuol dire con queste parole? Che essa non cambia nei suoi dogmi? In verità non era necessario venire a questa tribuna per apprendercelo. Ma no: si è andati più lontano: si è detto che essa non cangia mai non solamente nei suoi dogmi, ma anche nelle sue pretese e nella sua condotta.

In quale documento, in quale libro è scritta la storia che il signor conte De Montalembert ci sciorina qui? Certo non è questa la storia che ciascuno di noi ha appresa. Egli ha detto ieri, citando non so quale aneddoto, che esso era tratto dall’istoria che si apprende nella nostra infanzia prima di essere abbandonati all’Università. Si è dunque egli fermato là? Meglio sarebbe stato studiare in seguito la storia che l’Università insegna e che ella insegna sulle traccie di Vico, sulle treccie di Bossuet. e io potrei aggiungere qui un terzo nome, se anche l’amicizia non avesse la sua timidezza e il suo pudore71.

Come? La Chiesa non ha mai cambiato? La Chiesa ha una intelligenza ben più alta, un’abilità ben più grande, una prudenza ben più [p. 99 modifica]consumata che quella che le presta il signor conte De Montalembert. (Benissimo! Benissimo! Risa di approvazione).

La Chiesa non ha cominciato col volere immischiarsi nel governo delle cose di questo mondo. Piú tardi essa l’ha voluto, e se ne è immischiata; e più tardi ancora, ella ha cessato di volerlo. (Benissimo!).

E la Chiesa ha avuto completamente ragione di immischiarsene ad una data epoca, perchè il governo delle cose di questo mondo appartiene a coloro che sanno e, allora, la Chiesa sola sapeva: i laici nulla sapevano e non conoscevano che la forza, la forza brutale. (Nuove approvazioni).

E voi venite a dire che la Chiesa non cambia mai di condotta? Ma, signori, la Chiesa, nel paese che mi ha veduto nascere, appoggiò nel medio evo le libertà popolari.

Il signor conte De Montalembert. Ella le ha appoggiate da per tutto.

Il signor Rossi. E ha fatto bene; perché a quel tempo ciò che importava era di porre un termine alla feudalità, a questa tirannia che paralizzava tutti i progressi dei popoli.

Più tardi la Chiesa venne in soccorso del principio monarchico, e fece bene ancora, perchè il principio monarchico era per gli Stati un principio di unità, d’ordine, di grandezza e, perciò, una causa efficace di potenza e di civilizzazione. (Benissimo! Benissimo!)

Eh! signori, è necessario dunque fare qui un corso di storia per provare che la Chiesa ha saputo sempre, nella sua condotta esterna, tener conto dei fatti, che essa ha seguito, con una ammirabile prudenza e una grande sagacia, le fasi della vita sociale e che ella ha saputo adattare ad esse la sua azione e la sua influenza? Questa è la verità. Non ci si venga dunque a presentare la Chiesa come ostinata in ciechi pregiudizi, come decisa a non tenere alcun conto dei fatti esteriori e a considerare gli uomini per esseri condannati ad una immobilità assoluta. No: essa conosce meglio le leggi della Provvidenza; della Provvidenza che ha fatto gli uomini e la società perfettibili e ha loro imposto i mutamenti ed il progresso: onde la condotta della Chiesa doveva necessariamente cambiare per non trovarsi in contraddizione con le leggi della Provvidenza, (segni di approvazione).

Ma io vado più lontano, o signori, oso predire che la Chiesa cambierà ancora.

Io non sono di quelli che si stupiscono, che si adirano perchè una parte più o meno considerevole dei membri del nostro clero commette, io lo dirò, degli errori, e si inganna. Che v’ha in ciò da meravigliarsi? È la prima volta che la Chiesa si trova in presenza di un governo rappresentativo permanente e regolare, di un governo che, mantenendo l’ordine, sa svolgere nel tempo stesso in giusta misura tutte le pubbliche libertà. Io non sono meravigliato che innanzi a questo gran fatto sociale, a questo fatto nuovo, la Chiesa provi un momento di incertezza e di imbarazzo e che alcuni dei suoi membri cadano in errore. Quando avrebbe ella potuto fare l’esperienza di un governo rappresentativo? Ove avrebbe ella potuto apprendere tutti i segreti della situazione attuale? In Inghilterra, forse, nella patria del test? O in Irlanda in mezzo alla servitù dei cattolici? O negli anni che susseguirono la rivoluzione del 1789? Ohimè! quei terribili anni che poterono essi insegnare al clero se non la rassegnazione ed il martirio? (Nuove e vive approvazioni).

[p. 100 modifica]Forse sotto l’Impero? L’Impero, senza dubbio, onorava la Chiesa; il console aveva rialzato gli altari: l’imperatore tendeva la sua mano potente al clero. Può essere ancora che il clero obliasse troppo allora che l’incenso prodigato fuori del santuario turba ed ottenebra lo spirito dei deboli mortali! (Benissimo! Benissimo!).

Forse sotto la restaurazione? Anche sotto la restaurazione una parte del clero commise un errore capitale, sognando altri tempi e credendo di poter fare del re di Francia un chierico. Voi ne conoscete le conseguenze; conseguenze che sarebbero le stesse oggi, se il medesimo errore - oggi, grazie a Dio, impossibile - potesse essere rinnovato.

Il clero non si è dunque mai trovato davanti a un governo rappresentativo regolare, serio, solidamente stabilito, desideroso di sviluppare sinceramente tutte le libertà pubbliche, che dopo la rivoluzione del 1830. E, allora, non siamo troppo impazienti, imitiamo Roma, la quale è paziente non soltanto coi suoi avversari, ma anche voi suoi stessi figliuoli ed amici. (Movimenti di approvazione). Essa tollera lungamente gli errori: poi viene il giorno in cui essa riconduce gli erranti alla verità, all’ordine, alla pace. (Nuovi movimenti di approvazione).

Io ho l’intima convinzione che questo giorno verrà, e che le difficoltà che ci circondano troveranno la loro soluzione, una soluzione ragionevole e pacifica, innanzi tutto per la ferma volontà e per il buon senso del paese, per l’intervento prudente e illuminato dei poteri dello stato e poi, anche, per i consigli del capo supremo e venerato della cattolicità. Egli comprenderà le necessità dei tempi moderni nei governi rappresentativi, come la Chiesa ha sempre compreso, io lo ripeto, tutte le necessità sociali nel seno delle quali essa si è successivamente trovata. (Segni generali di approvazione. L’oratore, nel tornare al suo posto, riceve le congratulazioni di un gran numero dei suoi colleghi).


Il successo di questo discorso denso di pensiero, sintetico, poderoso nell’affermazione di un principio fondamentale, morbido e saporosamente malleabile in tutto il resto, come i lettori hanno veduto, fu completo; oratoriamente fu un grande successo. Non avveniva mica tutti i giorni, alla Camera dei pari, che un oratore fosse così frequentemente interrotto dai segni di approvazione e dai plausi dei propri colleghi o, molto meno, che alla fine del suo discorso, un oratore scendendo dalla tribuna, fosse così clamorosamente da essi felicitato.

Sotto il riguardo da cui io debbo considerare questi fatti, in relazione, cioè, all’uomo insigne di cui tratto, due sole osservazioni debbo trarne e sottoporre ai miei lettori.

La prima - e vi insisto con una certa tenacia, e i miei pazienti lettori vedranno, in seguito, che io avevo ragione di insistervi con qualche tenacia - si riferisce allo spirito conciliatore che alita in tutto l’alto discorso di Pellegrino Rossi. Egli sostiene i [p. 101 modifica]diritti imprescrittibili dello stato e lo difende, anche con mordente ironia, contro chi lo assalisce in quella palizzata dei suoi diritti; ma, poi, quanta reverenza e quanta tenerezza non dimostra egli alla Chiesa cattolica?... Egli seguiva, con una specie di impeto generoso, due cose in quel discorso, tanto altamente elogiando la Chiesa, le sue inclinazioni e le sue dottrine. Inoltre, con finezza veramente machiavellica, egli, che conosceva i suoi polli, cioè i suoi colleghi alla Camera dei pari, con quella penetrazione - è permesso di dirlo senza tema di esser tacciato di una millanteria patriottica che nel mio animo e nel mio pensiero non esiste? - tutta italiana del Cinquecento, convinto che la maggioranza dei pari fosse costituita di dottrinari, di volteriani annacquati, in pubblico liberaloni, in casa cattolici per tradizioni, per consuetudini e per la quiete della famiglia, parlò in modo da soddisfare quella duplicità di sentimenti e di atteggiamenti e da appagare e le pompose manifestazioni esteriori liberalesche di quei signori e le interne resipiscenze cattolicuzze di quei gaudenti della politica da juste milieu.

La seconda osservazione e - così piaccia ai lettori - importantissima è questa: nella fine del suo discorso Pellegrino Rossi preannunciava la politica di altalena a cui si sarebbe appigliato il ministro Guizot: dal qual fatto - che è un fatto innegabile contenuto nelle parole: e pei consigli del capo supremo e venerato della cattolicità, il quale comprenderà la necessità dei tempi... con quel che siegue - è lecito dedurre, a rigor di logica, una di queste due conseguenze: o il Guizot aveva già concepito il pensiero di seguire quella linea conciliativa, per risolvere la questione della libertà d’insegnamento e dei gesuiti e, avendola comunicata al suo intimo confidente, il Rossi, questi se ne faceva, d’accordo col ministro, il precursore; o il Guizot non aveva ancora pensato a quella scappatoia e il Rossi abilmente gliene offriva l’idea nel suo discorso. Nell’un caso o nell’altro, questo fatto viene - mi sembra chiaro - a confermare ciò che io dissi già, che il Rossi, non soltanto era l’intimo amico, ma il collaboratore del Guizot.

Il ministro Guizot espresse, più tardi, su quella questione tutto il suo pensiero alla Camera dei deputati. Con quella elasticità e malleabilità, che formava il fondamento principale della [p. 102 modifica]sua abilità, la quale abilità consisteva - come avviene sempre in tutte le coscienze fiacche e dai deboli convincimenti - nell’ondulare fra le opposte sentenze, nascondendo l’oscitanza sotto il velo della calma spassionatezza, per tenersi sempre dischiusa la via au juste milieu e aperta la ritirata sul campo dell’opportunismo, egli, dopo avere riepilogata l’origine, la storia, gli intendimenti e le evoluzioni della Compagnia di Gesù, nata e vissuta per sostenere la fede contro il libero esame, il dogmatismo contro la scienza, il principio di autorità contro la libertà, dopo avere affermato che la Spagna, il Portogallo, l’Italia erano deperite fra le loro mani e sotto la loro influenza, aggiungeva: «Oggi, almeno, la Società di Gesù riconosce l’esperienza? Ammette essa che il libero esame possa sussistere accanto alla potestà civile? Che la pubblica critica possa essere esercitata sopra l’autorità che resta forte e regolare? Se i gesuiti ammettono questo fatto, se essi sono illuminati da questa esperienza, vengano a prendere il loro posto fra noi, liberi e sottomessi alla libera concorrenza di tutti i cittadini. Ma il pubblico crede, ed ha forti ragioni di credere, che i gesuiti non hanno profittato abbastanza dell’esperienza di tre secoli, che essi non hanno completamente rinunciato al pensiero primo della loro origine, che l’idea della lotta contro il libero esame e il libero controllo dei poteri pubblici non sia ancora uscita dai loro spiriti; se ciò è, se i gesuiti persistono a disconoscere i risultati dell’esperienza, essi apprenderanno che si ingannano oggi come si ingannarono tre secoli fa, e saranno oggi battuti come già lo furono»72.

Questa esitazione e dubitazione continua, questo parlare circonvoluto e pieno di sottintesi e di riserve, questo dire e non dire, questa eloquenza del ti vedo e non ti vedo, passava allora, fra i dottrinari, per sapienza politica!

«Ma» - soggiunge tosto, dopo riferito quel suo discorso, il Guizot - «nella Camera, come nel pubblico, e fra gli amici del gabinetto come nell’opposizione, gli spiriti non erano nè così calmi, nè così equi; essi erano più inquieti di me sulla potenza dei gesuiti e meno fiduciosi in quella della società e della libertà. Si contavano le case che i gesuiti possedevano in Francia, [p. 103 modifica]gli oratorii che essi amministravano, le proprietà che acquistavano, i fanciulli e i giovinetti che essi educavano, i credenti che si aggruppavano intorno ad essi. Onde si reclamava contro di loro l’applicazione delle leggi di cui, sotto l’antico regime, sotto l’Impero e fin anche sotto la restaurazione, le congregazioni religiose non autorizzate erano state obietto. Queste leggi erano incontestabilmente in vigore e si può, senza temerità, affermare che se la questione fosse stata portata avanti ai tribunali, essi non avrebbero esitato ad applicarle» 73.

A quei giorni due grandi ingegni francesi, il Michelet ed il Quinet, tuonavano dalle loro cattedre contro i gesuiti, fra gli applausi frenetici del pubblico, che si affollava ad ascoltarli, mentre andava a ruba e si leggeva con entusiasmo da per tutto le Juif errant, il romanzo di Eugenio Sue, terribile processo contro la Società di Loyola.

«Ci si dice» - esclamava il Quinet - «voi attaccate il gesuitismo per misura di prudenza. Perchè lo separate dal resto del clero? Io non separo che ciò che vuol essere separato. Io espongo le massime dell’Ordine che riassume le combinazioni della religione politica. Coloro che, senza portare il nome dell’Ordine, si tuffano nelle medesime massime si attribuiranno agevolmente la parte che ad essi spetta delle mie parole: quanto agli altri è offerta ad essi l’occasione di rinnegare gli ambiziosi, di ricondurre gli sviati, di condannare i calunniatori. È ora di sapere finalmente, se lo spirito della rivoluzione francese non è più che una parola vuota di cui si debba pubblicamente ed offícialmeute burlarsi. Il cattolicismo, schierandosi sotto la bandiera dei gesuiti, vuol ricominciare una lotta, che già gli fu funesta? Vuole esso essere amico, o nemico della Francia?» 74 Cosi allargavasi e si acuiva quella questione, e siccome il Guizot e i suoi colleghi del ministero temevano che una lotta del potere civile contro le influenze religiose potesse avere l’apparenza di una persecuzione, pensarono, d’accordo col Re Luigi Filippo, di sottoporre la questione dello scioglimento della [p. 104 modifica]Società di Gesù al Papa; così «il potere civile non rinunciava alle armi legali di cui era provveduto, ma, nell’interesse della pace religiosa come della libertà e deirinfluenza religiosa in Francia, esso invitava il potere spirituale della Chiesa a esonerarlo dal servirsene» 75.

Espedienti e sotterfugi ingenui nella supposta loro sottigliezza che, presso i dottrinari, passavano, allora, per somma abilità e sapienza politica!

E così fu che il presidente del Consiglio dei ministri Francesco Guizot propose al Re di nominare e il Re nominò Pellegrino Rossi inviato straordinario e ministro plenipotenziario ad interim, al posto lasciato vacante a Roma dal conte Settimo De Latour-Maubourg, che era andato in congedo, per ragioni di salute.

«Ciò che questa scelta aveva di un po’ strano, costituiva ai miei occhi» - scrive il Guizot - «il suo primo vantaggio; rinvio del Rossi, che era italiano e altamente liberale, profugo dalr Italia a causa delle sue opinioni liberali, non poteva non colpire, dirò più, non inquietare la Corte di Roma; ma vi sono inquietudini salutari e io conoscevo il signor Rossi attissimo a calmare quelle che egli doveva inspirare e nel tempo stesso a profittarne per il successo della sua missione. Le sue convinzioni liberali erano profonde, ma larghe e al tutto estranee a ogni spirito di sistema e di partito: aveva il pensiero liberissimo, quantunque non ondeggiante e nessuno sapeva meglio di lui vedere le cose e le persone tali quali erano realmente e contenere la sua azione giorno per giorno nei limiti del possibile senza cessare di seguire costantemente il suo scopo. Ardito con misura, tanto paziente quanto perseverante, insinuante senza servilità, egli aveva l’arte di maneggiarsi e di piacere a colui con cui trattava e dandogli l’idea che egli finirebbe per riuscire nella sua intrapresa e per ottenere ciò che gli si contestava.

Nella vita politica e diplomatica egli non era di quelli che si impadroniscono d’assalto e d’un colpo della città che assediano, ma di quelli che la circondano, la stringono così bene che la [p. 105 modifica]conducono a rendersi, senza molta collera e come per una necessità accettata»76.

Cosi il Rossi partì per l’Italia sulla fine del 1844 e visitò varie città della penisola, e specialmente Bologna, Carrara e Pisa, prima di andarsi a fissare a Roma.

Quali dovevano essere i pensieri e i sentimenti di questo grande esule, il quale, uscito d’Italia come fuggiasco e proscritto, vi ritornava rivestito della rappresentanza ufficiale e diplomatica di una delle maggiori nazioni d’Europa?

Ecco che egli, con l’ingegno, con la dottrina, con l’operosità, si era per la terza volta ricostituito, in un terzo ambiente, uno stato invidiato ed invidiabile ed ecco che gli si dischiudevano le porte contese della patria tanto amata! «Allorquando» - diceva egli - «io valicai per la prima volta il Moncenisio, dopo tanti anni d’assenza e rividi il cielo d’Italia, piansi come un fanciullo»77. E chi potrebbe negargli fede? E chi non avrebbe pianto?

Il 2 marzo 1845 egli riceveva a Roma officialmente le istruzioni del governo francese intorno alla grave e delicata missione affidatagli. Quelle istruzioni sono per esteso riferite dal Guizot78.

La condizione di Pellegrino Rossi a Roma era, senza dubbio, assai delicata. Molti di quei Cardinali e prelati ricordavano ancora la ribellione del 1815 e la parte che il professore avvocato Pellegrino Rossi vi aveva presa e brontolavano contro quel ministro plenipotenziario, che nascondeva, forse, sotto le dorature della sua uniforme, l’animo ostile dell’antico rivoluzionario. I gesuiti, i quali ben sapevano come contro loro fosse indirizzata la prossima azione di quell’uomo, di cui essi conoscevano la potenza, l’abilità, l’ingegno, soffiarono dentro a quei malumori e rimescolarono così quelle vecchie reminiscenze che, allorquando il nuovo ministro plenipotenziario francese prese stanza nella sua residenza del palazzo Colonna e cominciò ad aggirarsi per la città, trovò, da per tutto, una specie di muraglia della Cina che [p. 106 modifica]gli precludeva l’accesso presso i Cardinali, i monsignori più autorevoli e presso la nobiltà romana79.

«Lasciata passare, con incredibile longanimità, la prima tempesta, Pellegrino Rossi indirizzò una memoria al cardinale Lambruschini, piena di politica sapienza, di dottrina, d’accorgimento e di franchezza, in cui espose a nudo le condizioni della Chiesa cattolica in Francia.

«Disse che i principii della filosofia erano per tal modo radicati nel popolo da non poterli più ormai sradicare, e il tentarlo, sarebbe opera, non che imprudente, fatale; imporre in Francia alcune idee uccise dalla scienza, o dal ridicolo, o dalla rivoluzione essere cosa impossibile; essere anzi il solo osarlo un attentato funesto alla tranquillità del paese e della società ormai sopra altre basi stabilita; parlare apertamente e lealmente, non per il bene del suo governo, ma bensì del cattolicismo, essendo egli buon cattolico; aver serbato la sua fede - checchè le bugiarde fazioni avessero vociferato - intatta a traverso le maggiori tentazioni in Svizzera, ove l’abiura avrebbegli forse aperta la via ai sommi onori: la costanza della sua fede essere testimonio solenne della sincerità del suo linguaggio»80. In conseguenza di quella memoria il Cardinale Lambruschini, che dei gesuiti non era tenero, come quegli che apparteneva, in origine, all’Ordine dei barnabiti e che, da altra parte, era uomo di ingegno, esperto delle cose di Francia, ove aveva qualche anno dimorato, comprese l’importanza delle idee esposte dal Rossi, la necessità di intendersi con questo e volle avere con lui un segreto abboccamento. L’incontro dei due eminenti personaggi avvenne, per l’intermezzo di monsignor Giraud, nel giardino della vigna Cecchini, presso il bastione di Santo Spirito, alle falde del Gianicolo81. I due si intesero; Pellegrino Rossi potè solennemente presentare l’11 aprile 1845, al Pontefice Gregorio XVI, le [p. 107 modifica]lettere che lo accreditavano ministro plenipotenziario presso la Santa Sede. Il Papa accolse assai benevolmente il Rossi e si intrattenne amabilmente e a lungo con lui, lieto e meravigliato di poter parlare in italiano col rappresentante della Francia82.

«Il fascino del suo ingegno, la forma insinuante delle maniere, la piacevolezza stessa del dire non tardarono a renderlo simpatico e gradito, quanto prima era stato inviso, per non dire spregiato. Le ripulse non lo spaventarono, le difficoltà non gli fecero inciampo, le polemiche non lo imbarazzarono: la superiorità del suo ingegno scioglieva ogni questione, l’affabilità dei modi vinceva ogni ritrosia»83. Perchè si verificava ciò che aveva detto del Rossi il Guizot84, inadatto e disdegnoso ad attirarsi la simpatia delle assemblee e delle moltitudini, egli possedeva tutte le arti per attrarre uno o più privati interlocutori: ed è luminosamente provato che quelle arti adoperò tutte, con tatto squisito, alla conquista dei monsignori e dei Cardinali di Roma e dello stesso vecchio Pontefice.

E qui comincia la rivelazione di ciò che sapesse fare Pellegrino Rossi come diplomatico, rivelazione contenuta nella sua corrispondenza col Guizot, della quale larga parte c’è stata conservata nelle Memorie dello stesso Guizot e nella Storia del D’Haussonville. Questa corrispondenza del Rossi è una ricca e continua manifestazione della grande finezza e sagacità dello spirito di lui, a cui nulla sfugge, che vede, che prevede, che spesso indovina. Da quella corrispondenza risulta l’antipatia e quasi lo sprezzo che in esso suscitava il governo dei preti, del quale rivelava, ad ogni nuova lettera, qualche magagna; risulta la poca stima che gli inspirava la società romana; ma risulta ancora un vivo ed assiduo desiderio del bene e il grande amore che egli nutriva per l’Italia, della quale invocava, nell’intimo dell’animo suo, la redenzione.

In quella corrispondenza è tracciato, con evidenza luminosa, l’abilissimo disegno del Rossi, mutatosi in Fabio Massimo Cunctator. Convinto che a Roma, a quei tempi, «le opinioni, le convinzioni, le determinazioni non discendono dall’alto al basso, [p. 108 modifica]ma salgono dal basso all’alto» — ed io riaffermerò qui che ciò era, a quei tempi, verissimo — convinto che «le influenze subalterne e potentissime erano, allora, di tre specie, clero, curia e uomini di affari, nei quali si comprendono gli uomini di finanza e certi contabili, razza particolare a Roma e che esercita tanto maggiore influenza quanto più essa sola conosce e fa gli affari di tutti; convinto che quando una verità giunge ad essere affermata nelle sacristie, negli studi legali e nelle computisterie, nulla e nessuno potranno resisterle»85, Pellegrino Rossi, si diè a tutt’uomo a rialzare il prestigio dell’ambasciata di Francia, per la malattia e per la conseguente inerzia del suo predecessore venuta in discredito, svegliò l’assonnato personale e ne eccitò lo zelo e ne diresse il lavoro ed egli stesso attivamente adoperandosi, da mane a sera, penetrando fra gli uomini più eminenti del clero e del foro ed anche in qualche computisteria, senza parlar mai direttamente ed officialmente della sua speciale missione contro i gesuiti, ma parlando, invece, della civiltà, della potenza della Francia, del suo ottimo governo, del suo ottimo Re, dell’amore onde essi erano animati verso la vera religione, del bene che essi le avevano fatto, di quello che le volevano e le potevano ancora fare, della necessità di non confondere il gesuitismo col cattolicismo e gli interessi di una Congregazione religiosa con quelli del Papato e della Santa Sede, ebbe, in quattro o cinque mesi, creato quella specie di opinione pubblica che, dalle sacristie, dagli studi forensi, dalle computisterie, saliva in alto, presso i prelati, presso i Cardinali, presso lo stesso Pontefice.

Il Re Luigi Filippo non disapprovava l’apparente inazione del suo rappresentante a Roma, ma «si stupiva e si inquietava un poco di quell’attitudine incerta del Rossi, quando tutti sapevano che egli era andato a Roma con una missione speciale e quale missione!86. Il Re avrebbe desiderato da parte del Rossi un po’ più di energia, tanto più in quanto il Governo [p. 109 modifica]francese era pressato dalla interpellanza che il deputato Thiers gli indirizzava il 2 maggio intorno ai gesuiti. Per il che il Re aveva rivolto al nunzio pontificio monsignor Pomari — il quale era andato a Neuilly a querelarsi con Luigi Filippo dell’attitudine e degli impegni presi dal ministero alla Camera dei deputati rapporto alla Compagnia di Gesù — parole risolute e quasi minacciose, dicendo, che se il Papa non si risolveva a far uscire i gesuiti di Francia, valendosi della sua suprema autorità ecclesiastica, «egli non rischierebbe la sua corona pei gesuiti»87.

E, contemporaneamente, Pellegrino Rossi, dopo avere abilmente preparato l’ambiente, era venuto, a Roma, ai ferri corti e aveva, dopo un colloquio di due ore col Cardinale Lambruschini, preparato un memorandum da presentare officialmente al governo pontificio sull’ardente questione, allo scioglimento della quale, secondo i desiderii del governo francese, giovava, ora, mirabilmente, il colloquio avuto dal Re Luigi Filippo col nunzio monsignor Pomari88.

Il memorandum di Pellegrino Rossi, conciso, limpido, energico, costituisce un nuovo e splendido documento della vigoria meravigliosa di quel suo felicissimo ingegno. Quel documento, «le cui dichiarazioni erano così positive, le conclusioni così precise, gettò e mantenne per tre settimane la Corte di Roma nella più viva perplessità. Ugualmente turbati il Papa e il Cardinale Lambruschini respingevano, come un amaro calice, Tuno la responsabilità della decisione che doveva prendere, l’altro quella del consiglio che doveva dare»89.

Si radunarono congregazioni di Cardinali, lunghi colloqui si tenevano fra il Papa e il suo segretario di stato per gli affari esteri ed interni, e tutti esitavano, si contorcevano, nicchiavano, ma Pellegrino Rossi continuava a incalzare coloro, con grandissima arte ed abilità.

«Ho riveduto questa mattina» — scriveva egli il 21 giugno — [p. 110 modifica]«il Cardinale Lambruschini in occasione della sua festa90 e egli stesso ha voluto entrare in argomento. La conversazione è stata più che mai amichevole, intima, confidenziale: io sono ora sicuro che egli comprende le necessità della nostra situazione politica, le imprudenze dei gesuiti, del clero e dei loro amici e che egli si adopra sinceramente a conciliare l’adempimento dei nostri desiderii con gli espedienti che richiedono le ripugnanze del Santo Padre per tutto ciò che colpisca, con clamore, una Congregazione religiosa. Siccome però è al fatto che noi teniamo e non al clamore, così ho lasciato intravedere al Cardinale, per spingere alla riuscita il negozio, che, purché il fatto si compia, io non solleverò cavilli sulla scelta dei mezzi91. E proprio in un colloquio, di poco anteriore a quello del 21 giugno, a cui qui allude il Rossi nella sua lettera al Guizot, deve essere avvenuto il fatto narrato dal Rossi al Minghetti e da questo conservatoci nei suoi Ricordi. Il Minghetti, dopo aver affermate vere tutte le cose fin qui narrate, aggiunge: «Ma non è vero che il Larabruschini fosse, per dir cosi, colpito dalla saviezza di quegli ammonimenti, e che, aperte le trattative, fin dal primo abboccamento tutto fosse concluso. Anzi le cose procedevano così lentamente e così svogliatamente che il Rossi disperava di condurre a termine il negozio. Come poterono esse ravviarsi? Il Rossi narrava il fatto cosi: “Una sera, dopo lunga conversazione col Cardinale Lambruschini, nella quale non s’era fatto un passo verso un accomodamento, io pronunciai, balbettando, qualche parola che esprimeva la mia mala contentezza. Il Cardinale ne intese parte e parte ne fraintese e, con piglio crucciato e preso da turbamento, mi disse: Comment donc, monsieur l’ambassadeur, vous voudriez prendre vos passe-ports? Quell’atto subitaneo, la voce alterata mi dimostravano — aggiungeva il Rossi — che il solo mezzo di conseguire l’intento era di avvalorare quel dubbio. Il porporato adunque avea paura di un dissenso manifesto con la Francia e, peggio ancora, di uno [p. 111 modifica]scandalo? Allora, lentamente alzandomi dalla sedia, e preso il cappello che avevo posato in terra, con una riverenza profondissima e con una voce tranquilla ma sicura, risposi: Éminence, ce ne sera pas ma faute.”

«E veramente da quel giorno le cose mutarono interamente, i negoziati corsero rapidi e la Corte di Roma operò di guisa che il Generale stesso dei gesuiti sciogliesse la sua milizia in Francia e ne acquetasse i discordanti clamori»92.

Il 23 giugno il Rossi partecipava ufficialmente al Guizot, per mezzo del signor De la Rosière, primo segretario dell’ambasciata di Roma, appositamente inviato a Parigi, che il Cardinale Lambruschini gli aveva fatto noto come la questione fosse stata risoluta nel modo desiderato dal governo francese: «la Congregazione dei gesuiti si disperderà da se stessa. I suoi noviziati saranno sciolti e non resteranno nelle loro case che gli ecclesiastici necessari a custodirle e che vivranno, per altro, come preti ordinari»93.

Il Moniteur del 6 luglio 1845 conteneva questo annunzio ufficiale, che produceva un grande effetto sul pubblico, tanto più grande quanto meno il successo era aspettato. L’indomani 7 luglio il signor De la Rosière ripartiva per Roma, latore di un dispaccio ufficiale che il Rossi doveva comunicare al Cardinale Lambruschini, esprimente la soddisfazione e i ringraziamenti del governo francese a quello pontificio e di una lettera particolare del Guizot al Rossi nella quale il ministro degli esteri di Francia eccitava il suo rappresentante a farsi rilasciare un documento scritto dal Cardinale Lambruschini, intorno all’avvenuto accomodamento; ciò che il Rossi abilmente ottenne.

Ma i gesuiti son sempre gesuiti: quindi, nell’eseguire gli ordini ricevuti dal loro Generale da Roma, frammettevano «denegazioni equivoche, procrasticazioni indefinite, sottili sotterfugi» per sottrarsi all’adempimento dei doveri che il loro capo si era imposto, in loro nome, al cospetto del Papa e di fronte al governo francese94.

[p. 112 modifica]E, dalla successiva corrispondenza fra il ministro e il plenipotenziario, risulta, difatti, che il Papa e il Cardinale Lambruschini, «per quella invincibile timidità di cui avete già avuto tante prove, non hanno fatto conoscere qui al Generale dei gesuiti il testo della convenzione conclusa fra il Cardinale Lambruschini e me: si sono contentati di un presso a poco, di termini un po’ vaghi: era una bibita amara che non si è osato di fargli ingoiare tutto ad un tratto. Come era naturale, il Generale se ne è tenuto al minimum»95. Ma il Guizot tenne fermo a Parigi, il Rossi, con abilità e con energia, tenne fermo a Roma e così si ottenne che, in parte almeno, ciò che era stato promesso fosse mantenuto96.

Ma qualunque fosse l’esito effettivo e reale della missione di Pellegrino Rossi a Roma, il risultato politico di essa, per ciò che riguardava l’agitazione degli spiriti in Francia, era stato grande e benefico, e quello morale ottenuto più importante e benefico ancora. Di che tutti, allora e poi, statisti,’uomini politici, critici e storici, tributarono concordi vivissime lodi a Pellegrino Rossi.

Di tutti gli scrittori che io ho potuto consultare, i quali abbiano o diffusamente, o sommariamente, o direttamente, o indirettamente trattato di Pellegrino Rossi — e di molti ho già recato i giudizi e di molti altri li indicherò in seguito e oltrepassano, insieme, i centoventi — non uno ne ho rinvenuto il quale della sua ambasceria a Roma e del suo squisito tatto diplomatico non gli dia grandissima lode. Fin anche l’illustre De la Forge, il quale è verso il Rossi, non solo severissimo, ma ostile talvolta, addirittura, a proposito di lui, ambasciatore, scriveva: € La sua condotta a Roma, in qualità di ambasciatore di Francia, è un perfetto modello di scienza, di circospezione e di liberalismo. Si leggano i suoi dispacci al signor Guizot, le sue note al Cardinale segretario di stato, incaricato degli affari esteri, il riassunto dei suoi [p. 113 modifica]colloqui e si avrà la misura e l’estensione di questo spirito organizzatore. Sopratutto nelle lunghe discussioni scritte ed orali, sollevatesi per le lotte del clero e dell’Università di Francia e per i dibattiti relativi alla soppressione dell’Ordine dei gesuiti, splendono le qualità del signor Rossi: là bisogna cercare Tuomo profondamente istruito, là lo scrittore sperimentato, là il generoso politico. Fa piacere vedere come il diplomatico, schermendosi delle difficoltà che lo accerchiavano, se ne libera e giunge, con la seduzione della sua logica, a distruggere le finezze e gli argomenti dei suoi abili avversari. Tutto ciò che l’arte di scrivere può produrre di più delicato, tutta l’esperienza che può derivare dalla pratica degli affari, il signor Rossi l’impiega al trionfo della sua missione. Il successo doveva coronare tanti sforzi»97.

Ma il tentativo di rivolgimento politico avvenuto a Rimini nel settembre del 1845 e il manifesto — scritto dal dottor Carlo Luigi Farini — che i ribelli avevano lanciato all’Europa, il malcontento generale e profondo che serpeggiava, in modo manifesto, in quasi tutto lo stato pontificio, un certo risveglio delle speranze italiane, che si rivelava a molti segni in varie parti della penisola, specialmente in Toscana, in Liguria, in Piemonte, le affermazioni abbastanza audaci che avvenivano alle annuali riunioni dei Congressi scientifici italiani, la grave età del papa Gregorio XVI, che aveva oltrepassato gli ottant’anni ed era assai malfermo in salute, tutte queste considerazioni facevano comprendere al Re Luigi Filippo e al suo governo come fosse necessario, per gli interessi politici della Francia, che essa avesse a Roma in stabile posizione un autorevole ambasciatore.

Perciò il Guizot si persuase e persuase il Re Luigi Filippo a nominare a quell’alto e delicato ufficio Pellegrino Rossi, il quale, in occasione della rivolta riminese, si era recato a visitare il Cardinale Lambruschini «a esprimergli il vivo e sincero interesse che il governo del Re nutre per tutto ciò che riguarda la sicurezza della Santa Sede e il governo pontificio».

E a questo proposito l’operoso e intelligentissimo uomo scriveva al Guizot una lettera importantissima, piena delle più [p. 114 modifica]gaci considerazioni sulla condizione politica degli stati del Papa, sui bisogni delle popolazioni, sui rimedi che vi si potrebbero apportare «senza nulla rovesciare, senza nulla snaturare, senza nulla introdurre di incompatibile con ciò che è indispensabile mantenere. Ma» - egli soggiungeva - «ciò che sarebbe facile in sè è quasi impossibile con gli uomini e con le cose di qui. Il momento dei consigli verrà: esso non è ancora giunto. Non bisogna offrirli: bisogna che ce li domandino. Frattanto applichiamoci a fare intendere loro che essi non hanno amico più sicuro e più disinteressato della Francia, e che noi non permetteremo mai che il Papa divenga un patriarca austriaco, che noi comprendiamo la necessità del Pontificato, ecc., ecc. lo ho sempre lavorato e lavoro in questo senso e su questo punto le mie parole hanno forse più valore che quelle di chiunque altro. Essi sono convinti, e non s’ingannano, che io non amerei vedere l’Italia perdere la sola grande cosa che le resti, il Papato»98.

Le quali parole ho voluto qui riferire perchè i lettori veggano bene quando ed a quale proposito Pellegrino Rossi le scrisse; il che è necessario tanto più, quanto più numerosi sono gli scrittori stranieri e, disgraziatamente, anche nostrani che, quelle parole spostando dal momento e dal luogo in cui egli le pensò e le scrisse, gliele attribuiscono e gliele mettono sulle labbra in altro momento in cui, forse, egli non ricordava neppure nè di averle pensate, nè di averle scritte.

Intanto che il ministro Guizot si adoperava ad ottenere l’adesione del governo pontificio per effettuare il suo disegno, intanto che qualche cosa di quel divisamento del governo francese trapelava nel pubblico e qualche cosa ne andava attorno, il Rossi scriveva al Guizot da Roma che la sua situazione provvisoria presso il governo pontificio era falsa e che ne venivano menomati la sua autorità e il suo prestigio e, per conseguenza, il valore della sua azione in servizio della Francia, tanto più che «Cardinali, prelati, nobiltà tutti lo opprimevano di congratulazioni e di complimenti che egli non poteva accettare. L’uomo del Papa» - il Rossi alludeva al cav. Gaetano Moroni, più noto [p. 115 modifica]sotto il nome di Gaetanino, aiutante di camera del Papa, influentissimo, onnipotente sull’animo di Gregorio XVI — «è venuto quattro volte a domandarmi se avevo ricevute le nuove lettere che mi presentino come ambasciatore. Ora tutti si meravigliano, e ciascuno vuol spiegare il fatto a suo modo. Ma, mentre gli amici sono imbarazzati, i malevoli hanno buon giuoco. Si va fino a supporre l’intenzione di rifiutarmi qualunque visibile testimonianza di approvazione per ciò che ho fatto. Tutto ciò è assurdo, ma non per questo è meno ripetuto e messo in giro. Donde viene la mia forza? Dalla benevolenza del Re e dalla vostra amicizia. Quando queste due cose siano messe in dubbio, io divengo impotente.

«Il Papa ha detto altamente più d’una volta che sarebbe contento di vedermi qui ambasciatore99. I Cardinali i più intimi sono stati i primi a felicitarsi con me di questa falsa notizia. Il Cardinale Franzoni, l’amico intimo di Lambruschini, dice a chi vuole udirlo che essi non potrebbero desiderare di meglio. In fine, se io sono bene informato, sarà facile a voi stesso di assicurarvi a Parigi dei loro sentimenti a mio riguardo, se però monsignor Pomari ha il coraggio di adempiere il suo mandato e di rispondere.

«Voi l’avete detto, mio caro amico, se io debbo restare a Roma, ho bisogno di esservi abbarbicato e ingrandito. Che avverrebbe se il Papa ci fosse prossimamente rapito, senza che noi avessimo consolidata ed estesa la nostra posizione? Noi possiamo conquistarla, ma occorre, per ciò, poter parlare, manifestarsi, goder fiducia: tutte cose impossibili con un uomo che è un uccello sulla frasca e in una posizione secondaria»100.

Pellegrino Rossi aveva ragione, anche obiettivamente considerando le cose, ma non v’ha dubbio - e risulta da tutta la corrispondenza sua di quei giorni col Guizot - che egli traeva [p. 116 modifica]profitto, pensando a se stesso, di quella situazione per ottenere la nomina di ambasciatore che egli ambiva ardentemente e - mi piace aggiungere per imparzialità di narratore veridico - che egli aveva tutte le ragioni di ambire e nell’interesse stesso della nazione che rappresentava.

Tutto ciò che scriveva il Rossi sull’aggradimento del Papa, del Lambruschini e della maggioranza dei porporati romani circa la nomina di lui ad ambasciatore era vero; ma c’era una difficoltà: la moglie di Pellegrino Rossi, la signora Carolina Melly, era rimasta protestante: impossibile quindi - così scriveva il Guizot al Rossi - che la Francia, la prima potenza cattolica, abbia a Roma un’ambasciatrice protestante: ciò aveva impedito, altra volta, la nomina di altri ambasciatori. Come dunque eliminare tale inconveniente, che per la Corte di Roma era gravissimo?

Il Re, il Guizot, il duca De Broglie consigliarono Pellegrino Rossi a restare a Roma solo, senza farvi venire sua moglie e, con questo espediente, il governo francese sperava di avere l’ufficiale consentimento del Papa alla nomina del Rossi ad ambasciatore di Francia a Roma.

E, poiché da molti scrittori è stata rimproverata al Rossi la sua ambizione e come una delle prove di questa ambizione si è addotta la sua nomina a Conte, così credo, più che opportuno, necessario il far rilevare ai lettori qui che la prima idea di conferire al Rossi il titolo di Conte venne al Re Luigi Filippo e proprio in questo momento in cui si dibatteva con la Corte di Roma la questione della nomina di lui ad ambasciatore. Ciò risulta evidente da una lettera che il Guizot scriveva al Rossi in cui era detto: «Il Re pensa, inoltre, che dovrebbe darvi il titolo di Conte, che tale titolo vi sarebbe utile a Roma e che è meglio esser chiamato signor Conte che signor Commendatore. Io, quanto a me, non ho su ciò nessuna opinione. Ditemi la vostra. Io parlerò nel senso che voi mi indicherete»101.

Non risulta dalla corrispondenza fra il Guizot e il Rossi che cosa questi rispondesse, ma è facile arguire dai fatti successivi che egli accettasse con piacere l’offerta del Re, e all’aver [p. 117 modifica]ceduto a questo, che poteva essere, e poteva anche non essere, un sentimento di vanità, si ridurrebbe tutta la colpa di Pellegrino Rossi: lieve colpa in verità! 102

Ma, per tornare alle opposizioni che si facevano a Roma contro la nomina del Rossi ad ambasciatore, dirò che i gesuiti ed i reazionari non’ si davano per vinti e, mentre esageravano davanti al Papa e al Cardinale Lambruschini questa difficoltà della moglie protestante, non mancavano di tornare contro il Rossi sulle vecchie accuse: egli rifugiato politico, legislatore repubblicano in Isvizzera, filosofo dottrinario, sempre macchiato della lue liberale e via di seguito. Cosi che il 7 aprile del 1816 il Nunzio monsignor Pomari voleva mostrare al Re Luigi Filippo un dispaccio del Cardinale Lambruschini in cui si sollevavano ancora una volta contro la nomina del Rossi tutte quelle obiezioni. Il Re, che era accortissimo politico, capì subito dove il Nunzio voleva giungere e rifiutò di leggere il dispaccio dal Cardinale Lambruschini inviato a monsignor Pomari e, lodando altamente il Rossi e insistendo sul suo desiderio di nominarlo ambasciatore, rinviò il Nunzio al ministro Guizot, il quale, convinto che «quello era un intrigo politico e gesuitico che bisognava sventare», ribattè ad una ad una tutte le obiezioni contenute nel dispaccio del Cardinale Lambruschini, insistè sulla decisa volontà del Re di nominare il Rossi ambasciatore, mostrò tutta la utilità che da quella nomina deriverebbe allo stesso governo pontificio, fece balenare agli occhi del Nunzio i guai che scaturirebbero dall’ostinato rifiuto e concluse che la sola obiezione seria era il protestantismo della signora Rossi, obiezione che cadeva quando restava convenuto che a Roma ci sarebbe soltanto l’ambasciatore di Francia e non ci sarebbe stata ambasciatrice 103.

[p. 118 modifica]Nel render conto di tutti questi fatti al Rossi il Guizot gli scriveva queste parole che credo importantissime e meritevoli di speciale rilievo: «Io ho ripreso la conversazione col Re. Io ho discusso a lungo col duca De Broglie: siamo tutti della stessa opinione. Bisogna prender tempo per sventare l’intrigo e vincere la nostra battaglia. Vivete tranquillo sul resultato definitivo; 0 vol.resterete a Roma come vi conviene di restarvi, o ritornerete qui con splendore per prender posto nel gabinetto. Il Re è disposto che meglio non potrebbe essere in vostro favore; persuaso di aver bisogno di voi è deciso a sostenervi nel suo interesse. Ma come - dice egli - trattare il Papa peggio delle altre Corti a cui non si impone punto un ambasciatore? Aiutatemi dunque voi mio caro amico, come io vi aiuterò: fate comprendere a Roma che voi siete, per loro, l’ambasciaiore più desiderabile, il più utile, il più efficace, e che se essi avessero spirito, essi vi dovrebbero chiedere. Io vi ripeto che noi giungeremo, per voi o all’uno o all’altro dei resultati che sono degni di voi, cioè o ambasciatore a Roma o ministro a Parigi»104.

Pellegrino Rossi si aiutò a Roma con grande destrezza, e, col mezzo del padre Isoard, il quale parlò di nuovo col Cardinale Lambruschini e col Papa, ottenne che fosse accettata la composizione proposta: la Francia avrebbe a Roma un ambasciatore e non una ambasciatrice.

Il 5 maggio 1846 il Rossi scrisse una lunga lettera al ministro Guizot in cui gli raccontava tutte le industrie e le astuzie adoperate per riuscire a tale risultato e lo avvisava che la lettera di adesione era stata firmata dal Cardinale Lambruschini il giorno innanzi e che partiva con quello stesso corriere per la Francia.

Il 17 dello stesso mese Pellegrino Rossi era avvertito dal Guizot che la sua nomina ad ambasciatore era firmata e che avrebbe ricevuta la lettera che Io introduceva in tale ufficio al Pontefice col successivo corriere. Il 27 maggio, di fatti, la lettera officiale partiva da Parigi, ma quando essa giungeva a Roma, il Papa Gregorio XVI era morto.

[p. 119 modifica]Il nuovo ambasciatore ne dava la notizia al ministro con una lettera in data giugno in cui scriveva: «La Santa Sede è vacante. Roma è immersa nello stupore: non si era preparati ad una fine così sollecita. Ogni congettura sul conclave sarebbe ora prematura. Non si presenta alcun candidato efficacemente indicato; nessuno di quei nomi che tutti hanno sulle labbra. Se voi domandate quali saranno i Cardinali papeggianti, ciascuno ve ne nominerà sette o otto, per la maggior parte poco conosciuti e assenti da Roma. Ciascuno sa quello che egli non vuole, non quello che vuole»105.

Cosi, con finissimo sintetico giudizio, l’insigne uomo riassumeva sapientemente la vera condizione degli animi e delle cose.

«Non si trattava più di gesuiti, nè di libertà d’insegnamento» esclama a questo punto il Guizot - «noi eravamo alla vigilia di problemi e di perigli assai più gravi. Era tutto il mondo cattolico, stato e Chiesa, che entravano in discussione ed in fermento. Io presentiva l’immensità e le tenebre di questo avvenire. Ma quali potessero essere gli avvenimenti noi eravamo ben risoluti a condurci secondo la politica liberale e antirivoluzionaria di cui avevamo fatto dovunque il nostro vessillo e io mi felicitavo di avere fissato a Roma un ambasciatore capace di sostenerla abilmente e degnamente. Ero lontano dal prevedere quale sorte e quale gloria ivi lo attendessero»106.

Un mondo crollava colla morte di Gregorio XVI e uno nuovo stava per uscire dal caos con la elezione di Pio IX. Prima di entrare nell’esame della parte che Pellegrino Rossi ebbe nei vertiginosi, convulsionari, meravigliosi avvenimenti di quel triennio 1846-1849 - nel quale triennio si racchiude quasi più denso contenuto di storia che non se ne accolga nel trentacinquennio precedente - io debbo soffermarmi un istante e pregare il lettore a soffermarsi meco a considerare, nel complesso dei suoi risultati, l’opera di Pellegrino Rossi nel tredicennio che va dal 1833 al 1840. Entrato, non ignoto, è vero, e protetto, è vero, ma da uomini poco benevisi e quasi impopolari, entrato quasi come un avventuriero, eccitatore di diffidenze e di sospetti in [p. 120 modifica]Francia, accolto malamente da molti e considerato quasi come un usurpatore, egli aveva finito, adoperando tutte le tante e rare doti onde gli era stata larga natura e che egli aveva sviluppate meravigliosamente con lo studio e con l’arte, per mettere il governo costituzionale di Luigi Filippo nell’alternativa di nominarlo o ambasciatore a Roma, o ministro di stato.

Ora si è tentati, anzi si è forzati a domandarsi, a questo punto, quali dunque e quanti erano i fascini dell’ingegno, della dottrina, dello spirito, della parola accumulati in quella strana, poderosa, alta personalità, e quanto irresistibili quei fascini se quell’uomo era potuto riuscire a vincere le gelosie e le invidie dei colleghi di cattedra, a sopraffare lo chauvinisme geloso ed esclusivo dei Francesi, a conquistare da per tutto, al Collegio di Francia, alla Scuola di diritto, all’Accademia, nel Consiglio del contenzioso, al ministero degli esteri, nel Consiglio reale della istruzione pubblica, alla Camera alta, nella stampa periodica un posto eminente, se era riuscito ad imporsi, contro tanti ostacoli, a traverso tante difficoltà, se era riuscito ad attrarre a sè e quasi a dominare il Re dei Francesi e i suoi ministri, se, di fronte alle prevenzioni le più ostili per lui, era riuscito a rendersi benevoli il Papa, i Cardinali e la parte migliore della Roma pontificia?...






Note

  1. Vedi, fra i documenti, in fine di questo volume, i documenti n. I e II.
  2. Carlo Lozzi, articolo citato.
  3. Vedi, fra i documenti, quello segnato col n. III. Questi documenti debbo alla cortesia del chiaro Dott. Cav. Raffaele Belluzzi carissimo amico mio e fratello d’armi nel 1859 e camerata nel Collegio militare di Modena, il quale è preposto al Museo Civico bolognese e alla Sala del Risorgimento italiano. Il Dottor Belluzzi, che ha ingegno e cultura pari al forte sentimento patriottico, mi scriveva che questa copia di memoriale forse era di carattere del Rossi stesso.
  4. Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps, Paris, Michel Lévy, 1867, tomo II, Pièces historiques, II.
  5. Questa lettera fu riprodotta dal De Mazade, dal Pierantoni e dal Bertolini.
  6. P. Rossi, Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie, Paris, Guillaumin, 1857 tomo II, pag. 238.
  7. L’articolo del Rossi fu pubblicato nel 1833, all’indomani delle rivoluzioni del 1831 e 1832 e mentre gli Austriaci occupavano le Romagne e i Francesi Ancona.
  8. Quest’articolo fu riprodotto da C. Bon-Compagni in nota al suo discorso per l'Inaugurazione del monumento eretto a Pellegrino Rossi nell’Università di Bologna, Torino, Stamperia Reale, 1802. Ne ragionarono, riportandone frammenti, il Pierantoni e il Bertolini, loc. cit.
  9. Gustave De Puynode, il quale, nell’articolo citato nel Journal des Économistes del 1867, scrive che «per molti anni il Rossi scrisse la cronaca politica che chiudeva le dispense della Revue des Deux Mondes, e nella quale lo spirito, la disinvoltura, il sapere e la profondità rivelavano a quelli, che non sapevano che essa era l’opera del Rossi, uno dei primi pubblicisti dei nostri tempi». Cfr. con Edmondo Renaudin nel cit. artic. nel Journal des Économistes e A. Karr, Les Guepes, 1er serie, Paris, C. Levy, 1878.
  10. P. Rossi nella Chronique della Revue des Deux Mondes fascicolo del 31 ottobre 1842.
  11. P. Rossi, Cours de droit constitutionnel, Paris, librairie de Guillaumin et Cie, 1866, tome Ier, sixième leçon, pag. 88.
  12. H. Baudrillart, art. cit.
  13. J. Garnier, art. cit. Cfr. con Mignet e con Cherbuliez nel primo e nel secondo dei citati articoli.
  14. H. Baudrillart, art. cit.
  15. L’illustra economista Wolowschy, direttore della Revue de législation et de giurisprudence, nel tomo XVI di detta Rivista del semestre luglio-dicembre 1842, pubblicando un articolo di Joseph de Croze sul Corso di economia politica di P. Rossi, lo faceva precedere da una breve sua nota da cui è tolto il giudizio su riferito. Della stessa opinione del Wolowschy sono il De Broglie, lo Cherbuliez e il Baudrillart.
  16. II consigliere al Parlamento di Rouen, Boisguillebert, pubblicò nel 1697 un libro intitolato: Le détail de la France, la cause de la diminution de ses biens et de la facilité da remède, en fournissant en un mois fout l’argent dont le Roi a besoin et enrichissant tout le monde. Il titolo del libro era pomposo e barocco, lo stile ne era disadorno, ma il contenuto, pieno di spaventosi fatti statistici e di formidabile argomentazione, era proprio quello di un vero libro scientifico.
       Il maresciallo Vauban, nel suo volume intitolato Projet d’une dîme royale, frutto di quarantanni di studi e di osservazioni, ricco esso pure di cifre e di ragioni ed anche di eloquenza, veniva nel 1707 quasi alle medesime conclusioni e proposte del Boisguillebert. Questi due primi, e i successivi scritti dell’uno e dell’altro, furono ripubblicati da E. Daire, Économistes et financiers da siecle xviii, Paris, 1801.
  17. L’illustre Gerolamo Boccardo nota che l’Ortes e il Ricci avevano, in embrione, accennate alcune delle quistioni, risolte poi scientificamente dal Malthus, come i precoci e spensierati matrimonii, la beneficenza legale, la tassa dei poveri, fomiti d’ozio e di pauperismo. G. Boccardo nel citato Dizionario di economia politica e del commercio, Prefazione, pag. xvi.
  18. Pellegrino Rossi, Cours d’économie politique, 4eme edition, Paris, librairie de Guillaumiin et Cie 1865, tome Iere, deuxième leçon, pag. 28.
  19. L. Reybaud, art cit. In questo giudizio, dal più al meno, concordano pure H. Baudrillart, A. De Ruoglie e G. De Puynode negli articoli citati.
  20. A. E. Cherbuliez nell’articolo citato della Bibliotheque Universelle del 1840.
  21. J. De Croze, in suo articolo sul Cours d’èconomie poiitique de P. Rossi, nella Revue de legislation et jurisprudence, serie X, tomo VI, luglio-dicembre 1842. Cfr. con L. Reybaud, A. E. Chehbuliez, G. De Puynode, A. Pierantoni, articoli citati.
  22. Alph. Courtois, art. cit. nel Journal des Èconomistes del 1887.
  23. F. Chassériau nel Moniteur Universel del 9 novembre 1843 e del 12 febbraio 1844; A. De Broglie, art cit. nelle Revue dt’ s Deux Movdes del 1849.
  24. Questa mancanza di originalità è concordemente ed espressamente constatata dallo Cherbuliez, dal Mignet, dal Courtois, dal Garnier, dal Ferrara; implicitamente l’impronta della originalità gli è negata anche dal De Croze, dal Baudrillart, dal De Broglie, dal De Mazade e dal Say (Nouvau Dictionnaire politique, sous la direction de Léox Say et de Joseph Chailley, Paris, Guillaumin et Cie, 1892, pag-. 775). Negli Annali universali di statistica, compilati da Giuseppe Sacchi, nei volumi degli anni 1855 e 1856 havvi un lungo scritto anonimo, intitolato: «Della produzione, nuovi frammenti di un trattato inedito di economia sociale», in cui si fa spesso onorata menzione del Rossi come economista.
  25. A. E. Cherbuliez, art. cit. della Bibliothèque Universelle et Revue suisse, tomo XXX., anno 1867.
  26. I. Garnier, art. cit. nel Journal des Economistes.
  27. Louis Reybaud, art. cit.
  28. Gustave De Puynode, art cit.
  29. H. Baudrillart, art. cit. La stessa critica di sottigliezza su questo punto aveva già mossa al Rossi il Reybaud, nell’art. cit.
  30. H. Baudrillart, art. cit. A questo punto della teoria dell’aumento della popolazione di Roberto Malthus, il Reybaud, che pur mostra nell’articolo sul Rossi, da me più volte citato, una vera competenza nelle cose economiche, va su tutte le furie contro la dottrina del grande inglese, dottrina che egli crede sia, sotto l’apparenza delle cifre spaventose, niente altro che un romanzo». E imprende a ribattere, con ragioni veramente fiacche e speciose, la dimostrazione del Malthus, che l’Evenett aveva, almeno, precedentemente, cercato di combattere con contro-dimostrazioni statistiche. Ma che direbbe il Reybaud, al giorno d’oggi, in cui i fatti hanno non soltanto dimostrata, ma oltrepassata la verità della dottrina malthusiana? Pellegrino Rossi cercava di attenuare tutte le possibili conseguenze di quella dottrina, procurando di indebolire alcuni dei dati e delle previsioni su cui essa si fondava, ma ne riconosceva tutta la serietà, la gravità e l’importanza. Anche il Garnier e il De Puynode trovano bellissima l’Introduzione del Rossi al Saggio del Malthus.
  31. L. Reybaud, art. cit.
  32. H. Baudrillart, art. cit. «La macchina a vapore», esclama Pellegrino Rossi, «non è destinata che a produrre: essa non è che un mezzo: se la sua azione paga il carbone che essa consuma, le spese che essa esige, si fa agire: diversamente si spezza. Ma l’uomo è fine a se stesso, esso non è uno strumento, esso non produce per produrre. Il mondo, grazie a Dio, non è un mulino a trebbiare in cui una potenza sovrumana abbia chiuso l’uomo, perchè non sia esclusivamente che uno strumento». P. Rossi, Cours d’économie politique citato, tomo II, leçon 8a, pag. 175.
  33. L. Reybaud, art. cit.
  34. J. De Croze, art. cit.
  35. Curiosissima questa idea del condottiero applicata al Rossi non solo dal Say, ma anche dal De La Forge e dal Mazade. Il primo nel volume Des vicissitudes, etc. più volte citato - avversissimo al Rossi come egli è, perchè lo disistima - scriveva: «Egli trattava la diplomazia come i condottieri facevano la guerra, cangiando, come essi, di padrone così soventi come la fortuna cambiava di favorito: specie di bravi politici come ve ne abbisogna talvolta, ma dai quali è duopo guardarsi». Il secondo, nell’articolo della Revue des Deux Mondes pure citato più volte, in principio scriveva: «.... Pellegrino Rossi.... il più francese degl’italiani e il più italiano dei Francesi, curioso tipo di bandito superiore ......». Le quali frasi che si offrivano, forse, spontanee al pensiero di quegli scrittori come viva rappresentazione della vita randagia dell’illustre profugo, possono essere dallo storico imparziale accettate, quando ad esse non si annetta un significato malevolo, come pare ve lo annetta il De La Forge.
  36. Léon Say, Nouveau Dictionnaire, già citato, loco citato
  37. F. Guizot, Mémoires, ecc., tomo III, pag. 122 e seg.
  38. A. E. Cherbuliez, nell’articolo della Bibliothèque Universelle, del febbraio 1849. Severissimo ed esagerato giudizio; poichè appar chiaro che, anche ammettendo il cieco chauvinisme e la blague oltracotante della grande maggioranza dei Francesi, non si poteva e non si doveva dimenticare l’efficace concorso che la Francia ha apportato nella storia della civiltà umana dal Montagne e dal Rabelais al secolo di Luigi XIV, e dal Rousseau e dagli Enciclopedisti alla proclamazione dei diritti dell’uomo e alla promulgazione del Codice Napoleone.
  39. L. Reybaud, art. cit.
  40. Colmet-Daage, art. cit.; Fr. Guizot, Mémoires, ecc, loc. cit.
  41. Colmet-Daage - testimone oculare - loc. cit.; A. E. Cherbuliez, F. Mignet, C. De Mazade, F. Guizot, I. Garnier, G. De Puynode, A. Courtois, luoghi indicati.
  42. L’illustre A. De La Forge, esasperando le tinte nella narrazione di questi fatti, come esagera quasi sempre nelle pagine che consacra al Rossi, nel citato suo libro Des vicissitudes politiques, ecc., scrive che «il Collegio di Francia gli apre le sue porte, la Scuola di diritto vuol chiudergli le sue; la gioventù, che ama poco gli spiriti mutevoli, specialmente quando essa sa che ciò è a spese della coscienza, ricusa le lezioni del profugo straniero. La forza armata interviene, il sangue cola ed è dall’alto di una cattedra circondata di agenti di polizia e di soldati, che il nuovo professore incomincia le sue lezioni». Dove, a parte l’esagerazione del sangue che cola, è ingiusta l’accusa di mutabilità data a Pellegrino Rossi; ingiusta perché, a quel tempo, egli in nulla aveva cambiato, restando moderato, costituzionale, dottrinario quale si era palesato fin lì a Bologna e a Ginevra; più ingiusta, in quel momento, da parte dei tumultuanti che ne turbavano, a priori, l’insegnamento, prima ancora che egli avesse proferito una frase e manifestato una sola idea.
  43. Pellegrino Rossi vinse così completamente le ostilità dei cinque suoi colleghi che, come narra il Colmet-Daage, nel luglio del 1842, esso faceva colazione, durante gli esami, in casa del professore Bugnet, colazione che consisteva in due uova e in una tazza di cioccolatte. Colmet-Daage, art cit.
  44. F. Mignet, disc. cit.
  45. Comet-Daage, nel citato articolo M. Rossi à l’École de droit.
  46. Pellegrino Rossi, Cours d’économie, ecc, tomo II, leçon 15e, pag. 361.
  47. Pellegrino Rossi, Cours d’économie ecc., tomo I, leçon 19e, pag. 367.
  48. Pellegrino Rossi, Cours de droit constitutionnel, Paris, Guillaumin, 1866, leçon 27e, pag. 17.
  49. H. Baudrillart, art. cit.
  50. C. Bon-Compagni, Introduction au Cours de droit constitutionnel par P. Rossi, Paris, librairie de Guillaumin et Cie 1866, tome 1er, pag. xliii e xliv. Il quale discorso del Bon-Compagni, sia detto con la reverenza dovuta all’illustre uomo, mi è parso diffuso in troppe digressioni e generalità e poco concreto per ciò che riguardava il libro del Rossi e del quale, mi sembra, si doveva trattare.
  51. A. Pierantoni, elogio cit.
  52. A. E. Cherbuliez, nell’articolo più volte citato della Bibiothéque Universelle et Revue Suisse, tomo XXX del 1867, pag. 173 e 174.
  53. «... insegnare altamente i principii della libertà legale e del diritto costituzionale che sono la base delle nostre istituzioni... Quanto al suo obietto e alla sua forma — dell’insegnamento — esse sono determinate dal titolo medesimo: è l’esposizione della carta e delle garanzie individuali come delle istituzioni politiche che essa consacra» . Così la Relazione Guizot, pubblicata da esso medesimo, nelle Pièces historiques annesse alle Mémoires. ecc., vol. III, Pièces hist., VI, pag. 379 e 380.
  54. A. Pierantoni, disc. cit., che trova anche lui troppo circoscritta l’azione del Rossi nell’esporre il diritto costituzionale dalle parole della relazione Guizot, G. De Puynode, art. cit., Alph. Curtois, art. cit. e Giovanni Boglietti nella Revue Internationale del 1887, tomo XIV, in un articolo intitolato Pellegrino Rossi in Roma, nel quale afferma, forse con soverchia facilità, che egli cristallizzava la scienza politica entro formule più ingegnose che vere» e riflette che mentre i dottrinari edificavano, con la loro abile dialettica, il proprio sistema, la marea demagogica saliva intorno ad essi per inghiottirli poi nel 1848.
  55. L. Reybaud, sui legami del Rossi con la consorteria dottrinaria, nell’art. cit.
  56. Vada per l’unità, passi, fino a un certo punto, anche per l’uguaglianza, ma per le franchigie poi! il dottrinarismo guizottiano si spingeva proprio nell’intimo del paradosso storico!...
  57. Gustave De Puynode, art. cit.
  58. L. Reybaud, I. Garnier, Colmet-Daage, A. Pierantoni, articoli e discorsi citati. Il Courtois dice con ventuno voti su ventidue votanti.
  59. A. E. Cherbuliez, nel citato articolo del 1819 e G. De Puynode, art. cit.
  60. Histoire de la politique extérieure du Gouvernement français, 1830-1848, par M. O. D’Hauussonville, Paris, Michel Levy frères, 1850.
  61. L. Garnier, art. cit.
  62. Colmet-Daage e Curtois, articoli citati. Erroneamente il De Puynode atterma che il governo repubblicano, sorto dopo il 24 febbraio, spogliasse il Rossi anche della sua cattedra di diritto costituzionale.
  63. Colmet-Daage, art. cit. Anche su questo punto della vita del Rossi, come su parecchi altri, sono discordi, circa le date, i vari biograti e critici di lui. Il Lozzi, il D’ideville, il Bertolini, il Curtois, il Say pongono la data della nomina di lui a decano della Facoltà giuridica alla Scuola di diritto nel 1843, mentre il Colmet-Daage, suo supplente e poi successore nella cattedra in quella Scuola, il quale, per ciò, era in condizione di verificare la ditta nell’archivio della Scuola stessa, assegna come data di tale nomina il 18 novembre 1839. Fra gli altri scrittori, quelli che accennano a tale nomina, non assegnano nessuna data. Io avevo creduto di attenermi alla data fissata dal Colmet-Daage, che ragionevolmente avrebbe dovuto essere esatta. Ad ogni modo, natimi dei dubbi sulla precisione del Colmet-Daage, che avevo già sorpreso in flagrante di inesattezza, mi rivolsi alla cortesia del conte Tornielli, nostro ambasciatore a Parigi, perchè si compiacesse di verificare la cosa alla Scuola di diritto. Il nobile uomo, con una squisita gentilezza di cui qui pubblicamente gli rendo le più vive azioni di grazie, mi rispose con la seguente lettera autografa: «Parigi, 27 settembre ’98 — Onorevole Signore — Ebbi oggi dal Segretariato della Facoltà di leggi dell’Università di Parigi le indicazioni da Lei richiestemi. Le trascrivo testualmente: — " M. Rossi, professeur de droit de Paris, membre de l’Institut et du Conseil royal de l’instruction publique, a été nommé Doyen de la Faculté de droit de Paris, en remplacement de M. Blondeau, dimissionnaire, par arrêté de M. Villemain. ministre de l’instructon publique, en date du 18 novembre 1843. M. Rossi a été nommé Doyen honoraire par arrêté de M. Salvandy, ministre de l’instruction publique, en date du 1er janvier 1847."
       «Ben lieto di averle potuto procurare queste sicure notizie di fatto, mi è grata l’occasione per offrirle gli atti della distinta mia considerazione. — Di V. S. Illma Devmo G. Tornielli».
  64. Nel 1839, in occasione della nomina di P. Rossi a pari di Francia, A. Karr, nelle sue Guépes (serie 1°, Calmano Lévy, 1878, tom. I, pag. 48) scriveva, dopo avere a lungo, a modo suo, parlato della vita precedente del Rossi: «Il signor Rossi era così cattivo svizzero, come vedete, che egli non aveva quasi a far nulla per divenire francese. Il signor De Broglie e il signor Guizot lo chiamarono in Francia e gli diedero una cattedra di diritto costituzionale francese. Subito gli allievi si incaponirono: un’ordinanza rese il corso del signor Rossi obbligatorio per gli esami di diritto. Allora gli allievi vi si precipitarono in folla, ma per romper tutto, per cantare la Marsigliese e gettare sul professore pomi cotti ed altro. La gendarmeria se ne immischia. Poi, siccome tutto assai presto si dimentica in Francia, la scienza reale del professore trionfa anche dei più renitenti e il suo corso è assai frequentato. Il signor Rossi si è fatto naturalizzare francese e ha fatto parte all’ultima infornata de’ pari.
       «Il signor Guizot diceva ieri a qualcuno: Vedete il Rossi? Egli si è affidato a me e vedete dove io l’ho condotto in tre anni? Il signor Rossi dopo essere stato a volta a volta austriaco per azzardo, francese per combinazione, italiano per stordidezza, papalino momentaneamente, napolitano per umore belligero e ginevrino per amore, è oggi e definitivamente francese per ragione».
       E più tardi, parlando dei principali pubblicisti parigini e dei giornali in cui si sono annicchiati, diceva che la cronaca politica della Revue des Deux Mondes «fu ricercata ed ottenuta dal signor Rossi, di cui abbiamo raccontato la storia con convenienti e curiosi particolari e il quale deve la sua elevazione al Ministero del 12 maggio» (tom. II, pag. 172).
       «E, parlando dei discorsi pronunciati al Collegio di Francia, per la distribuzione dei premi per la letteratura, scriveva: - Al Collegio di Borbone, il signor Rossi, che presiedeva la distribuzione dei premi, ha trattato la stessa questione. Eh, no, signor Rossi, mille volte no; non fu già per le lettere che voi siete arrivato ad essere pari di Francia - non è vero? - voi lo sapete bene...» (tom. III, pag. 90).
       «E più tardi ancora, nel 1843, in un articolo che aveva per obbiettivo il motto Dio protegge la Francia e che egli, ironicamente e umoristicamente, applicava a molti uomini o illustri o noti, giunto a Pellegrino Rossi scriveva queste poche linee:
    «Il signor Rossi:
    «nel 1783 nato austriaco;
    «nel 1808 diviene francese;
    «nel 1812 ... italiano;
    «nel 1811 ... napoletano;
    nel 1820 ... ginevrino:
    «nel 1830 ... rifrancese:
    « Dío protegge la Francia».

       E, in parecchi altri luoghi, il Karr assale, sempre con malignità, il Rossi. Non è neppur necessario di dire che la maggior parte delle date di Alfonso Karr sono sbagliate, come non è esatto che P. Rossi nascesse austriaco, che nel 1808 si facesse francese, nel 1812 italiano e via di seguito.

  65. H. Baudillart, art. cit.: De Puynode, art. cit.
  66. H. Baudrillart, art. cit.
  67. F. Ferrara, op. cit.
  68. A. Pierantoni, disc. cit.
  69. L. Reybaud, A. E Cherbuliez, J. Cretinau-Joly, A. De La Forge, G. De Peynode, G. Boglietti e A. Curtois, scritti citati.
  70. Dal Moniteur Universel del 17 aprile 1844.
  71. Il Rossi alludeva al Guizot.
  72. F. Guizot, Mémoires, ecc., vol. VII, cap. 43, pag. 379 e seg.
  73. Lo Stesso, ivi.
  74. E. Quinet, Les Jésuites, l’ultramontanisme, Paris, Pagnerre libraire-editeur, 1857, Introduction, pag. xi.
  75. F. Guizot, Mémoires, ecc., vol. VII, cap. 43, pag. 392.
  76. F. Guizot, Mémoires ecc, loc cit., pag. 303-94.
  77. C. Bon-Compagni, nel Discorso, già citato, detto a Bologna per la inaugurazione del monumento a Pellegrino Rossi il 27 aprile 1862.
  78. F. Guizot, Mémoires, ecc, loc. cit.
  79. F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Napoli, Angelo Mirelli, 1862, 3° ediz., vol. IV, cap. 58, pag. 243 e seg.; L. C. Farini, Lo Stato romano, Firenze, F. Le Monnier, 1850 2* ediz., lib. I, cap. 10, pag. 124; E. Poggi, Storia d’Italia dal 1814 all’8 agosto 1846, Firenze, G. Barbera, 1883, vol. II, pag. 358; M. Minghetti, Miei Ricordi, vol. I, capit. 4, pag. 183 e 184.
  80. F. A. Gualterio, op. e loc. cit.; M. Minghetti, op. e loc. cit.
  81. D. Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli xviii e xix, Roma, Forzani e C. tip. del Senato, 1885, vol. III, pag. 634.
  82. F. Guizot, Mémoires, ecc., loc. cit.
  83. F. A. Gualterio, op. e loc. cit.
  84. Vedi in questo stesso volume, a pag. 35.
  85. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 27 aprile 1845; un piccolo capolavoro, in cui la profondità dell’osservazione è avvolta in elegante e finemente ironica disinvoltura di stile, riportata dal Guizot, Mémoires, ecc., vol. VII, cap. 43, pag. 399 e seg.
  86. Lettera del ministro Guizot a P. Rossi, in data 19 maggio 184.’». Vedi Mémoires del Guizot, loc. cit., pag. 412 e seg.
  87. Lettera del ministro Guizot a P. Rossi, del 19 maggio 1845, nelle Mémoires del Guizot stesso, loc. cit., pag. 414.
  88. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, del 28 maggio 1845, nelle Mémoires del Guizot stesso, loc. cit., pag. 417.
  89. F. Guizot, Mémoires, ecc., loc. cit., pag. 427.
  90. Il Cardinale Lambruschini si chiamava Luigi, e il 21 giugno è la festa di san Luigi Gonzaga e il Rossi, con abile e delicato pensiero, era andato a fargli i suoi augurii.
  91. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 21 giugno 1845, nelle Mémoires dello stesso Guizot, loc. cit, pag 480.
  92. M. Minghetti, op. e loc. cit.
  93. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 25 giugno 1845, nelle Mémoires del Guizot stesso, loc. cit, pag. 431.
  94. F. Guizot, Mémoires ecc., loc. cit., pag. 441.
  95. Lettere di P. Rossi al ministro Guizot, in data io e 18 agosto 1845, nelle Mémoires del Guizot stesso, loc. cit, pag. 443 e seg.
  96. Cfr. T. Flathe, Il periodo della Restaurazione e della Rivoluzione 1815-1851, nella Storia universale dell’Oncken, Milano, dott. Leonardo Vallardi editore, 18S9, il quale nel lib II, cap. II, a pag. 116 afferma che «tutto ciò che l’Ordine aveva concesso si riduceva ad una diminuzione insignificante del numero dei gesuiti».
  97. A. De la Forge, Des vicissitudes, ecc., vol. I, pag. 204.
  98. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 28 settembre 1845, nelle Mémoires del Guizot stesso, loc. cit., pag. 452.
  99. Il Papa avrà detto altamente più di una volta «di volere il Rossi ambasciatore», ma avanti che fosse in tal guisa persuaso, alle prime aperture fatte in proposito dal governo francese, si mostrò decisamente avverso, come risulta indiscutibilmente dal documento di tutto pugno di Gregorio XVI, riprodotto in facsimile dal Silvagni, La Corte e la società romana nei secoli xviii e xix, vol. III, pag. 488.
  100. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in dato 18 marzo 184(t, nelle Mémoires del Guizot stesso, vol. VII, pag. 453.
  101. Lettera del ministro Guizot a P. Rossi, in data 7 aprile 1846, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VII, pag. 455.
  102. «Qui si rivela una delle inconcepibili piccolezze dello spirito cosi segnalato dell’uomo di cui ci occupiamo. Egli era di sangue plebeo, la celebrità del suo nome era l’opera sua: non doveva egli essere fiero di non dovere che a se stesso ciò che gli altri otteng’ono dalla combinazione della nascita?» Così A. De la Forge (Vicissitudes, ecc., tomo I, pag. 264), il quale continua ad inveire contro il Rossi per quel titolo, dimostrando come esso fosse risibile in mezzo alla antichissma nobiltà delle famiglie patrizie di Roma e lo rimprovera di non aver ricordato che il secolo non riconosce altra nobiltà che quella dell’intelligenza e del cuore.
  103. Lettera del ministro Guizot a P. Rossi, in data 20 aprile 1846, nelle Mémoires del Guizot stesso, vol. VII, pag. 455 e seg.
  104. Lettera del ministro Guizot a P. Rossi, in data ‘20 aprile 1846, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VII, pag. 258.
  105. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data giugno 1846, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VII, pag. 463.
  106. F. Guizot, Mémoires, ecc., vol. VII, pag. 464