Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. I/Capitolo I

Capitolo I

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Ai lettori Capitolo II

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CAPITOLO I.


Pellegrino Rossi da Carrara a Bologna e da Bologna a Ginevra.


(Periodo italo-svizzero, 1787-1833).


A Carrara, il 13 di luglio del 1787, nasceva di civile ed onorata famiglia Pellegrino Luigi Edoardo Rossi dalle prime nozze del padre suo Domenico Maria, il quale ebbe due mogli e, da ciascuna di esse, sette figliuoli; quattro maschi e dieci femmine. Compiti i primi studi nel collegio dei Padri delle Scuole Pie in Correggio, dandovi prove non dubbie di quel suo pronto, versatile, vivissimo ingegno, il giovinetto Pellegrino fu avviato alla giurisprudenza, che egli apprese, prima a Pisa, poi a Bologna, nella cui antica e gloriosa Università consegui, a pieni voti, la laurea in utroque iure, a soli diciannove anni di età, nel 1806.

Nominato, nel 1807, segretario della Procura generale della Regia Corte di Bologna, poco tempo rimase in quell’ufficio; poiché di più largo campo abbisognava l’attività straordinaria del suo temperamento, di più ampio agone il gagliardissimo suo ingegno. Per il che se ne ritrasse, imprendendo l’esercizio dell’avvocheria. E, intanto che si dava, con impeto giovanile, alle dispute del foro, fino da allora dando luminosa dimostrazione della sua parola fascinatrice e della sua poderosa e irresistibile eloquenza, Pellegrino Rossi si dedicava, sotto la guida del valoroso professore Valeriani, allo studio dell’economia politica; entusiasmando e, in breve, oltrepassando il suo maestro.

Dotato di uno di quegli ingegni fervidi, versatili, assimilatori, pieghevoli a tutto, dei quali così numerosi esemplari si riscontrano nella storia d’Italia, specie nel cinquecento, quali ad esempio Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, [p. 10 modifica]Benvenuto Cellini, Giulio Pippi - per non parlare dei sommi come Raffaello, Michelangelo, Niccolò Machiavelli - Pellegrino Rossi era agitato dal desiderio febbrile di effondere tutta quella potenza di cui si sentiva investito e quindi esplicava un’attività veramente prodigiosa negli studi e, fra una scrittura forense di materia civile e un dibattimento penale, apprendeva la lingua e la letteratura inglese e si arricchiva di estese e profonde cognizioni nella storia, nella filosofia, nell’economia e nel diritto.

Come oratore e difensore aveva presto levato rumore nella dotta Bologna, ove l’avvocatino pallido - così lo chiamava il volgo - era divenuto notissimo.

Frutto di quella sua attività febbrile, di cui feci cenno poc’anzi e conseguenza dell’alto concetto in che egli teneva il nobile ufficio di difensore, fu la fondazione fattasi, per sua iniziativa, in Bologna, di un’Accademia denominata dei Filodicologi, diretta a restaurare l’eloquenza del foro, rinvigorendo fra gli avvocati l’uso della buona favella nazionale. Questa Accademia, della quale facevano parte, allora, Monsignor Pellegrino Farini e i giureconsulti bolognesi Casoni, Salvi, Lisi ed altri, inaugurò la sua prima seduta nell’aula dell’Archiginnasio il 19 dicembre del 1808, presidente Paolo Costa, segretario Pellegrino Rossi1.

Ma più che le lotte e i successi del foro arridevano all’ambizione del giovane giureconsulto, tutto acceso dell’amore della scienza, tutto pervaso del fuoco dell’arte, i trionfi che egli si riprometteva dall’insegnamento, con fervida e appassionata parola, bandito dall’alto di una cattedra.

E nel 1812 egli conquistò, per concorso, quella di diritto e procedura civile nel liceo, a cui aggiunse presto, nel 1814, l’altra [p. 11 modifica]di diritto penale nell’Università: onde, a ventisette anni, egli, divenuto a Bologna ormai famoso, fu nominato anche consigliere di stato.

Ma, in mezzo al fervore degli studi, alle lotte passionate del foro, alle eloquentissime lezioni sue, Pellegrino Rossi teneva vôlto l’animo alle cose dell’infelice sua patria e, come la maggior parte degl’Italiani intelligenti, colti e coscienti a quei dì, andava vagheggiando e carezzando il sogno della redenzione della penisola.

Di questi patriottici sentimenti, di queste nobili aspirazioni del Rossi, che furono messe in dubbio dai nemici e anche da qualche amico ed ammiratore di lui2, la storia ha indiscutibile riprova e negli atti compiuti da lui, nella primavera del 1815, e nella difesa che di quegli atti egli stesso scrisse e stampò a Genthod, in Svizzera, nel luglio dell’anno stesso,

In quella difesa l’illustre carrarese parlava cosi: «Prima della catastrofe dell’anno passato l’Italia si mostrava sotto due aspetti differentissimi. Vedevasi dall’una parte il regno d’Italia, dall’altra i così detti dipartimenti francesi e fra questi - cosa miserabile a dirsi - Roma e Firenze. Il regno d’Italia, benché troppo soggetto alla dominazione francese e non ancora ben mondo d’ogni anarchia rivoluzionaria, offriva, ciò non ostante, uno spettacolo abbastanza grato a un Italiano, perchè aveva [p. 12 modifica]una costituzione, un’amministrazione propria, un’armata, un tesoro, quell’insieme, in una parola, che costituisce uno stato separato. La vista, all’incontro dei dipartimenti francesi lacerava il cuore d’ogni Italiano. Al solo pensare che l’antica signora del mondo era governata da un prefetto francese, che la sede vera della nostra lingua non era più che una provincia di Francia, doveva destarsi in ogni animo benfatto lo sdegno nazionale. Io sentiva veramente stringermi il cuore ogni volta che mi accadeva di attraversare il ducato di Parma, la Toscana, il Genovesato».

Animato, quindi, dal desiderio della indipendenza e della unità d’Italia che era, contemporaneamente, il desiderio da cui erano animati tutti i più illustri Italiani di quell’età: il Foscolo, il Cicognara, il Botta, il Pellico, il Santarosa, il Confalonieri, il Manzoni, il Romagnosi, il Rasori, il Gioia, il Giordani, il Costa, il Benedetti, il Niccolini, il Rossetti, i tre Pepe, il Colletta, il Troya e cento e mille altri, Pellegrino Rossi, non solo aderì al tentativo murattiano per la espulsione degli Austriaci dalla penisola, ma lo favorì; accettò l’ufficio di commissario generale del re Gioacchino nelle provincie dal Po al Tronto e pubblicò il 4 aprile in Bologna il famoso proclama in cui, con caldissime parole, si eccitavano gl’Italiani alla guerra d’indipendenza.

Del resto in quell’ufficio egli non rimase che pochi giorni, perchè l’esercito napoletano, entrato in Bologna il 2 di aprile del 1815, dovette, il 16 dello stesso mese, dopo avere riportato effimeri vantaggi in piccoli combattimenti sul Panaro, sgomberare la città felsinea, incalzato dall’esercito austriaco, dal quale poi fu sconfitto a Tolentino il 2 del successivo maggio.

Il Rossi, per tutti questi fatti evidentemente ribelle all’autorità del Pontefice, fu costretto a seguire nella sua ritirata l’esercito murattiano e, caduto Gioacchino, da Napoli si trasferì a Marsiglia e di qui a Genthod, presso l’amico suo barone Crud. Di là mandò fuori la sua difesa, con la speranza, forse, di riottenere la sua cattedra. Ma, fallitogli questo tentativo, dopo una breve sosta fatta a Milano, riparò a Londra, dove si trattenne circa tre mesi e donde tornò in Svizzera, deliberato di fissare la sua dimora a Ginevra, dove, nel suo precedente soggiorno nel 1813, aveva, presso madama De Staël, contratto parecchie amicizie.

[p. 13 modifica]Quali fossero stati i pensieri, quali i sentimenti che avevano mosso e guidato Pellegrino Rossi nell’associarsi al movimento murattiano, oltre che dai fatti precedenti, è ampiamente dimostrato da queste altre parole dell’arguta, sarcastica e sdegnosa difesa, già ricordata. «Se l’amare il proprio paese e se il desiderare che esso torni grande e felice, quando anche ciò potesse non piacere del tutto a taluno, sono riguardati come delitto, io dispenso di buon grado i miei accusatori dall’allegare alcuna prova contro di me; mi confesso colpevole, ed avrei per ingiuria essere dichiarato innocente». E, continuando ad addurre le ragioni delle proprie azioni in quel sommovimento, soggiunge: «Dopo la battaglia di Lipsia la potenza francese declinava apertamente: essa non era più in istato di conservare con la forza i suoi domini d’Italia, ove si fosse fatto qualche tentativo per ispogliarnela. Ora, quale era il buon Italiano che non desiderasse di vedere questo sforzo, che non facesse dei voti perchè cosi bella occasione fosse afferrata, che non bramasse infine che un principe, qualunque pur egli fosse, si ponesse a questa nobile impresa? Se l’averlo desiderato e il non aver celato in qualche crocchio accademico questo mio desiderio, è delitto, aggiungetelo pure all’altro; io lo confesso».

Cercò, è vero, in quella difesa, il Rossi - ed ebbe torto - di scagionarsi della responsabilità del proclama del 4 aprile, che costituiva il maggiore suo atto di ribellione verso il Papa, adducendo che quel proclama gli era stato imposto; ma il calore patriottico di ogni linea di quel proclama costituiva una solenne smentita alla scusa della imposizione: non si scrive così se un profondo sentimento non anima e non ispira lo scrittore. Il governo pontificio non gli credette, ed ebbe ragione, e non gli perdonò.

Cosi finiva il primo periodo, quello che taluni biografi hanno chiamato il periodo italiano della vita di Pellegrino Rossi, il quale, all’età di trentadue anni, si trovava privo della patria, ad un tratto, e degli onori e dell’alta considerazione morale che, con gli studi, con l’ingegno, con l’eloquenza si era conquistato, e privo della lucrosa posizione che, con la vita sua attiva e laboriosa, si era procacciata.

L’illustre proscritto, rifugiato a Ginevra, doveva [p. 14 modifica]ricominciare a lavorare da capo per ricostituirsi la rinomanza, l’agiatezza, un onorevole stato sociale.

Pellegrino Rossi però non era di quegli uomini che facilmente si sgomentano e si lasciano abbattere dalle lotte della vita. Conscio - e lo fu sempre - della superiorità del suo intelletto, della vigoria della sua cultura, della potenza irresistibile della sua parola, egli era di tempra gagliarda, fiero dell’animo, e quantunque, a quando a quando attratto dalla voluttà meridionale del dolce far niente3, stimolato dal bisogno e, quando non dal bisogno, dall’ambizione, egli era capace di una operosità meravigliosa e meravigliosamente produttrice e feconda. Di più che mediana statura, magro, nervoso, pallido nel volto, dall’ampia ed alta fronte e dagli occhi grigi vivissimi, Pellegrino Rossi appariva subito nel portamento, nelle maniere signorili, negli atteggiamenti aristocratici, uomo elegante, superiore, un po’ altiero, più estimatore di sè che apprezzatore degli altri, con un fare sdegnoso, che talora diveniva sprezzante.

A Ginevra egli non ebbe fretta e, allogatosi in una modesta casetta, in vicinanza della città, si dedicò allo studio e al lavoro e, intanto che apprendeva il tedesco e si sprofondava nella letteratura alemanna, scriveva versi e bellissimi versi — dice un ammiratore di lui — 4, traduceva il poema il Giaurro ed altri [p. 15 modifica]del Byron e li pubblicava; e studiava e scrutava l’ambiente nuovo in cui doveva ormai svolgersi tutta la sua energia.

Per effetto del trattato di Vienna del 1815 alla Svizzera era stata imposta una costituzione federale, la quale aveva fatto di essa «piuttosto che una nazione un’assemblea di piccole repubbliche organizzate nella immobilità»5; «le deliberazioni della Dieta e, fino a un certo punto, il regime interno di ciascun Cantone eran poste sotto l’influenza della Santa Alleanza, onde una servitù mascherata, un vassallaggio indiretto»6; quindi si aveva «nelle elezioni la prevalenza della rappresentanza delle città sulle campagne: le costituzioni cantonali lasciate libere nei loro arbitrî, non tutelati i deboli; il diritto elettorale subordinato a censo elevato, non riconosciuti nè il diritto di petizione, nè la libertà di parola e di stampa, e tale reazione si esercitava sopra tutto sotto la direzione della Santa Alleanza»7.

In conseguenza di questa condizione di cose i partiti liberale e democratico si agitavano in Isvizzera, a quei giorni, contro quella odiosa e restrittiva costituzione, ma essi si trovavano in quasi tutte le rappresentanze in minoranza ed erano costretti a mordere il freno, sotto la bufera imperversante della reazione, la quale aveva trionfato a Lipsia e a Waterloo e imperava allora da Vienna.

Anche a Ginevra quindi - quantunque quella fosse la più incivilita e liberale fra le repubbliche svizzere - anche a Ginevra, quando vi si rifugiò Pellegrino Rossi, dominava al governo il partito conservatore. E questo fatto concorse, senza dubbio, a determinare il proscritto italiano al suo prudente atteggiamento di osservazione, di studi e di preparazione.

[p. 16 modifica]A Ginevra convenivano, come aveva detto l’arguta madama De Staël, come ad ospizio comune, tutti i feriti politici di Europa; feriti, s’intendeva, in servizio della libertà, nella lotta contro la reazione. Quindi là si trovavano accolti Stefano Dumont, collaboratore del Mirabeau, Gian Carlo Leonardo Sismondo de’ Sismondi, il grande storico; il giureconsulto e pubblicista Bellot; i filosofi Simon e Prévôt; Candolle, l’insigne naturalista; l’illustre fisico Larive e i valorosi scrittori Pictet, Bonstetten e Lulin de Châteauvieux.

In mezzo a tutti costoro si insinuò, pian piano, Pellegrino Rossi e, ben presto, con l’attrattiva che esercita sempre l’uomo d’ingegno potente e di cultura superiore, col fascino che deriva dalla parola eloquente di un grande pensatore, egli seppe conquistare e conquistò tutti quegli ingegni, che divennero tutti suoi estimatori, amici ed ammiratori.

Così, vincendo, man mano, le diffidenze che egli doveva suscitare fra i rigorosi calvinisti ginevrini come cattolico, fra i primeggianti conservatori come profugo liberale, superando, con tenacia di volontà veramente meravigliosa, la difficoltà maggiore che a lui si opponesse nel vagheggiato e desiderato apostolato della cattedra, quella di dovere esprimere correttamente ed efficacemente i propri pensieri in una lingua non sua8. Pellegrino Rossi passò a Ginevra tre anni in paziente, continuo, amorosissimo lavoro e, con quella facilità e potenza straordinaria di assimilazione, che era uno dei più spiccati caratteri, forse il più spiccato fra i caratteri del suo singolarissimo ingegno, «ben presto la lingua francese non ebbe più segreti per lui: egli ne penetrò le delicatezze, ne divinò i lenocini e parlò prettamente francese»9. E non solo parlò agevolmente quella lingua, ma potè e seppe in essa divenire potente, efficacissimo, affascinante oratore, senza perdere mai quel qualche cosa, sia nell’accento, sia nella pronuncia, che palesava la sua origine italiana, onde nel suo dire vi «era sempre qualche cosa di musicale, ma [p. 17 modifica]la parola era così scelta, così trasparente, così francese che facilmente si dimenticava l’accento con cui era pronunciata»10. «Egli stupiva il suo uditorio con la sua parola ardente ed appassionata, che il suo accento italiano rendeva più vibrata e più incisiva»11.

Il professore, che aveva già tratto ad entusiasmo e s’era creato una fama a Bologna, parlando nella sua lingua natia, apparve a conquistarsi uguale e maggior fama in una lingua non sua, ricominciando da capo il proprio cammino, all’Accademia protestante di Ginevra nel 1818, iniziandovi un corso libero di «storia e di istituzioni romane», avanti ad un uditorio numeroso, di cui facevan parte molte signore. Egli ebbe un grandissimo successo oratorio e scientifico, avvegnachè egli rivelasse a quel pubblico tutte le nuove deduzioni a cui erano giunti coi loro studi il Niebuhr e il Savigny.

Il successo di crescente entusiasmo ottenuto da quelle lezioni fu tale da dissipare le prevenzioni che si avevano intorno a lui come temuto e temibile rivoluzionario, da levare in grande onore e in gran fama il giovane professore, così che i magistrati conservatori di Ginevra si decisero ad ammettere, per la prima volta dopo trecento anni, nell’Accademia protestante di Calvino un cattolico, affidando al Rossi la cattedra già tenuta dall’illustre professore Burlamacchi, discendente del grande Francesco, gonfaloniere di Lucca nel 1548 e primo martire dell’indipendenza italiana. L’insegnamento affidato al Rossi fu duplice: diritto romano e diritto penale12.

Del suo corso di «diritto applicato alla storia romana» parlano, con vera e caldissima ammirazione, lo Cherbuliez, Bibliothèque Universelle del 1849 e Hubert Saladin, che tutti due seguirono le lezioni di Pellegrino Rossi, e il Saladin ne scrive cosi; «Tutti [p. 18 modifica]accorrevano ad ascoltare un Italiano, che insegnava mirabilmente in francese; un giureconsulto che restituiva ogni propria significazione al diritto, spiegandolo mercè la storia; un professore, il quale rapiva l’uditorio e con arte infinita dava diletto a ciò che prima non aveva procurato che istruzione. Il signor Rossi ottenne il suffragio dei veri giudici, gli applausi del pubblico, lo stesso entusiasmo delle donne che trassero a quelle lezioni»13.

Ad accrescere la sua autorità e la sua fama concorreva il fatto che egli dava ai suoi insegnamenti l’inspirazione liberale, l’impronta nuova di fronte a un governo retrogrado quale era il ginevrino14. Il suo metodo era spigliato e moderno: «egli trascurava i particolari, le categorie, le divisioni e suddivisioni, ma esponeva le principali dottrine, le sviluppava con abbondanza, con argomentazioni solide nel fondo, brillantissime nella forma: rendeva attraenti le materie più aride come quelle del diritto romano; specialmente poi nel diritto penale egli grandeggiava»15.

L’illustre professore Cherbuliez, dopo aver affermato che «v’erano pochi uomini, fra quelli del tempo in cui egli scriveva, ai quali il signor Pellegrino Rossi non fosse superiore nella potenza intellettuale e nel valore oratorio», dopo aver riconosciuto che «il signor Rossi, fortunato in ciò più della maggior parte degli oratori, univa al talento dell’artista una potenza intellettuale che a lui assicurava fra gli scienziati un posto il più segnalato che nè il cattivo gusto, nè lo spirito di parte, nè le meschine gelosie di coloro, che sono umiliati dalla sua superiorità, gli potranno far perdere»16, esamina lungamente e con ampiezza di sagaci, sebbene talvolta troppo sottili distinzioni, la diversità delle qualità dello scrittore da quelle dell’oratore, e conclude che mentre il Rossi «non era molto inferiore al Mirabeau come oratore, quantunque la maniera di lui fosse assai [p. 19 modifica]differente, neppure i più ardenti suoi ammiratori possono esitare ad assegnargli un posto assai modesto fra gli scrittori, anche a fare astrazione dalle imperfezioni grammaticali provenienti dal fatto che egli non scriveva nella sua lingua materna»17.

Ma checchè ne sia di ciò e ammesso pure che, in buona parte, la sentenza dello Cherbuliez sia vera, ammesso pure che Pellegrino Rossi riuscisse, nella forma, per una certa aridità e secchezza, non felice come scrittore, resta sempre, per comune consenso di tutti i suoi biografi e critici, la grande importanza delle dottrine sue, delle poderose idee che egli disseminò nei suoi Trattati, restano sempre i progressi da lui fatti fare alla scienza giuridica e alla economica.

Infatti il Mignet, con ingegnosa espressione, afferma che il Rossi «con una grande altezza di mente si era fatto il metafisico del diritto ed era divenuto, mercè l’inflessibile rigore delle sue deduzioni, il geometra, per così dire, della economia politica18.

E lo stesso Cherbuliez, sempre dotto e profondo, spesso severo critico del Rossi, che egli amava, afferma che al «punto di vista d’insieme nelle opere di lui si riscontrano tre dotti completi: un pubblicista, un economista e un penalista. L’autore era stato così riccamente dotato dalla natura, che si è dimostrato superiore in tutte le sfere d’azione che si sono presentate alla sua attività»19.

La quale era grande e feconda cosi, che l’esule italiano, oltre ad attendere agli insegnamenti ufficiali, offriva al pubblico successivamente vari corsi liberi di economia politica, di storia moderna, di storia dei Paesi Bassi e della Svizzera, di procedura penale, di diritto pubblico e di diritto costituzionale, mentre, insieme col Sismondi, col Dumont, col Bellot e col Meynier, fondava gli Annali di legislazione e di giurisprudenza, nei quali scriveva molti, importanti e notevolissimi articoli, intanto che [p. 20 modifica]molti ne inseriva nella Revue Française, che gli era stata aperta dall’amico duca De Broglie, da lui conosciuto a Coppet, presso la baronessa De Staël, e parecchi nella Bibliothèque Universelle de Genève, nella Revue des Deux Mondes, nella Revue de législation del signor Wolowsky.

Cosi egli richiamava più che mai su di sè l’attenzione delle persone colte e degli eruditi non solo di Ginevra, ma delle altre parti dell’Europa civile. Negli Annali - secondo uno dei suoi più autorevoli biografi, il Reybaud - «il Rossi formava i fondamenti dei principî direttivi della legislazione, che non bisogna confondere con i principi generali e filosofici del diritto. Là avvi una indicazione preziosa: sfortunatamente non è che una indicazione. L’autore (il Rossi) ha avuto nella sua carriera parecchie di queste buone occasioni troppo neglette: egli si contenta di emettere un’idea e la abbandona a metà cammino, senza darsi la briga di trarre da essa lo svolgimento di cui era suscettibile»20.

Gli Annali di legislazione e di giurisprudenza, che avevan preso poi il nome di Annali di legislazione e di economia politica, per effetto dei moti politici italiani del 1820-21, erano venuti in uggia al principe di Metternich che faceva molestare il periodico dai censori politici di Ginevra; onde i quattro illustri redattori, piuttosto che sottostare a quelle persecuzioni, soppressero la pubblicazione.

Per tutti questi fatti, crescendo ogni di più il pubblico favore, Pellegrino Rossi ebbe dal governo cantonale di Ginevra nel 1820 il diritto di cittadinanza, e nel maggio dello stesso 1820 si univa in matrimonio con una gentile ginevrina di famiglia protestante. Carolina Melly, la quale gli recò una dote, che diede a lui una modesta agiatezza; e per contrarre, lui cattolico, tale matrimonio domandò la dispensa da Roma e la ottenne gratuitamente, per la benevola intromissione di monsignor Gamberini, che era stato già suo amico e competitore nel foro bolognese quando era l’avvocato Gamberini e che, più tardi, diverrebbe il cardinale Gamberini21.

[p. 21 modifica]Del resto, in tutta l’attività così straordinaria, in tutta l’opera educatrice, ammaestratrice di Pellegrino Rossi a Ginevra, per quanto non siano esclusi quali cause impellenti e l’ambizione e il desio di gloria e i calcoli degli interessi materiali attribuitigli da parecchi biografi e critici suoi22, dominava però, sopra tutto, un nobile pensiero, un’alta e generosa inspirazione, il pensiero liberale, l’inspirazione civilizzatrice. Quel pensiero costante in lui, quella inspirazione assidua compagna dei suoi atti, dei suoi scritti, delle sue parole - e nessuno dei più fieri nemici del Rossi potrebbe osare negarlo - diedero coesione, armonia e unità di impulso e d’obiettivo a tutti i suoi lavori, trattati, lezioni, articoli, relazioni, discorsi di quel decennio e gli assicurarono - come si vedrà - un’altissima posizione non soltanto nella repubblica di Ginevra, ma in tutta la Confederazione svizzera.

Si comprende quindi come, nel 1823, egli fosse eletto deputato del Consiglio della piccola repubblica e come il mandato di rappresentante gli fosse tre volte riconfermato.

Egli, allora, era divenuto «la personificazione del partito liberale moderato che si veniva formando»23, «era considerato uno dei capi del partito liberale contro il reazionario governo cantonale di Ginevra»24 e si spiega, quindi, l’influenza che un tale nome doveva esercitare in quel piccolo stato; e si spiegano le ribellioni di molti a quella influenza, «ricca di nuove idee, delle quali egli mise in circolazione a Ginevra una grande quantità, di cui i Ginevrini gli dovevano essere grati»25. Un illustre biografo di lui notò «che, mercè la sua abilità nel convincere gli uomini senza comandarli, egli riesci a rinnovare in quella repubblica l’esempio di Pericle ad Atene, di esserne, cioè, il morale dominatore, senza esserne il capo ufficiale»26.

Certo è che egli si occupava ormai di tutto a Ginevra e senza biasimevoli inframmettenze: certo è che tutti gli sguardi [p. 22 modifica]e tutti i pensieri dei liberali si rivolgevano a lui; certo è che lo stesso Pietro Francesco Bellot, uomo già maturo di quarantotto anni, insigne giureconsulto e liberale pubblicista e integro cittadino e nativo di Ginevra e il quale - a giudizio di un autorevole testimonio - «se a Ginevra non ci fosse stato il Rossi, sarebbe stato il primo cittadino, riconosceva e accettava la preminenza del Rossi, perchè, nel suo grande patriottismo, comprendeva tutto il bene che esso faceva a Ginevra e, perciò, lo amava e lo ammirava e ne era sinceramente riamato»27.

Così, per opera principalmente del Rossi, il partito liberale moderato conseguì, in pochi anni, un grande ascendente sull’opinione pubblica ginevrina, ottenne la maggioranza nella rappresentanza nel Consiglio nel 1825 e raggiunse il potere, che tenne, poi, per diecisette anni consecutivi, sotto la presidenza dell’onorando cittadino Rigaud.

Pellegrino Rossi era l’oratore e l’inspiratore di questo partito. La sua formidabile eloquenza sosteneva in seno al Consiglio tutte le proposte liberali e sfolgorava, con la più sottile ironia, con la dialettica sua gagliardissima, con le sue appassionate finezze d’artista, gli avversari e li sgominava e li sopraffaceva28.

In questa guisa il nuovo governo liberale introdusse nella legislazione ginevrina parecchie sapienti ed utili riforme, onde, successivamente, con l’aiuto del Giraud e del Bellot, modificava, migliorandolo, il sistema ipotecario; promulgava la legge che regolava i matrimoni fra cattolici e protestanti; con la sagace cooperazione del Dumont e del Rigaud, rinnovava la legislazione penale della piccola repubblica, istituendo di nuovo il giurì; e la relazione del Rossi intorno alla restaurazione dei giudici del fatto letta al Consiglio ginevrino fu reputata allora e resta tuttora un vero capolavoro29.

Dando prova, fino da allora, di ardimento e di prudenza nel tempo stesso, mettendo ad atto, poichè l’ambiente politico e sociale in cui viveva glielo consentiva, la sua politica du juste [p. 23 modifica]milieu, la quale - giova notarlo bene, fino da ora, per l’intelligenza degli ultimi atti politici della vita di lui - fu sempre il suo ideale, egli riuscì, resistendo da un lato alle soverchie esigenze dei radicali e lottando efficacemente contro le renitenze dei conservatori dall’altro, a fare modificare la legge elettorale del 1814, abbassando il censo per l’elettorato30.

Così attiva, agitata, laboriosissima trascorse la vita di Pellegrino Rossi dal 1816 al 1830; ma non è a credere che egli non cercasse di frapporre a quella energica operosità soste e riposi, a fine di ritemprare le forze fisiche e intellettuali. Quindi, in questi quattordici anni, egli fece parecchie escursioni a Parigi, dove dall’amico duca De Broglie fu presentato a Francesco Guizot, che egli già conosceva e da cui era conosciuto per gli scritti e col quale, fino da allora, e per conformità di idee e di opinioni e per affinità di studi, di tendenze e di sentimenti, egli si legò della più stretta amicizia, cresciuta e nudrita poi sempre di reciproca stima ed ammirazione.

«La caccia ed il dolce far niente avevano pel Rossi» — come narra lo Cherbuliez suo discepolo ed amico — «tante attrattive che io debbo ancora comprendere come esso abbia potuto sopportare un’esistenza di cui queste due cose non assorbivano una buona metà. Il riposo del Rossi era quello del pensatore, senza dubbio, ma il suo spirito, capace, sotto la spinta di un gagliardo impulso, di consacrarsi a una lunga e intensa applicazione, temeva il giogo delle occupazioni regolari e retrocedeva avanti al compimento di qualunque lavoro imposto; egli amava, come tutto ciò che è vigoroso, la libertà e la spontaneità. Dopo il suo semestre universitario, di cui aveva saputo ridurre la durata a quattro mesi e mezzo, i suoi corsi particolari che dava contemporaneamente e la sessione invernale del Consiglio, egli scappava, gaudioso come uno studente in vacanza, per andare a passare tutta la bella stagione nel suo piccolo dominio di Genollier, ai piedi del Giura»31.

A porre il colmo alla sua fama, ad allargarla a tutta l’Europa, a consolidarla sopra fondamenti durevoli con un’opera di [p. 24 modifica]polso e complessa, apparve nel 1829, edito a Parigi, il suo Trattato di diritto penale che, per un venticinquennio, gli assegnò il primo posto fra i maggiori e più lodati criminalisti.

Il Trattato di diritto penale fu stampato la prima volta a Parigi in tre volumi, in ottavo, presso Santelet, ed era dedicato al duca De Broglie32.

Presto se ne fece a Parigi una seconda edizione e, in seguito, parecchie altre. Quel Trattato, altamente lodato dall’illustre Federigo Savigny, fu tradotto in spagnolo, in tedesco, più tardi in italiano e ben presto divenne libro di testo in molte scuole di diritto in varie Università d’Europa.

Due grandi scuole filosofiche avevano, lottando, imperato fin dal principio del secolo decimottavo in Europa: la scuola spiritualista e la sensista e questa, sul finire di quel secolo e sul principiare del decimonono, aveva di molto soverchiato l’altra. Per conseguenza l’origine filosofica della pena era assegnata in otto maniere diverse; stavano per la vendetta l’Hume, il Pagano e molti vecchi criminalisti; le davano origine dal contratto sociale Grozio, Locke, Rousseau, Montesquieu, Burlamaqui, Blackston, Beccaria, Pastoret, Brissot; la volevano scaturita dalla riparazione il Klein e qualche altro; dalla associazione per cui dalla costituzione della società si sviluppa il diritto punitivo, il Puffendorf; dalla conservazione con la formula della difesa sociale indiretta il Romagnosi e il Comte; dalla [p. 25 modifica]conservazione con la formula più indeterminata della politica necessità il Feuerbach, il Bauer, il Carmignani; con la espiazione il Kant, Vattel ed altri; con la utilità l’Hobbes e il Bentham; ma, in sostanza, la verità è che sotto l’influenza dell’una o dell'altra di quelle due scuole il diritto penale si era venuto svolgendo e la maggior parte dei criminalisti non davano ormai al diritto di punire altra scaturigine, altro obiettivo, altra misura che l’interesse sociale. In sostanza, e per conseguenza di queste teorie, la giustizia sociale, quantunque nelle applicazioni sue fosse temperata dai modificati sentimenti e dai costumi mutati, rimetteva in vigore quelle vecchie e deplorate massime per effetto delle quali essa poteva eccedere a tutte le violenze e trovare in quel concetto fondamentale la giustificazione di ogni atto di dispotismo. Fra questi penalisti, i quali, alla conclusione, ponevano per fondamento del diritto punitivo il materialismo e finivano, volenti o nolenti, all’egoismo sociale, primeggiavano due sommi intelletti, Gian Domenico Romagnosi, positivista sì, ma con intenzioni e tendenze rimarchevolmente morali, e Geremia Bentham, risolutamente materialista nei principii, nelle intenzioni, nel metodo e nella finalità.

Contro gli eccessi di queste dottrine materialiste, derivanti dalla filosofia sensista, insorse vigorosamente nel suo Trattato di diritto penale Pellegrino Rossi e le combattè, ma, pur respingendo il principio fondamentale di Bentham, che egli stimava pernicioso, pur dando un principio etico al diritto di punire, pur dando alla giustizia sociale un’origine morale, finiva poi per associare all’applicazione di essa anche l’interesse sociale33.

[p. 26 modifica]Perché è cosa importantissima, per la intelligenza chiara, sincera, completa dell’anima, delle dottrine, delle opere, delle azioni tutte della vita di Pellegrino Rossi, è cosa importantissima notare, fino da adesso e una volta per sempre, che egli ha un’impronta tutta sua caratteristica, tanto nel campo storico, quanto nel politico, come nello scientifico, così nel sociale e questa impronta caratteristica, che fu un poco anche la divisa di parecchi suoi illustri contemporanei, ma di cui egli fu [p. 27 modifica]investito più di tutti, più dello stesso Guizot, tanto affine a lui per indole, per studi, per ideali comuni, fu l’eclettismo conciliatore. Il senso du juste milieu era il sesto senso di lui. La sua assidua preoccupazione, la sua fissazione - se mi è permesso di così esprimermi - e, nel tempo stesso, la sua aspirazione, la sua visione, il suo ideale, fu le juste milieu. Questa profonda tendenza derivava, probabilmente, in lui da uno squisito sentimento della giustizia, da un delicato desiderio della equità, da una vivissima aspirazione alla perfettibilità degli uomini e alla perfezione delle umane cose e delle umane istituzioni.

Ad ogni modo, siccome questa aspirazione all’eclettismo conciliatore34 fu la guida di Pellegrino Rossi in tutti i suoi atti e in tutte le sue scritture, siccome essa fu causa di nobili fatti nella sua vita ed anche origine dei suoi errori - perchè era dessa che lo spingeva a desiderare e a figurarsi gli uomini un po’ diversi e un po’ migliori da quello che essi realmente erano - così, lo ripeto, stimo di somma importanza farne qui speciale rilievo.

Il Trattato di diritto penale del Rossi, che, d’altra parte, non era e non doveva essere nel pensiero dell’autore che una specie di prolegomeni di più ampio lavoro, respingendo le vecchie affermazioni che il diritto di punire derivasse alla società dal diritto di vendetta, come avevan sostenuto tutti i vecchi criminalisti, nè dal diritto di difesa, come aveva pensato il Beccaria, nè dal principio di utilità, come asseriva il Bentham, poneva per fondamento di tale diritto l’ordine morale. Quindi l’idea pura della giustizia costituiva la genesi del diritto punitivo, di cui lo stato è il depositario e l’organo. Quindi il dovere dello stato, la missione che esso ha di valersi della forza per l’applicazione della giustizia, la quale punisce e reprime chiunque all’effettuazione della giustizia si ribella o si oppone. In tale sistema l’utilità sociale poteva essere spesso il motore, più spesso ancora la misura delle pene, ma mai il principio genetico e sovrano il quale riposava sulla legge morale.

[p. 28 modifica]Il Rossi esaminava successivamente, dopo affermato il fondamento del diritto penale, il diritto di vendetta, il diritto di difesa, l’interesse individuale, l’utilità generale. E qui la vigoria e solidità delle argomentazioni adoperate dal Rossi ottennero le lodi anche dei più severi fra i critici di quel libro.

L’autore poscia esaminava il delitto in generale e sotto i differenti aspetti e lo investigava poi e in rapporto ai delinquenti, e in rapporto ai provocatori ed ai complici e in riguardo al male cagionato sia fisico, sia morale, sia misto, sia relativo o variabile, e in riguardo alle sue cause e ai suoi effetti. Da ultimo discorreva della pena, della sua natura, del suo fine, delle sue conseguenze; quindi trattava della legge penale e di chi abbia ad avere la cura di farla e di ciò che essa debba contenere e del come abbia ad essere applicata.

Qui, dopo avere sapientemente e a lungo discusso intorno alla pena di morte e dopo averne riconosciuta ed ammessa la legittimità, egli la voleva mantenuta, ma ristretta a pochissimi casi, augurandosi il giorno in cui potesse essere abolita. In tutta l’opera l’illustre penalista dimostrava, a più riprese, che se il diritto penale è legato alla conservazione dell’ordine, lo è a condizione di non impedire lo svolgimento progressivo dei principi morali della società civile.

«Pellegrino Rossi fin dal 1829 aveva costruito uno dei più splendidi monumenti scientifici, nel quale levandosi al cielo delle credenze morali dell’umanità, non si distaccò dalla terra, non perdè di vista le condizioni pratiche della vita sociale e le esigenze della realità. Avversando le dottrine della difesa diretta e della indiretta, che tutte si riducono al concetto della intimidazione, egli aveva posto a fondamento della scienza penale questa formula, che l'ordine morale richiede la retribuzione del male della pena, per il male del delitto, e che la potestà sociale dee farsi organo di quest’alta esigenza dell’ordine morale nei confini della necessità di conservazione dell’ordine sociale e dell’imperfezione dei mezzi dei quali la società umana può disporre. Questa sua formula egli venne applicando, con logica rigorosa, alle singole quistioni della scienza, analizzò gli elementi tutti del delitto, istituì una critica delle pene principali adoperate dai vari legislatori, formulò dei moniti per la compilazione delle leggi [p. 29 modifica]sulla penalità e sulle instituzioni giudiziarie in materia penale. Il suo Trattato di diritto penale rappresentò appunto il sollevarsi della scienza del diritto penale dalle anguste concezioni dell’utilismo alla regione delle idee morali, ed esercitò così in Francia come in Italia una grande influenza»35.

Un altro illustre giureconsulto, dopo aver rilevato il carattere e i principi fondamentali del Trattato del Rossi, notava come egli «attribuisse alla società quel diritto che Filangeri attribuiva anche agli uomini fuori di essa, persuaso come esso esigesse una superiorità pel suo esercizio e questa non ritrovarsi che nella sovranità sociale: ma la fallacia di questo principio non vien meno. Nè uno, nè più uomini, nè isolati, nè associati vennero investiti di questo morale ufficio. Hanno soltanto la facoltà di difendere i propri diritti, e la società, se violati, ha, per di più, quello di punirne i violatori»36.

Ma l’utilità sociale c’entrava per qualche cosa anche nel sistema del Rossi, onde non aveva tutti i torti lo Cherbuliez nel rinvenire del benthamismo nel Trattato del Carrarese e non ho torto io quando affermo aver egli avuto sempre in vista l’eclettismo conciliatore, perchè «Pellegrino Rossi, di cui non può ricordarsi il nome senza che ne torni dolorosamente al pensiero la tragica fine, parte dal principio che il male merita male. Per conseguenza afferma non esser punibili se non quelle azioni che contengono la violazione di un dovere. La pena è una riparazione; la società però non ha diritto d’infliggerla se non in vista di un utile sociale. Secondo il Rossi pertanto, affinchè l’autorità sociale possa punire, si richiede: primo, un atto immorale; secondo, che la punizione sia utile alla società. L’utilità sociale in questo sistema non è più la base del diritto di punire; essa è solamente la condizione indispensabile onde il diritto di punire possa verificarsi»37.

L’illustre Faustine Hélie afferma: «noi non conosciamo [p. 30 modifica]alcun libro che abbia avuto resultati più fecondi e più immediati di questo: sembra che tutte le legislazioni penali, accusate da questa voce potente e tradotte alla sbarra dell’opinione pubblica, si siano inchinate dinanzi a questo giudizio sovrano: esse si sono quasi unanimemente trasformate. A partire, infatti, da questo momento gli studi sono cominciati in grande parte degli stati d’Europa sulle leggi criminali e un movimento generale di riforma si è manifestato. In Francia la legge del 28 aprile 1832 ha ben tosto apportato numerose e profonde modificazioni nel nostro codice penale. In Allemagna nuovi codici lungamente preparati sono stati pubblicati nel 1838 in Sassonia, nel 1839 nel Würtemberg, nel 1840 nel Brunswick e nell’Hannover, nel 1841 nell’Assia Darmstadt. Le stesse riforme si sono successivamente compiute in Prussia, in Piemonte, in qualche cantone svizzero, in Spagna e particolarmente in Inghilterra. Noi non pretendiamo affatto che tutte queste nuove leggi, obbedienti a uno stesso pensiero teorico, abbiano avuto per iscopo di formularne l’applicazione: la legislazione positiva non marcia nè così presto, nè così risolutamente. Ma, noi l’abbiamo già detto, fa d’uopo distinguere due punti nel Trattato di diritto penale: la critica energica e vigorosa dello vecchie legislazioni e la esposizione di regole nuove che, secondo l’autore, dovrebbero essere il fondamento di ogni legislazione razionale. Ora se i legislatori, senza rigettare quelle regole, non le hanno sistematicamente applicate, essi hanno almeno riconosciuto alcuni degli abusi che loro erano stati segnalati e li hanno per la più parte tolti. Tale è stato il sensibile progresso operatosi sotto la influenza del libro del signor Rossi; suscitando la discussione dei principî del diritto penale, egli ha condotto a un imperfetto miglioramento ma reale del diritto positivo»38.

Ad ogni modo credo degno di nota il rilievo fatto da un altro caldissimo ammiratore del Rossi e per effetto del quale mi pare che si completi ciò che diceva l’Hélie e si abbia una delle principali ragioni della grande influenza esercitata sullo spirito pubblico europeo dal libro del Rossi. «Nel diritto penale [p. 31 modifica]il Rossi voleva assicurare alla libertà individuale tutte le garanzie compatibili con l’interesse della società. Il suo ideale era la procedura inglese, che egli aveva profondamente studiata e alla quale riferiva tutto il suo insegnamento come a un tipo, i cui particolari potevano esser modificati, ma il cui spirito e i cui tratti principali esprimevano l’ultimo desideratum della scienza» 39.

L’accoglienza fatta al libro del Rossi dal mondo dei colti e degli intelligenti fu - lo ripeto - festevole ed onorifica. L’autore dimostrava tale profonda conoscenza della storia del diritto e di tutti gli studi intorno ad esso dai più antichi ai più recenti, vi palesava tale vigoria di arte dialettica, tanta altezza di pensiero, tanta nobiltà di civili e sociali intendimenti, che fu salutato da molti come uno dei più grandi, da molti come il più grande fra i penalisti del tempo suo40.

[p. 32 modifica]È agevole quindi comprendere quanta verità vi fosse nell’affermazione fatta da un suo ascoltatore ed ammiratore che, verso il 1830, «Pellegrino Rossi teneva a Ginevra il primo posto come oratore, giureconsulto, legislatore, uomo di Stato e nessuno sognava neppure di contendergli questa superiorità incontestata in un paese che non aveva giammai noverato altrettanti uomini superiori quanti ne aveva a quest’epoca»41.

Eppure quest’uomo insigne e grande era assai più stimato e ammirato che amato e «per la superiorità de’ suoi studi e del suo ingegno era obietto di una guerra sorda che gli si veniva facendo a Ginevra e che crebbe poi assai dopo il 1830»42 e alla quale partecipavano i conservatori e «una parte dei radicali»43.

E anche qui, a meglio intendere tutto il seguito della vita del Rossi e a comprendere bene le animadversioni e i sospetti e le repugnanze e le irreconciliabili animosità da cui - non [p. 33 modifica]ostante l’indiscutibile altezza del suo ingegno straordinario, la immensa sua dottrina e l’incontestabile suo valore - egli fu avviluppato, accompagnato, perseguito ed inseguito fino alla violenta sua morte, anche qui è utile - anzi io stimo indispensabile - soffermarsi a studiare, sulla scorta delle notizie, delle memorie, dei documenti che si hanno intorno a lui, questo fatto strano, costante nella vita di lui, della niuna simpatia, cioè della scarsa benevolenza, del poco affetto onde fu circondato sempre.

E questo fatto, che è vero e indiscutibile, va tanto più studiato quanto più si presenta come strano, come inesplicabile, come inconseguente e contraddittorio a tutte le premesse storiche, in aperta e flagrante contraddizione, cioè, con la potenza ed attitudine a tutto di quel suo molteplice, versatile, vivissimo ingegno assimilatore, con la sua dottrina vastissima, con la sua eloquenza meravigliosa, conquistatrice, coi clamorosi e reali successi delle opere di lui, con la probità di tutta la sua vita.

Non ostante tutti questi titoli, che gli avrebbero dato diritto non solo alla stima e all’ammirazione, ma anche all’amore, alla devozione e degli studiosi e dei coscienti e dei dotti, e anche delle moltitudini, egli, invece, ebbe sempre, è vero, grandissimo numero di estimatori e di ammiratori, ma sempre scarso di devoti che lo amassero, a cui egli inspirasse quella calda e viva simpatia, che pure ha circondato uomini suoi contemporanei, per meriti reali inferiori a lui. Cosi esso non fu mai, nè a Bologna, nè in Svizzera, nè in Francia, nè a Roma, beneviso e accetto alle moltitudini. Anzi, al contrario, egli ci si manifesta, in tutta la sua vita, aggrovigliato, quando più, quando meno, in una rete di antipatie profonde, repulsive, le quali resero verso di lui o severi od ingiusti uomini nobilissimi e di grandissimo valore.

Mi sembrò che questo fatto così strano valesse la pena di essere studiato nelle sue riposte cagioni, le quali debbono pure esservi, se ogni effetto ha e debbe avere la sua causa generatrice.

E le cagioni mi parve che ci fossero e che fossero molteplici; le une interiori e derivanti dall’indole e dal carattere di Pellegrino Rossi; le altre esteriori e inerenti alle amicizie di lui, alla scuola filosofica e alla parte politica a cui appartenne.

Pellegrino Rossi - già lo accennai - era, per indole, altero e sdegnoso, pienamente conscio della sua superiorità [p. 34 modifica]intellettuale, altissimo estimatore di sè stesso, desideroso di gloria e, per ciò, ambizioso di eccellere e, per conseguenza logica, schifava il volgo e aspirava a penetrare e a sollevarsi nelle file dell’aristocrazia dell’ingegno e delle opere; tanto più che, a separarsi dal volgo e a salire in alto, lo spingevano tendenze aristocratiche naturali ed istintive, e delle quali tanti segni evidenti occorrono nelle vicende della sua vita. A contrapposto di questa sovrabbondanza d’alterezza, che spesso degenerava in manifesto orgoglio. Pellegrino Rossi, che fu pur sempre uomo di grande integrità e di probità indiscutibile e indiscussa, ebbe manchevolezza di affettività e, per quel suo fare chiuso ed altezzoso e per quella impassibile durezza di fisonomia, anche minore espansività ed affabilità; onde a lui vennero meno quei due potenti mezzi che hanno gli uomini per accattivarsi la benevolenza e la simpatia della gente. Per il che si fece generale l’opinione che Pellegrino Rossi fosse duro, insensibile, egoista; opinione la quale si rispecchia anche negli scritti più benevoli che lo riguardano.

Lo Cherbuliez, che è così caldo e deciso ammiratore dell’illustre carrarese, dopo avere affermato più volte che «Pellegrino Rossi era naturalmente disdegnoso, caustico, frondeur, originale nelle sue minime azioni», soggiunge «che aveva diritto di esserlo, perchè si sentiva alto, era in alto e guardava dall’alto44.

«Forse, per dir tutto, il Rossi contribui egli stesso a richiamare l’impopolarità sulla sua testa, con le arie di arroganza e di sdegno troppo poco dissimulate verso avversari che disprezzava. Quest’uomo, pur così sagace, non aveva nella sua persona niente di quell’affabilità e di quella bonomia che dovevano in appresso contribuire alla potenza e alla popolarità del conte di Cavour. Egli imponeva, non attraeva»45.

Un altro suo autorevole e amoroso biografo, dopo avere parlato della giovinezza e dei primi passi scientifici e politici del Rossi, nota che egli era «tipo più curioso ancora di uomo, a volta a volta entusiasta e freddo, audace e sensato, [p. 35 modifica]appassionato e ironicamente sprezzante» e, dopo messo in rilievo «l’ironia sdegnosa» che dominava in tutta la memoria apologetica dal Rossi dettata a Genthod, «ironia sdegnosa», soggiunge il biografo, «che fu sempre una delle caratteristiche di questo singolare personaggio», a proposito delle fiere lotte da esso sostenute, accenna «alla potenza di questa strana natura, in cui la passione si nascondeva sotto la freddezza esteriore ed il disprezzo»46.

«Che il Rossi fosse liberale» - scriveva lo Cherbuliez - «nel migliore senso della parola, fa appena bisogno di dire. Egli detestava l’arbitrio e l’oppressione: ma noi crediamo di non ingannarci, aggiungendo che l’oppressione della moltitudine a lui fosse stata odiosa più di ogni altra». E, dopo aver dimostrato come egli fosse liberale aristocratico, soggiungeva che «egli apparteneva a quella famiglia di oratori che i loro istinti e la coltura acquisita rendono inadatti alla demagogia, incapaci di simpatizzare con una moltitudine ignorante e di servirle di organo, ostili, per conseguenza, ai principi della democrazia, o almeno alle loro più logiche applicazioni»47.

Il Guizot, grande amico, estimatore ed ammiratore del Rossi e il quale in più luoghi delle sue voluminose memorie altamente loda l’insigne carrarese, riconosceva, pur nondimeno, che «egli era in fondo pieno di passione e d’autorità: ma esse non si manifestavano di primo tratto, nè con quello scatto e con quella energia esteriore che qualche volta dominano i tumulti parlamentari e popolari. Di una apparenza fredda, lenta e disdegnosa, egli esercitava più influenza sugli individui che sulle moltitudini e sapeva meglio piacere e vincere a solo a solo, che in mezzo ai torbidi e alle peripezie della folla riunita in assemblea o in sommossa»48.

Uno storico fanaticamente papalino e perciò subiettivo e passionato nei giudizi ed esageratore dei fatti, ma pure efficace scrittore e che aveva conosciuto da vicino il Rossi, di cui era ammiratore, così lo descrive: «Di statura alta, dignitoso [p. 36 modifica]piuttosto che elegante, Pellegrino Rossi era nel fisico come nel morale rigido e bilioso. Pieno di spirito, dotato di squisitezza di senso e di rara penetrazione, conoscendo tutte le fibre del cuore umano, la freddezza del suo sorriso, l’ironia del suo sguardo, il disdegno del suo gesto gli avevano procurato tanti nemici quanti l’altezza della sua fortuna politica. Di intelligenza sottile e forte, di carattere appassionato, padrone di sè stesso, di una finezza che nondimeno escludeva l’ipocrisia, improvvisatore conciso, oratore affascinante, egli attraeva con la poesia della sua parola e persuadeva pel vigore della sua argomentazione». E, dopo avere parlato delle sue qualità di uomo di stato ed avere affermato che, a Roma, nel 1846, egli era tornato alla religione, soggiunge: «Modesto e semplice di cuore nei suoi rapporti con Dio tanto, quanto era fiero e superbo nelle sue relazioni con gli uomini, egli amava isolarsi nella preghiera, confondersi in mezzo alla folla, la domenica, per assistere oscuramente nascosto, per così dire, nell’ombra della chiesa, ai misteri del sacrificio divino»49.

Un altro storico, ugualmente devoto alla causa del papa, dopo avere parlato di tutte le belle e rare doti di Pellegrino Rossi, soggiungeva; «Senonchè, volendo essere imparziali, diremo che mancavagli per natura l’amabilità del tratto. Non già che egli non sapesse usare dell’amabilità a tempo e luogo, ma per progetto e per necessità di posizione, più o meno piegandola secondo l’esigenze della diplomazia. Vi si vedeva insomma quel non so che di calcolato e fittizio, ma non naturale e spontaneo. Era duro, orgoglioso, taciturno. Sentiva troppo di sè e mal sapeva dissimularlo. Non era espansivo e non incoraggiava gli altri ad esserlo con lui. Era insomma quasi generalmente impopolare e antipatico: e questa non è piccola cosa»50.

Il Minghetti, altro estimatore e laudatore del Rossi, favellando dei giorni in cui egli lo avvicinava, nel 1844, a Parigi, afferma che «in lui gli pareva scorgere una mente dirittissima [p. 37 modifica]e insieme una vastissima cultura». E soggiunge: «La sua faccia esprimeva l’ingegno e la meditazione, però i tratti ne erano severi, anzi duri. Ho notato poi quanta singolarità (sic) v’era fra lui e lo scultore Tenerani, entrambi nati a Carrara, molte somiglianze nei lineamenti, se non che gli uni esprimevano orgoglio, gli altri dolcezza». E nota poi che aveva «natura poco affettuosa e che gli emigrati italiani se ne lamentavano perchè non li proteggeva», sebbene cerchi poi di rilevare che fra gli emigrati, se v’erano elettissimi spiriti, v’era pure la feccia51. E, in un altro luogo, racconta avergli il Bertinatti narrato «come Pellegrino Rossi, avendo udito una sera a Roma queste medesime sentenze» - cioè discorsi sulla tenerezza delle corporazioni religiose pei beni temporali - «come pensieri reconditi, sorridendo e volgendosi al Bertinatti gli avesse detto: “Nous avons dit cela il y a quarante ans, n’est-ce pas?”». E il Minghetti osserva, a modo di conclusione: «motto che dipinge assai bene il carattere altero ed ironico del Rossi»52.

Che, del resto. Pellegrino Rossi fosse destro, avveduto, calcolatore e che si servisse degli uomini ad agevolare a se stesso il conseguimento dei propri disegni, parecchi dei suoi ammiratori l’hanno affermato. «Dotato di un senso squisito e di una rara destrezza, pieno d’ingegno, con un esteso sapere; scaltro senza falsità; estremamente giudizioso; riservato ed ardito secondo le occasioni, abile a convincere gli uomini sapendoli condurre senza comandarli, desiderando di giovare loro e di giovarsene», scrisse il Mignet, il quale rilevò che la «natura doviziosa di lui non era senza difetto, che si mostrava freddo quando non fosse interessato e che appariva disdegnoso allorché diveniva indifferente»53.

Dalla narrazione documentata del professore Colmet-Daage, suo supplente alla cattedra di diritto costituzionale, appare come Pellegrino Rossi continuasse a percepire la metà dei suoi onorari di professore anche nel 1845, allorché era incaricato di affari a Roma, cumulando, così, gli stipendi e come pretendesse [p. 38 modifica]di cumularli anche dopo che era stato nominato ambasciatore. Su quel fatto anormale del cumulo degli stipendi il ministro dell’istruzione Salvandy consultò la Facoltà della scuola di diritto e il Consiglio superiore dell’istruzione pubblica, che rifiutarono ambedue di pronunciarsi in proposito: onde il ministro scrisse al Rossi, il quale rispose una lunga lettera, in cui lodava il suo supplente, domandava che esso fosse nominato professore aggiunto, ma sulla questione del cumulo degli stipendi non diceva una parola. Quindi, nel giugno del 1846, M. Royer-Collard, decano della Facoltà, cancellò di sua autorità dalla lista degli esaminatori il Rossi, «il quale fu profondamente ferito da questa misura e, durante un viaggio fatto a Parigi, io mi ricordo» scrive il Colmet-Daage - «con quale accento di collera, direi pure di odio, egli mi disse, afferrandomi il braccio: “M. Royer-Collard m’a òté mes droits d’examens: il ne les porterà pas au Paradis»54.

«Il suo spirito, implacabile nei supremi disdegni di un orgoglio, giustificato da un grande ingegno, il suo spirito brillava a spese del suo cuore. Personificazione dell’ambizione, egli andava dove il suo interesse lo spingeva, senza preoccuparsi degli altri, che egli ricopriva di uno dei suoi sguardi di acciaio, e che il suo sorriso sarcastico compensava di un servizio reso»55.

Dopo avere discorso, forse con soverchia severità in alcuni punti, dell’ingegno, dell’opera, della vita di Pellegrino Rossi e lodatolo e biasimatolo secondo la sua opinione, l’illustre Anatole de la Forge, messo in rilievo l’utilitarismo calcolatore del Carrarese, nota di debolezza la sua vanità di voler essere nominato conte e afferma «che egli dovette rassegnarsi a vincere a forza di pazienza, di abilità e di spirito le antipatie che egli aveva fatto nascere in Italia a forza di sprezzo, di calcolo e d’ambizione», e constatata la impopolarità che segui lui fino alla tomba, si domanda: «è questa una ingiustizia? è un decreto provvidenziale? No: è un istinto infallibile che guida i popoli a non amare che quelli che veramente li amano. L’uomo politico di cui si [p. 39 modifica]tratta (il Rossi) aveva apportato dell’ingegno in tutti i suoi atti, ma non aveva messo del cuore in alcuno»56.

Ma se in Pellegrino Rossi esistevano qualità e difetti di carattere che respingevano molti da lui, se la natura, l’educazione e un soverchio orgoglio lo avevano fatto manchevole di quelle doti con cui si attrae l’altrui benevolenza, se, per ciò, egli cominciò ad avere in Ginevra non pochi nemici, molti di più gliene procacciava l’invidia di vederlo salire in tanto credito e in tanta fama, e molti ancora gliene venivano addosso a cagione della sua amicizia con parecchi dei più illustri uomini della un po’ scuola, un po’ setta francese, detta dei dottrinari, verso le cui opinioni e teorie egli veniva dimostrando una sempre crescente simpatia.

Il Guizot, che può considerarsi come il gran pontefice o, almeno, come l’apostolo di quella scuola, esamina a lungo le origini e le ragioni di questo partito, piccolo di numero, autorevole per gli uomini che lo componevano e afferma, che fra gli eccessi a cui aveva condotto la rivoluzione e quelli a cui voleva condurre la reazione «i dottrinari, opponendo principi a principi, facendo appello non solo all’esperienza, ma alla ragione altresì, domandavano alla Francia non già di confessare che essa non aveva fatto che male, nè di dichiararsi impotente al bene, ma di uscire dal caos in cui ella si era gettata e di rialzare la testa verso il cielo per ritrovarvi la luce». E aggiunge, poco dopo, che «fu a questa mescolanza di elevatezza filosofica e di moderazione politica, a questo ragionevole rispetto dei diversi diritti e fatti, a queste dottrine al tempo stesso nuove e conservatrici, antirivoluzionarie senza essere regressive, e modeste, in [p. 40 modifica]fondo, quantunque sovente altere nel loro linguaggio, che i dottrinari dovettero la loro importanza e il loro nome»57.

Ma, checché ne dica il Guizot, checchè ne affermi lo Cherbuliez, che, con calore, imprende a difendere questa scuola58, la quale il Mazzini crede «battezzata dal popolo dottrinaria, per l’assenza di una vera dottrina»59, non è men vero che i seguaci di questa scuola, i Guizot, i Dupin, gli Odillon Barrot, i Barante, i Royer-Collard, il De Broglie, i Cousin, i Villemain, eclettici in filosofia, sistematici in storia, moderati in politica, alla conclusione, riuscirono a tutto un metodo di preconcette dottrine a cui si volevano, con espedienti conciliativi, e in filosofia, e in sociologia, e nella vita pubblica, piegati e adattati i governi e le nazioni, con frequente oblio dell’indole, del carattere, delle tradizioni, degli interessi stessi dei popoli, «quasi che potesse esistere moderazione nella scelta fra il bene e il male, il vero e l’errore, l’innoltrare e il retrocedere»60.

Cosi dunque quella scuola di uomini, i quali pretendevano di conoscere essi soli la scienza dei pubblici reggimenti e l’arte di governare i popoli, venne presto in uggia, in mezzo alFEuropa civile, e il malumore contro le dottrine si riverberò su coloro che le professavano.

Per tutte queste ragioni, adunque, Pellegrino Rossi cominciava, fino da allora, a trovarsi circondato di diffidenze e di sospetti61 che ne diminuivano il prestigio e la benevolenza in quella stessa Ginevra, che fu pure la città ove egli godesse di maggior favore e di maggior simpatia, proprio nel 1830, quando, per le giornate di luglio, era precipitato dal trono Carlo X di Borbone e vi saliva, sullo sgabello di una liberale costituzione, Luigi Filippo d’Orléans, il re cittadino.

Questa rivoluzione, che, agli occhi di tutti gli oppressi dal Trattato di Vienna del 1815 e da quello della Santa Alleanza, rimetteva la nazione francese alla testa del liberalismo europeo, suscitò in quegli oppressi la più profonda fiducia e le più [p. 41 modifica]esagerate speranze, tanto più esagerate quanto più lunghe erano state le loro sofferenze, quanto più ampie ed ardenti erano le loro compresse aspirazioni.

A tutti è noto come da quella rivoluzione scaturissero i rivolgimenti del Belgio, della Polonia e quelli d’Italia del 1831. La Santa Alleanza aveva riordinata l’Europa, senza occuparsi menomamente delle tradizioni, degli interessi, dei desideri dei popoli; e i popoli, ora che la Francia risollevava il vessillo caduto di mano al vinto di Waterloo nel 1815, confidando nelle magniloquenti fanfaronate dei ministri di Luigi Filippo, insorgevano per far valere i loro conculcati diritti.

Fra le nazioni, i cui interessi più fossero stati manomessi dalla Santa Alleanza, si trovava, come già dissi, anche la Svizzera, sulle cui popolazioni incombeva, come plumbea insopportabile cappa, il patto impostole nel 1815 dalla lunga Dieta di Zurigo, sotto l’influenza e la pressione dei despoti russo, austriaco e prussiano.

Ho già accennato agli effetti di quella perniciosa costituzione, la quale, anzichè fare un tutto armonico ed organico delle ventidue repubbliche, le manteneva slegate, ostili fra loro e impotenti allo svolgimento dell’attività economica e della vita nazionale.

«Nel mese di dicembre, quindi, del 1830, la rivoluzione scoppiò in parecchi dei cantoni più importanti. Dovunque le oligarchie o aristocrazie che si erano imposte nel 1815, sotto la protezione del Congresso di Vienna, dovettero far posto a governi democratici»62. Causa principale di questi rivolgimenti era il fanatismo cattolico; giacchè, in quei quindici anni corsi dal 1815 al 1830, sotto l’impero del vecchio feudalismo repubblicano e borghese, l’Ordine dei Gesuiti aveva svolto una grande attività in tutti i cantoni ove fossero cattolici e specialmente in quelli ove questi prevalevano e, con la solita intolleranza, feroce istinto di quella congrega assorbente e dominatrice, aveva spinto a tal segno l’ultramontanismo - la parola è brutta, ma non l’ho inventata io - che «in quei cantoni i protestanti erano tollerati appena e, nella stessa Lucerna, sede del nunzio pontificio, essi erano perseguitati»63.

[p. 42 modifica]Il 15 maggio del 1831 la Dieta del cantone di Turgovia mandò fuori il primo voto per la revisione parziale del patto federale del 1815. Il movimento si propagò nei cantoni più democratici, onde nel settembre di quello stesso anno, sotto la direzione del dottor Casimiro Pfiffer, fu iniziata, a Lagenthal, la riunione dei rappresentanti dei sette cantoni più liberali che erano Argovia, Basilea campagna, Berna, Lucerna, San Gallo, Soletta e Turgovia, a fine di avvisare ai mezzi di ottenere la revisione parziale della costituzione federale del 1815, perchè era evidente «che l’antico patto mal si adattava al nuovo ordine di cose e che le democrazie del 1830 e 1831 non potevano portare senza disagio il manto federale degli aristocratici del 1815»64.

Ma l’articolo sesto della costituzione proibiva ai cantoni «di stringere fra loro alleanze pregiudizievoli al patto federale e ai diritti degli altri cantoni». Perciò i cantoni ove prevalevano ancora gli elementi reazionari e cattolici, e cioè Basilea città, Neufchátel, Schwitz, Uri e Unterwaldeu, inviarono i loro rappresentanti a Sarnen, ove essi costituirono la lega che, da quel luogo, ebbe il nome e donde poi ebbe origine la lega separata o Sonderbund. I rappresentanti di quei cantoni protestavano contro la lega e il concordato dei sette cantoni liberali di Lagenthal e contro la revisione parziale della costituzione da quelli richiesta. I rappresentanti della lega di Sarnen si fondavano sull’articolo sesto del patto federale dei 1815 per domandare lo scioglimento della lega dei sette cantoni, ma i deputati di questa rispondevano che l’articolo sesto non era applicabile a loro, i quali erano addivenuti a quel concordato, non a pregiudizio del patto federale ma a vantaggio della confederazione, non per offendere, ma per difendere i diritti degli altri cantoni65.

Così, oltre le discordie intestine sorte in quasi tutti i cantoni, una guerra civile fra le due leghe di Lagenthal e di Sarnen stava per scoppiare nella Svizzera.

Ma, intanto, fra quelle due leghe improvvisamente sorte e aspramente contendenti fra di loro, restavano in atteggiamento di mediatori e pacificatori, i cantoni di Friburgo, Ginevra, Glaris, [p. 43 modifica]Grigioni, Sciaffusa, Vaud e Zug, i quali pure riformavano tutti, in modo più o meno liberale, le loro interne costituzioni. Il movimento per la revisione parziale era divenuto così poderoso che l’Alta Dieta, con deliberazione del 17 luglio 1832, adottata a grande maggioranza di voti, ordinava la riunione di una Costituente per la revisione parziale del patto federale del 1815, salva l’approvazione dei cantoni.

Quale era in quel momento così grave per la Svizzera l’atteggiamento di Pellegrino Rossi?...

Seguace delle opinioni liberali, ormai antiche in lui, col lume della grande sua dottrina, guidato dall’analisi della sua fredda ragione e dominando qualsiasi inspirazione del cuore, egli procacciava di moderare le pretensioni troppo radicali dei democratici e di sospingere a concessioni ragionevoli i recalcitranti conservatori e, col solito eclettismo conciliatore, cercava di mettere in atto anche questa volta la politica del juste milieu. Quindi, insieme con Hubert Saladin e con altri liberali moderati ginevrini, fondava un giornale, Il Federale, che fu pubblicato dal 1832 al 1833 e di cui egli ebbe la direzione, che richiedeva da lui molte cure e non lievi fatiche e che non gli fruttava che duemila lire all’anno66.

E in questo foglio pubblicava notevolissimi articoli nei quali o eccitava la gioventù ginevrina a uscire dal torpore e dalla neghittosità a cui la traevano il benessere e l’agiatezza di che fruiva la cittadinanza, o rilevava gli indizi e i fatti onde si intravvedeva come la Svizzera si andasse trasformando, o, riconoscendo che la repubblica elvetica era travagliata da non poche infermità, affermava che era una nazione attaccata da un male guaribile67. E nel medesimo tempo, con l’usata sua attività, svolgeva dalla cattedra un corso libero di storia svizzera, col nobile intento di richiamare i suoi ascoltatori alle belle e buone tradizioni dell’elvetica indipendenza e libertà.

E siccome il Rossi, non ostante le sorde inimicizie che andavano serpeggiando contro di lui, era ancora il primo e più illustre cittadino di Ginevra, così egli fu eletto a deputato alla Dieta di Lucerna per la compilazione del nuovo patto federale.

[p. 44 modifica]«Ecco adunque questo straniero, recente cittadino di un cantone», scrive Hubert Saladin, «diventato il legislatore della Svizzera. Il Rossi esercita nella Dieta di Lucerna le stesse seduzioni che nel Consiglio rappresentativo di Ginevra. La Dieta lo nomina membro della Commissione incaricata di rivedere il patto federale, e la Commissione lo sceglie a suo relatore. Egli compila il nuovo disegno di patto federale in centoventi articoli, destinati a ricostituire la Svizzera, perfezionandovi l’autorità comune senza ledere le sovranità particolari»68.

La tendenza naturale, istintiva che era nell’indole stessa dell’alto ingegno di Pellegrino Rossi, la tendenza all’eclettismo conciliatore questa volta si imponeva a lui, non relatore soltanto, ma anima della Commissione di quindici membri incaricata di compilare il nuovo patto federale - il quale, nella storia, da lui prende il nome di patto Rossi - questa volta trovava un campo adatto al proprio svolgimento, perchè alla Commissione e al relatore si presentava inesorabile la necessità di trovare un punto di riunione e di conciliazione fra due principi, fra due interessi, fra due correnti diametralmente opposte fra di loro: accrescere la potenza dell’autorità centrale senza ledere gli interessi, le tradizioni, i pregiudizi delle gelose e ritrose autonomie cantonali: senza retorica si può dire che la risoluzione di un tale problema equivaleva alla scoperta della quadratura del circolo, giacché l’aumento della sovranità centrale della confederazione non si poteva ottenere che con la diminuzione della sovranità cantonale69; «si trattava di conciliare i principi con la storia»70.

In mezzo alle più vive discussioni dell’opinione pubblica, fra i fieri dibattiti del giornalismo, fra le proposte più divergenti e i suggerimenti più contradditori, la Commissione imprese la perigliosa sua navigazione in questo mare infido e spumoso, tutto irto di vortici e di scogli; e, sotto la guida di un nocchiero duttile, sottile, antiveggente, abilissimo quale si affermò Pellegrino Rossi, giunse quasi alla riva col nuovo disegno di patto federale, composto di centoventi articoli e accompagnato [p. 45 modifica]dalla relazione dell’illustre carrarese, la quale è un vero capolavoro di finezza, di chiarezza e d’eleganza.

Il legislatore, in nome dell’onore, della sicurezza, della potenza e della prosperità della Svizzera, patria comune, domandava ai cantoni che abdicassero una parte della loro sovranità a beneficio, sostegno e consolidamento dell’autorità centrale, affinché la sovranità della Dieta si rafforzasse a vantaggio di tutta la confederazione.

Il potere centrale sarebbe stato costituito dalla Dieta federale, composta di quarantaquattro deputati, nominati due per cantone. La Dieta eleggerebbe quattro consiglieri federali i quali, presieduti dal Landman della Svizzera, eletto dalle magistrature cantonali, formerebbero il potere esecutivo della repubblica svizzera.

La Dieta sarebbe il potere supremo e deliberante e avrebbe il diritto di pace, di guerra, di stringere trattati politici e commerciali, presiederebbe all’esercito, all’istruzione, legifererebbe, nominerebbe gli ufficiali federali civili e militari, gli agenti diplomatici, li porrebbe in accusa, ove occorresse, e li giudicherebbe.

I quattro consiglieri federali del potere esecutivo sarebbero preposti, sotto la presidenza del Landman, ai quattro dipartimenti in cui si dividerebbero tutti gli affari federali, estero, interno, milizia e finanza. Esisterebbe un potere giudiziario federale, assolutamente indipendente dal potere deliberante e dall’esecutivo; esso sarebbe composto di una Corte federale che giudicherebbe dei delitti di alto tradimento, dei reati commessi dagli ufficiali pubblici federali, posti in accusa dalla Dieta, le violenze, le ribellioni contro le autorità federali e i crimini militari. In materia civile la Corte federale giudicherebbe le contestazioni fra cantone e cantone, fra un cantone e il Consiglio federale, quando la questione fosse ad essa rinviata dalla Dieta.

I nove giudici e i quattro supplenti della Corte federale sarebbero eletti dalla Dieta per sei anni, salvo il diritto di riconferma, sopra una lista presentata dalle magistrature cantonali.

«La Dieta della confederazione, il Landman, il Consiglio federale, la Corte di giustizia, la Cancelleria non erano più - secondo il disegno del nuovo patto federale - erranti ad ogni tre anni di paese in paese, ma avevano sempre la loro sede nel [p. 46 modifica]centro della Svizzera, sulle rive del lago dei Quattro cantoni primitivi, ai piedi di quelle montagne donde usci l’elvetica indipendenza: non lungi dal Gratili dove i suoi immortali fondatori ravevano giurata; a vista di Morgaiten dove eroici soldati l’avevano conquistata: presso il Brunel dove i primi legislatori ravevano consacrata con un patto perpetuo; nella città federale di Lucerna, di faccia alla cappella di Guglielmo Tell»71.

E perchè la nuova costituzione potesse essere sperimentata utilmente, un articolo del nuovo patto impegnava le autorità cantonali a non usare, per dodici anni, del diritto di revisione.

Date le difficoltà, quasi insuperabili, in mezzo alle quali il disegno del patto Rossi era stato compilato - e fu sottoscritto dalla Commissione il 15 dicembre 1832 - esso fu giudicato da quasi tutti gli scrittori che se ne occuparono quale opera abile, sapiente, patriottica. E realmente quel disegno di costituzione era tale: esso era tutto ciò che di meglio, in quelle circostanze, fra quelle lotte, in quell’ambiente, si potesse fare, era tutto quanto di più opportuno si potesse tentare per conciliare quegli opposti principi e quei contrari interessi72.

Credo però di non far cosa sgradita ai lettori e, ad ogni modo, di adempiere ad un dovere mio, riferendo la conclusione della relazione di Pellegrino Rossi, perchè oltre al riassumere i concetti onde era stata guidata la Commissione nel preparare il nuovo patto federale, oltre al riepilogare, con grande efficacia, tutti gli aspri ostacoli che essa aveva incontrato per via, [p. 47 modifica]mi sembra una pagina stupenda per l’abilità delle argomentazioni e pel calore dell’eloquenza.

Signori, qui termina il nostro lavoro. Esso lascierà ai commissari ricordi incancellabili per la franchezza e benevolenza delle nostre discussioni, per il rispetto che tutti i pareri hanno trovato fra di noi. Le opinioni diverse hanno fatto gli sforzi più sinceri per giungere al bene e alla verità. Lo spirito di concessione ha regnato fra noi; ma esso non è stato il risultato della servilità dogli uni o della violenza degli altri. Il vivo sentimento delle sciagure della patria comune ci ha animato. Noi sentivamo la necessità di scoprire il terreno su cui tutti gli Svizzeri si potessero riunire a lavorare all’opera di questo edilizio nazionale, che è urgente di elevare e di consolidare. Noi abbiamo posto nell’opera nostra tutta l’attenzione onde eravamo capaci. Noi l’abbiamo sottoposta alla prova di tre deliberazioni diverse, di tre diversi dibattiti. La discussione è stata libera. Noi non l’abbiamo sottomessa ad altre regole che a quelle che erano proprie a conferire ad essa più serietà, vivacità e chiarezza.

Senza dubbio non tutti gli articoli del progetto hanno riunito l’unanimità dei suffragi. Quale è la deliberazione di un lungo progetto sopra argomento così spinoso in cui possa verificarsi un siffatto fenomeno? Se esso fosse avvenuto, la deliberazione non dovrebbe inspirarvi punto fiducia: essa non sarebbe prova che di leggerezza, d’inconscienza e di incapacità.

Ma alcuni dissensi non ci hanno impedito di essere unanimi sui fondamenti, unanimi sui risultati e nell’insieme. Non v’è alcuno fra noi che non abbia l’intimo convincimento che il progetto che abbiamo l’onore di sottoporvi fonderá, se accolto dai vostri suffragi, una nuova èra per la Svizzera, un’èra di libertà, di paco e di prosperità. Noi l’abbiamo detto nella nostra finale dichiarazione: all’unanimità raccomandiamo questo progetto ai cantoni.

Certamente noi non abbiamo l’orgoglio di pretendere che esso non possa essere migliorato.

La prossima Dieta potrà profittare dei vostri lumi ed essere rischiarata dai vostri consigli. Ma noi siamo nel tempo stesso profondamente persuasi che v’ha pericolo nella dilazione, che importa non soffermarsi troppo sui particolari e non accapigliarsi sopra tale o tale altra questione speciale: che è l’insieme che bisogna adottare; che bisogna affrettarsi a fondare la nuova alleanza.

Signori, vi è forse della vanità a citarvi il nostro stesso esempio. Ma, in presenza delle gravi condizioni in cui si trova la patria, si può arrestarsi a scrupoli personali? SI, o signori, debba pure taluno accusarci di vanità, noi osiamo citarvi il nostro esempio. Noi pure avevamo idee e desideri! discordanti, noi ne abbiamo fatto il sacrificio coscienzioso e maturamente ponderato, sull’altare della patria, il giorno 15 dicembre, in cui, non senza profonda emozione, noi abbiamo apposta la nostra firma al progetto della nuova alleanza, alla dichiarazione, alla raccomandazione che r accompagnano. Possa il medesimo risultato essere ottenuto nei vostri Consigli e in seno alla Dieta.

Svizzeri, cittadini dei ventidue cantoni, il nostro edificio politico è profondamente minato; esso minaccia mina da tutte le parti; a nome della patria, a nome dei vostri figli, affrettatevi ad elevare un nuovo edificio.

[p. 48 modifica]

A nome della patria accorrete tutti all’opera.

Chi è tra vol.che, per qualche dissenso parziale, o per vane dispute sulle formalità, piuttosto che transigrere coi vostri fratelli, preferirebbe seppellirsi con essi sotto i frantumi della Svizzera?

Voi, che siete animati dallo spirito del tempo in tutto il suo ardore, moderate il vostro fuoco, rallentate il passo: un movimento precipitato dilanierà la patria: la Svizzera non sarà più.

Voi, che obbedite ancora allo spirito dei vostri padri e che sembrate incatenati da antiche tradizioni, a nome del pacificatore della Svizzera, del sant’uomo la cui immag’ine orna le vostre case e i vostri templi, levatevi, levatevi e consentite ad avanzare. Resistendo ai voti dei vostri fratelli, voi dilaniate la patria e la Svizzera non sarà più.

Sciagura a quelli che la storia inesorabile accuserà della rovina della Svizzera. Sciagura al loro nome! La loro posterità sarà disonorata!

Svizzeri dei ventidue cantoni, ecco il momento solenne in cui voi potete mostrare al mondo che vi osserva che la vostra rigenerazione politica può essere opera vostra.

Volete voi stessi ricostituire il paese? Volete voi imprimere all’alleanza federale il carattere nazionale, il carattere svizzero, unicamente svizzero, non altro che svizzero?

O volete voi che lo straniero, gettando su noi uno sguardo sdegnoso, gridi: gli Svizzeri, gli uni vecchi incorreggibili, gli altri giovani indisciplinati, possono tutto mandar sossopra: essi sono impotenti a riedificare: il 1803, il 1815 ce lo attestano; il 1833 ce lo conferma.

Svizzeri, che volete voi l’unione o lo scisma, l’onore o la vergogna, il rispetto dell’Europa o il suo disprezzo?

L’opzione s’impone: essa non ammette dilazione.

Dio, la patria, l’onor nazionale vi inspirino!

La patria vi chiama alla Dieta di Zurigo; ella attende parole di pace e di conciliazione, suffragi unanimi.

Voi risponderete a questa chiamata, ed essa intenderà le vostre parole, trasalirà di gioia, sgombrerà i suoi timori, essa risorgerà bella, ringiovanita, fiera dei propri figli. L’anno 1833 sarà l’anno santo, l’anno solenne e storico della Svizzera moderna.

Che essa apprenda senza ritardo queste parole di pace, questi suffragi di fratelli, che l’eco se ne possa propagare nell’istante medesimo. Le porte della Dieta di Zurigo siano aperte: ordinatelo nei vostri mandati. Ecco l’ultimo voto che noi osiamo sottoporvi73.


«Quel progetto - scrive lo Cherbuliez - accompagnato da una relazione nella quale erano abilmente esposte le idee principali ed i motivi, vinse dapprima molta opposizione ed [p. 49 modifica]affascinò molte persone anche illuminate. Si accordò fede alla sincerità di codesto bisogno d’accentramento così altamente espresso dai grandi cantoni, e si credette un momento alla possibilità di soddisfarlo. Da parte di persone illuminate fu un’onesta, ma inconcepibile illusione ben presto distrutta dai fatti. I Gran Consigli chiamati a pronunciarsi in proposito formularono innumerevoli emendamenti, che la Dieta, riunita l’anno seguente a Zurigo, ebbe ad esaminare, discutere e possibilmente conciliare; opera di transazione, di minuzioso rilievo di particolari, nella quale il progetto doveva perdere la sola qualità che lo raccomandava, la coerenza, la simmetria logica delle varie sue parti.

Perciò invano la Dieta straordinaria, convocata nell’anno stesso, approvò sotto riserva di ratifica il nuovo lavoro, ed i Gran Consigli lo ratificarono non ostante le loro ripugnanze: il popolo di Lucerna lo respinse e la defezione si fece man mano così generale che gli autori ed i partigiani del progetto di Lucerna compresero che una nuova elaborazione su quella base non avrebbe avuto alcuna probabilità di riuscita»74.

«Ogni opinione politica-osserva giustamente il Pierantoni — ebbe il suo speciale voto negativo. l’immobilità aristocratica vi giudicò troppo accentrato il potere; i radicali, invece, credettero che si fosse usato soverchio riguardo alla sovranità cantonale e dimenticato ogni culto all’idea nazionale o di patria comune; il puritanismo protestante vi ravvisò poco curato il principio religioso, il clero cattolico lo diceva distruttore dello stesso cattolicismo, specialmente perchè nel patto non vi era stipulazione per garantire la proprietà dei conventi. La diplomazia di tutte le potenze, tranne la Francia, aveva usato artifiziosi maneggi per far rigettare quella Costituzione federale»75.

In sostanza e nella realtà delle cose il patto Rossi fu respinto per due ragioni, che appaiono chiare dal complesso dei fatti. La prima di esse risulta evidentemente dalla stessa relazione di Pellegrino Rossi. Pur riconoscendo le manifeste tendenze di una parte del popolo svizzero ad una maggiore coesione ed affermazione della sovranità nazionale, il Rossi, nel [p. 50 modifica]suo rapporto, era costretto a confessare «che non si può davvero disconoscere, senza abbandonarsi a vane illusioni, che l’idea della sovranità cantonale è, nel paese, l’idea dominante»76.

Dalla quale verità effettuale delle cose scaturiva un’altra indiscutibile verità, che l’ambiente e le coscienze non erano preparate alla riforma, la quale non era matura.

L’altra ragione si è che, appunto perchè la Commissione per la revisione e il Rossi suo relatore erano pienamente convinti di questa vera condizione di cose, essi si vollero maneggiare fra quelle opposte tendenze e contrari desiderii a contentare tutti e il Rossi specialmente volle applicare il suo eclettismo conciliatore e l’una e l’altro finirono per non contentare nessuno.

Inutili quindi sono le ipotesi, i se e i ma di parecchi fra gli scrittori citati77: il patto Rossi fu respinto, perchè in quelle condizioni delle coscienze e dell’ambiente, non poteva e — per [p. 51 modifica]la legge logica che governa i fatti della storia — non doveva essere approvato; e occorrevano, appunto, altri quindici anni di discussioni e di dispute, altri quindici anni di fatti, di inconvenienti, di abusi perchè la necessità della revisione del patto federale si imponesse alla maggioranza del popolo svizzero. Andare a cercare che cosa sarebbe avvenuto se Alessandro, sottomessa l’Asia, si fosse rivolto verso l’occidente e avesse assalito Roma, o perdersi ad indagare quali conseguenze sarebbero derivate nella storia di Roma se Sesto Pompeo, alla pace di Miseno, firmata sulla sua nave ammiraglia, avesse gettato in mare Caio Ottavio e Marcant’Antonio, quando la legge logica che governa la storia chiaramente ci mostra le tante ragioni per cui il primo fatto non avvenne perchè non poteva assolutamente avvenire e ci prova che il secondo fatto - il quale poteva avvenire - non avrebbe in nulla cambiato il corso complessivo degli avvenimenti e che il dispotismo imperiale avrebbe retto ugualmente il mondo, e che solo il nome della gente dominatrice si sarebbe mutato da quello di gente Giulia in quello di gente Pompeia, il cercare e indagare queste ed altri simili cose potrà costituire, mi pare, un allettevole e sottile esercizio nell’arte degli indovinelli, ma non sarà opera di storico serio.

La reiezione del disegno del nuovo patto federale, accorò senza dubbio Pellegrino Rossi e per l’offesa fatta al suo amor proprio e per la diminuzione di prestigio e di autorità che ne derivava al suo nome e per l’accrescimento di ostilità e di inimicizie che quella sconfitta necessariamente produceva78.

E questo dolore veniva a opprimere Pellegrino Rossi proprio nel momento in cui le gravi spese a lui occorse per la lunga dimora a Lucerna ed altre iatture avvenute nella sua economia domestica avevano stremato le sue forze finanziarie, fino quasi all’esaurimento della dote della moglie e proprio nel momento in cui egli era malato79. [p. 52 modifica]Nell’intervallo fra la chiusura della Dieta di Lucerna e l’apertura di quella di Zurigo il Rossi, che era andato con una missione ufficiale a Parigi, accettò gli inviti fattigli precedentemente dal Guizot, e fino a li rifiutati, pel suo trasferimento in Francia. Il Guizot, divenuto ministro, gli aveva offerto la cattedra di economia politica, rimasta vacante al Collegio di Francia per la morte dell’illustre Giambattista Say.

Questa nomina fu fatta il 14 agosto 1833, sopra proposta presentata al ministro dai professori del Collegio di Francia e in concorrenza con Carlo Comte, il quale alla stessa cattedra era designato dai voti dell’Accademia di scienze politiche e morali80.

Allora Pellegrino Rossi, spontaneamente, si dimise da tutti i pubblici uffici di cui era investito in Svizzera «e che, come notò lo Cherbuliez, erano stati per lui una corvée gratuita, mezzo per diffondere e applicare le sue idee» e con la moglie e i figli, Alderano ed Edoardo, partì alla volta di Parigi.

A Ginevra, città da lungo tempo abituata ad accogliere fra i suoi cittadini numerosi profughi stranieri, alitava una specie di cosmopolitismo tollerante ed affettuoso verso gli stranieri e là Pellegrino Rossi, i lettori lo hanno veduto, s’era acquistato una benevolenza grande, una quasi popolarità - chè popolarità vera, per le ragioni discorse, egli non godè mai in alcun luogo ma, una benevolenza e una quasi popolarità che invano, più tardi, desidererebbe a Parigi ed a Roma.

Lo Cherbuliez abbonda, a questo punto, di melanconiche riflessioni. «Nato italiano», egli dice, parlando di Pellegrino Rossi nell’atto che questi abbandonava Ginevra, «esso è rimasto tale sino all’ultimo e sino alla punta delle unghie. I cittadini di Ginevra l’avevano accettato tale quale era, senza riserva, coi suoi andamenti esotici, il suo accento italiano e i capricci dell’uomo guastato dai buoni successi. Ma che dico io? noi avevamo fatto più che accettarlo! noi non lo avremmo voluto diversamente. Le sue stranezze ci piacevano: noi amavamo i suoi errori di lingua e di pronuncia, tutto. La sua figura esteriore ci pareva in armonia con il garbo del suo spirito e con le sue idee. [p. 53 modifica]Se ce lo avessero trasformato in un ginevrino puro sangue, ce lo avrebbero guastato: egli avrebbe perduto per noi la metà del suo valore e del suo prestigio»81.

Ed ora, invece? Egli andava in mezzo ad una grande nazione che «sopra ogni altra cosa si crede ricca d’uomini superiori e presso la quale lo straniero ammesso alla cittadinanza è reputato uno che riceve assai più che non dia». Esso è costretto a divenir francese di fatto, «l’assimilazione è di rigore: clausola questa che per essere sottintesa non è meno obbligatoria. Ma il Rossi aveva oltrepassata l’età in cui si cangia e si può cangiare; cosi, quantunque adottato e gradito fra l’eletta società francese, egli non lo sarebbe mai da una maggioranza della nazione. A Ginevra egli, come pubblicista, oratore, giureconsulto, uomo di stato, era il primo; in Francia egli sarebbe al livello, se non di sotto - almeno agli occhi del pubblico - di venti, forse di cinquanta celebrità»82.

Tutto ciò era vero e fu dimostrato più che mai vero dai fatti successivi; ma un concorso di circostanze, la reiezione del nuovo patto federale, la malattia, la povertà, l’abbattimento d’animo, l’ambizione, la grande e quasi smodata fiducia in sè stesso e nel proprio valore e, per conseguenza, le speranze vivissime di elevarsi a grande altezza in un grande paese, spinsero Pellegrino Rossi ad abbandonare la sua seconda patria e a cercarne una terza83. Egli ricominciava, a quarantasei anni di età, il faticoso cammino in traccia della fortuna e della grandezza; nuovo, straniero, povero, nel paese in cui andava, egli non portava con sè che la fama acquistatasi, l’energia conquistatrice e il patrimonio intellettuale.



Note

    Bentham, noi non esitiamo a porlo, come criminalista, fra i rappresentanti di questa scuola. E se ne giudichi». E lì, dopo aver riferito lunghi frammenti del Trattato di diritto penale del Rossi, e traendone conseguenze troppo ampie e troppo assolute, sì, è vero, ma, in parte, senza dubbio legittime e vere, conclude: «Il principio dell’utilità diviene così il primo e più grande principio di tutta la legislazione criminale». E lo Cherbuliez se ne allieta, perché egli è benthamista.

       E il Baudrillart (art. cit), dopo lungo discorso: «Quindi un sapiente accordo fra la giustizia e l’utilità sociale costituisce il carattere della vigorosa filosofia del diritto penale del Rossi». E il Duca de Broglie, in un articolo inserito nella Revue des Deux Mondes, nell’ultimo fascicolo dell’anno 1848, molto laudativo, naturalmente, del Rossi, scriveva: «C’era, in certo modo, sempre in lui l’uomo della scienza e l’uomo dell’arte, l’uomo che eccelleva nel risalire ai principi e l’uomo che riusciva meravigliosamente ad accomodarli alle abitudini, ai pregiudizi, alle debolezze, alle stesse vanità degli uomini». Un po’ troppo, in verità! Guai al povero Pellegrino Rossi, se le tinte di questo ritratto non le sapessimo caricate di soverchio da un coloritore irreflessivo ed esagerato! egli non più un 'eclettico conciliatore' sarebbe, ma un immorale Tartufo che trova toujours des accommodements avec le ciel. Il professore Pierantoni, con grande amore ed abilità (disc. cit.), difende da prima il Trattato di diritto penale del Rossi da parecchie critiche, che a lui sembrano infondate ed ingiuste. Egli rivendica quindi l’onore di Pellegrino Rossi dalle maligne insinuazioni di quel loiolesco vituperatore di quasi tutti i grandi italiani che fu Cesare Cantù, il quale ebbe fama usurpata di storico e fu libellista e calunniatore e non di rado, non ostante l’ingegno grandissimo e la vasta dottrina, non fu narratore della storia, ma, o per giudizi subiettivi ed appassionati, o per malvagità denigratrice dell’animo suo, fu della storia falsatore. Il qual giudizio sul Cantù non è mio soltanto - chè pronunciato da me, che valgo pochissimo, varrebbe nulla - ma è quello che hanno portato e portano ormai dello storico lombardo uomini insigni quali il De Sanctis, il Bertolini, il D’Ancona, il Carducci ed altri. Il professore Pierantoni poscia, a proposito del Trattato di diritto penale del Rossi, scriveva: «Il nostro Italiano, profondo conoscitore delle opere francesi e tedesche, proclamando l’alta filosofia, mosse dall’idea di provare la falsità, il carattere incompleto ed esclusivo delle due scuole di pubblicisti, volle dare ad entrambe un punto di riunione ed unico centro». Ho voluto riferire qui questi giudizi non solo per ciò che essi dicono intorno al Trattato di diritto penale del Rossi, ma anche perché essi sono la riprova e la giustificazione di ciò che io penso ed affermo intorno all'eclettismo conciliatore, impronta caratteristica della personalità di Pellegrino Rossi.

  1. Fr. Mignet, Portraits et notices historiques et littéraires, Paris, Didier, 1852, memoria su Pellegrino Rossi. Augusto Pierantoni nel suo magistrale discorso Della vita e delle opere di Pellegrino Rossi, nel volume: Per l’inaugurazione del monumento nazionale a Pellegrino Rossi in Carrara, Imola, Galeati, 1876, in una nota a pag. 128, credette di non dover far menzione di questa Accademia, fondata dal Rossi e a cui accennava appena il Mignet e di cui fece motto anche Francesco Ferrara nel suo Ragguaglio biografico e critico di P. Rossi nella Biblioteca dell’Economista. Ma una pubblicazione posteriore (Pellegrino Rossi secondo alcune notizie e lettere raccolte e per la prima volta pubblicate da Carlo Lozzi, in Rivista penale di dottrina, legislazione e giurisprudenza, vol. VI, 1877, pag. 261 e seg.) autorizza a ritener vera l’esistenza di questa Accademia, denominata dei Filodicologi.
  2. L’illustre Mignet (Portraits et notices historiques et littéraires, già citate) nelle sue notizie su Pellegrino Rossi, tuttoché assai laudative, affermò, erroneamente, che il Rossi fosse, nel 1814, assai contento del regno italico e dell’ordinamento francese dato all’Italia da Napoleone e immaginò un Pellegrino Rossi già francese, prima del 1838. Ripetè l’errore dell’illustre storico, aggiungendone tanti altri di suo, come si vedrà in seguito, il visconte Henry D’Ideville (Le comte Pellegrino Rossi, sa vie, son œuvre, sa mort, Paris, Calmann Lévy, 1887). Se il Mignet e il D’Ideville avessero ripensato al proclama del Rossi, pubblicato il 4 aprile 1815 a Bologna, quale commissario del re Gioacchino nelle provincie dal Po al Tronto, e se avessero posto mente alla difesa stampata dal Rossi stesso a Genthod nel luglio successivo, non sarebbero caduti in tale grossolano errore, che fu vittoriosamente combattuto, prima dal Pierantoni (op. cit., pag. 51), poi da Francesco Bertolini (Letture popolari di storia del risorgimento italiano, Milano, U. Hoepli, 1895, pag. 54 e seg.). Del quale errore, se può essere chiamato in peccato veniale il Mignet, che forse, la lettera apologetica dettata dal Rossi a Genthod, nel luglio 1815, non conosceva, deve essere chiamato in peccato mortale il D’Ideville, il quale quella lettera conosceva così che ne riportava un frammento nel suo sconclusionato volume - il cui vero nome è zibaldone - e precisamente alla chiusura del Capitolo I, a pag. 32. Cfr. con E. Renaudin in Journal des Économistes del 5 settembre 1887.
  3. La Bibliothèque Universelle de Genève (di cui il Rossi fu anche collaboratore), tomo X della II serie, février, 1849, a pag. 133 e seg. contiene un importante articolo anonimo, intitolato Pellegrino Rossi, dovuto alla penna di un suo antico discepolo ed ammiratore, che è poi il professore Cherbuliez. In tale articolo si afferma che il Rossi, amante della caccia, aveva anche una naturale tendenza - che egli dominava e vinceva - al dolce far niente. Importa qui che io noti, per l’intelligenza dei lettori, che il prof. Antonio Eliseo Cherbuliez, nato a Ginevra nel 1797, morto a Zurigo nel 1869, scrisse nella Bibliothèque Universelle due articoli su Pellegrino Rossi, uno sul suo Corso di economia politica nel maggio del 1840 nel tomo XXVII della I serie, e l’altro nel febbraio del 1849 nel tomo X della II serie, or ora citato. Inoltre egli scrisse nello stesso periodico, divenuto Bibliothèque Universelle et Revue Suisse altri due articoli nel tomo XXX della II serie, ottobre-dicembre 1867, intitolato Pellegrino Rossi et ses œuvres posthumes. Ora, quando io citerò lo Cherbuliez, indicherò in quale degli articoli accennati affermò le cose per cui viene citato.
  4. A. E. Cherbuliez nell’articolo del 1849. Cfr. Hubert Saladin, M. Rossi en Suisse de 1816 à 1833, Paris, 1849; Henry Baudrillart, nella Revue nationale et étrangère, articolo intitolato Économistes étrangers, tomo V, Paris, 1861; Gustave De Puynode, nel Journal des Économistes, nell’articolo intitolato La vie et les travaux de P. Rossi, tome VIIIme, octobre-décembre 1867.
  5. Ch. De Mazade, in Revue des Deux Mondes, anno XXX, 1861, articolo su Pellegrino Rossi, pag. 718 e seg.
  6. Louis Reybaud, sotto il titolo Economistes contemporains, M. Rossi, Cours d’economie polttique, nella Revue des Deux Mondes, tomo III, 1841, pag. 289 e seg.
  7. Dott. Daendliker, Histoire du peuple suisse, traduite par Mme Jules Favre, née Velten, Paris, Librairie Germer Baillière et C., 1879, 4me période, chap. 1er, § 60, pag. 257 e seg. Cfr. Mignet, loc. cit.; J. Cretinau-Joly, Histoire du Sonderbund, Paris, Plon Frères, éditeurs, tomo I, cap. II; Louis Grandpierre, Mémoires politiques, Neuchâtel, parte I, cap. XVIII e XIX; Augusto Pierantoni, op. cit: Giuseppe Mazzini, Scritti editi ed inediti, 4a ediz., Roma, per cura della Società editrice, vol. III, pag. 203 e 214 e seg., vol. V, pag. 49 e seg.; vol. VI, pag. 31, e Fr. Guizot, Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps, Paris, Michel Lévy, 1858, tomo VIII, pag. 421.
  8. Di questo difficoltà e dogli sforzi tenaci fatti dal Rossi per superarle parlano Louis Reybaud, loc. cit.; Hubert Saladin, loc. cit.; A. E. Cherbuliez nella Bibliothèque Universelle, art. del 1849; Ch. De Mazade, loc. cit.; G. De Puynode, loc. cit.; Alph. Curtois nel Journ. des Économ. 5 agosto 1887.
  9. Louis Reybaud, loc. cit.
  10. Louis Reybaud, ibid.
  11. Colmet Daage, in Séances et travaux de l’Académie des Sciences morales et politiques, dans l’article M. Rossi à l’École de droit, tom. XXVI, 1886. Di questa stessa opinione era stato il Mignet, elog. cit. Cfr. con Joseph Garnier, nel Journal des Économistes, tome XXII dell’anno 1849, nell’articolo Notice sur M. Rossi, pag. 89 e seg.; Alph. Curtois, art cit.
  12. Louis Reybaud, loc. cit.; Hubert Saladin, loc. cit.; Henry Baudrillart, loc. e art. cit.; Ch. De Mazade, loc. e art. cit.; A. E. Cherbuliez, nei quattro articoli della Bibliothèque Universelle et Revue Suisse; G. De Puynode, art. cit. e Augusto Pierantoni, disc. cit.
  13. Hubert Saladin, opusc. cit. Cfr. con Cherbuliez nel primo e nel secondo dei quattro articoli citati, con A. Pierantoni, loc. cit. e con Gustave De Puynode, art. cit.
  14. De Mazade, art. cit.
  15. A. E. Cherbuliez nell’articolo del 1849.
  16. A. E. Cherbuliez, nell’articolo già citato del 1840, pag. 18 e 19. Cfr. con Gustave De Puynode, art. cit.
  17. Cherbuliez, nel terzo articolo del 1867, pag. 482 e seg. Questo giudizio lo Cherbuliez aveva già dato nella Bibliothèque Universelle nell’articolo del 1849 e in parte anche Francesco Forti, negli articoli sul Trattato di diritto penale di P. Rossi, nell’Antologia di Firenze, vol. XXX. del 1830.
  18. Fr. Mignet, elog. cit. Sentenza riferita e approvata dal Boccardo, Dizionario dell’Economia politica e del Commercio, Torino, Sebastiano Franco e Figli, 1857, nella Prefazione a pag. xvi.
  19. A. E. Cherbuliez, nel secondo degli accennati articoli della Bibliothèque Universelle et Revue Suisse del 1867, anno LXXII.
  20. Louis Reybaud, loc. e art. cit. Cfr. con De Mazade, art. cit, e con H. Baudrillart, loc. cit., e G. De Puynode, art. cit.
  21. Alph. Curtois, Études sur la vie et les travaux de P. R., art. cit.; C. Lozzi, art. cit.
  22. Il Mignet, il De Mazade, il Baudrillart, lo Cherbuliez e più pienamente, come meglio si vedrà in seguito, lo Cretinau-Joly nella citata Histoire du Sonderhund, e Anatole De la Forge, Des vicissitudes politiques de l’Italie dans ses rapports avec la France, Paris, Amyot, 1850.
  23. Ch. De Mazade, art. cit.
  24. L. Reyraud, loc. cit. Cfr. con De Puynode, art. cit.
  25. A. E. Cherbuliez nella Bibliothèque Universelle, art. cit. del 1849.
  26. F. Bertolini, op cit.
  27. A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1849.
  28. A. E. Cherbuliez nell’art. cit.; art. cit. del 1849 e nel primo dei due articoli del 1867; A. Pierantoni, disc. cit.
  29. L. Reybaud, art. cit.; F. Mignet, elog. cit.; H. Saladin, opusc. cit.; A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1849.
  30. Mignet, elog. cit.
  31. A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1819.
  32. I biografi e critici di Pellegrino Rossi non sono d’accordo sull’anno in cui si pubblicò la prima volta il Traité de droit pénal. Il Reybaud, il Mignet, lo Cherbuliez, il Baudrillart, il Guizot, il Pierantoni, il De Puynode affermano tutti tale pubblicazione avvenuta a Parigi nel 1828; il Forti, il Garnier, il Courtois e Faustine Hélie, che scrisse una stupenda Introduzione alla 3a edizione di quel Trattato, contenuta nella edizione completa delle Opere di Pellegrino Rossi fatta, per ordine del Governo italiano a Parigi, Librairie de Guillaumin, nel 1863 e Enrico Pessina, nella Bibliografia annessa ai suoi Elementi di Diritto penale, Napoli, R. Marghieri, 1880, affermano tutti cinque che il Trattato di Diritto penale fu stampato per la prima volta a Parigi nel 1829, chez Santelet. E nel 1829 e chez Santelet fu effettivamente pubblicato, con dedica al duca De Broglie. Io possiedo un esemplare dello stesso Trattato, pubblicato a Bruxelles, Louis Hauman et Compagnie, libraires, mdcccxxix, con dedica; «Au duc de Broglie - Pair de France - qui par l’étendue et la sagacité de son esprit - a éclairé d’une lumière nouvelle - les plus hautes questions de droit public et de législation. - Ses encouragements et ses conseils - nous ont ouvert - la route que nous avons parcourue. - Nous lui offrons le résultat de nos travaux - comme un témoignage d’amitié - et de reconnaissance».
  33. Chiaramente e ripetutamente lo afferma il Mignet, che scrive nel citato elogio: «Quell’arditezza e temperanza insieme, che il Rossi mostrava nelle materie politiche, le portava nella scienza, cercando in ogni cosa la verità, e, non trovandola intera in veruna parte, si rivolse ad usare fra i vari sistemi quelle savie transazioni che nelle leggi aveva raccomandate». E poco dopo, parlando proprio del Trattato di diritto penale, lo giudica «opera concepita sotto l’influenza di due scuole, prendendo dall’una il principio spiritualista del diritto puro al quale l’aveva ricondotto il suo amico duca di Broglie, e dal Bentham il principio materialista della utilità, verso cui aveva da molto tempo inclinato con l’altro amico suo Stefano Dumont...», il quale era commentatore e grande ammiratore di Geremia Bentham.
       E lo Cherbuliez, nel terzo degli articoli indicati, scrive: «Rossi ha un bell’atteggiarsi ad avversario del principio di utilità, ha un bell’essersi fatto nel mondo dotto la riputazione di esterminatore della scuola di
  34. A proposito della teoria di Malthus ricorda, con una punta d’ironia, l’eclettismo di Pellegrino Rossi anche l’illustre Giovanni Bovio nella sua Filosofia del Diritto, 2a edizione, Napoli, E. Anfossi, pag. 251, accusandolo di tentare eclettismo fra Malthus e Bastiat con piallate che ne levano le asprezze.
  35. E. Pessina, Opuscoli di diritto penale, nell’articolo Dei progressi, del diritto penale in Italia nel secolo xix, Napoli, Giuseppe Margheri, 1874, pag. 97 e 98.
  36. P. Ellero, Trattati criminali, Bologna, tip. Fava e Garagnani, 1875, pag. 19 e seg.
  37. T. Canonico, Del reato e della pena in generale, Torino, Unione tipografico-editrice, 1872, pag. 34.
  38. F. Hélie, nella Introduzione al Trattato di diritto penale nelle Œuvres complètes de P. Rossi publiées par ordre du Gouvernement italien, Paris, librairie de Guillaumin et C., 1863, tom. I, pag.. vi e vii.
  39. A. E. Cherbuliez, nell’art. cit. del 1849.
  40. Tesserono, inoltre, grandi lodi del Trattato di diritto penale di Pellegrino Rossi, oltre i menzionati di sopra, Lerminier nel Globe del 2 settembre, il Reybaud, il Garnier, il Lozzi, il Saladin e il De Puynode, negli articoli citati, F. Tissot, Le droit pénal étudiée dans ses principes, ecc., Paris, Cotillon libraire-éditeur, 1860, nella Prefazione, a pag. xlii; É. De Girardin, Du droit de punir, Paris, Henry Plon, 1871; D. Giuriati, Arte forense, Torino, Roux e Favale, 1878; Charl. Vergé, articolo sul Trattato di diritto penale nel Journal des Économistes dell’anno 1856, che lo loda moltissimo; e un anonimo nella Edinburqh Review dell’agosto-dicembre 1831, il quale in un dotto e lungo articolo sottopone il Trattato del Rossi ad una acuta critica, forse troppo sottile e minuziosa, ma pure assai laudativa per il Rossi. Ne parlarono in vario senso e piuttosto benevolmente F. Forti, in due articoli dell’Antologia di Firenze già citati; gli illustri T. Mamiani e P. S. Mancini, E. Ferri, il Frank, il Flottard, il Belime, il Thiercelin, il Poggi, il Bon-Compagni, il Conforti, il Borsari, il Montanari, il Niccolini, il Pericoli e molti e molti altri.
       L’illustre Carrara, nel suo Programma del corso di diritto penale, Lucca, tip. Giusti, 1867, stabilito, nella Parte generale, che tre sono i criteri del Rossi per la misura del delitto determinata da tre specie di mali, cioè male materiale, che è il nostro danno immediato, male misto, che è il nostro male mediato, male morale, che è rappresentato dalla violazione del dovere, respinge questo terzo criterio che ha, per lui, un doppio difetto: nel confondere l’ufficio del criminalista con quello del moralista, nell’indefinito a cui conduce la formula suggerita (pag. 117 a 120). Ma poi finisca a pag. 127 per accettare e per fondere insieme quella formula del Rossi e quella del Romagnosi, «le quali si rigettano da noi in quanto si vogliono porre come assolute e cardinali, ma si accettano in quanto siano trasformabili nella formula del danno mediato». Poi ricorda del Rossi le teorie, alcune delle quali combatte, altre loda (pag. 131, 191, 233 e 296) e stesso ne parla pure nelle Parti speciali. Lo assalisce poi, con elegante e spigliata ironia, ma con violenza, nella Introduzione e nella Conclusione ai suoi Lineamenti di pratica legislativa penale, Torino, fratelli Bocca, 1874, e diciamolo pure per la verità, nella conclusione, anche con serrante e finissima logica, per venire a questa severissima chiusa: «Diceva bene il mio grande maestro Carmignani, emulo - come è noto - forse troppo severo dell’economista versiliese, quando avvertiva trovarsi negali scritti di Rossi tutto quanto era a desiderarsi di bello e di magnifico: tutto fuorché la logica». Il qual giudizio tanto più diveniva severo e quasi ingiusto in quanto che l’illustre Carrara si trovava nella sostanza della questione d’accordo col Rossi o solo lo combatteva perchè - come egli stesso diceva - «una tesi buona e vera era stata trattata con argomenti falsi». È vero però che il vivacissimo e insigne maestro chiude poi il volume con queste parole, che attestano della grande reverenza che egli professava per Pellegrino Rossi nell’esame complessivo dell’opera di lui; «Se pertanto quell’uomo illustre di Pellegrino Rossi, quando si mise a scranna in un corso di diritto penale, per insegnare cattedraticamente i precetti da seguirsi nella redazione dei codici, concluse col non concluder niente e con lo involversi in osservazioni perplesse e spesso contraddittorie ed erronee; non sarà vervogna per me se, dopo lunghe e severe meditazioni, non sono riuscito a costruire sull’argomento una teorica netta e completa».

       Fra tutti i critici e scrittori che io ho veduto, tanto fra gli Italiani quanto fra gli stranieri, noterò ancora qua e là severo, ma pur benevolo, Odillon-Barrot, in una relazione che lesse sul Trattato del Rossi all’Accademia di scienze morali e politiche (negli Atti dell’Accademia del 1856); ma fra tutti procedono più acerbi verso il Carrarese nei giudizi sul Trattato di diritto penale l’insigne F. Ferrara, nell’op. cit., e l’illustre G. Carmignani, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, Pisa, fratelli Nistri, 1831, il quale assale, spesso con acrimonia e con voluttà, il Rossi, specialmente nel lib. I, pag. 13, 14, 73, 149, 168, 255 e lib. III, pag. 9, 15, 23, 27, 75, 78, 204, 254 e 260.

  41. H. Saladin, opusc. cit.
  42. A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1849.
  43. H. Baudrillart, art. cit. Cfr. con De Mazade, De Puynoue, Renaudin citati.
  44. A. E. Cherbuliez nella Bibliothèque Universelle, nel ricordato articolo dell’anno 1849. Cfr. col De Puynode, il quale, nel citato articolo del Journal des Economistes, afferma di avere udito ripetere dal Rossi questa opinione «che gli uomini superiori - fra i quali» - nota il De Puynode - egli aveva ragione di annoverarsi - sono adatti a tutte le cose».
  45. H. Baudrillart, art. cit.
  46. C. De Mazade, art. cit.
  47. Cherbuliez, nel secondo dei citati articoli del 1867. E di questo disprezzo del Rossi per la democrazia a lui dà biasimo il suo altissimo laudatore V. Gioberti, nel Rinnovamento civile d’Italia, Napoli, Gabriele Regina, 1864, tomo II, cap. VII, pag. 205.
  48. F. Guizot, Memoires, ecc., tomo III, pag. 125.
  49. A. Balleydier, Histoire de la révolution de Rome, ecc., Genève, Librairie européenne, 1851, tomo I, pag. 205.
  50. G. Spada, Storia della rivoluzione di Roma, Firenze, stabilimento di G. Pellas, 1809, vol. II, cap. XVII, pag. 410. Cf. G. Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio, Imola, Galeati, 1880, cap. VIII, pag. i:i9-140.
  51. M. Minghetti, Miei ricordi, Torino, L. Roux e C., 1888, vol. I, cap. IV, pag. 137-138.
  52. M. Minghetti, op. cit., vol. III, pag. 54.
  53. Fr. Mignet, elog. cit.
  54. Colmet-Daage, nell’articolo citato M. Rossi à l’école de droit in finances et travaux de l’Académie, etc.
  55. J. Cretinau-Joly, Hist. du Sonderbund cit, tomo I, cap. II.
  56. A. de la Forge, op. cit., pag. 275. E qui non adduco altri giudizi di scrittori ed uomini politici assai autorevoli sulle qualità e sui difetti del carattere di Pellegrino Rossi, quali, ad esempio, quelli del Gioberti, del Gualterio, del Leopardi, del Farini, del Curci, del D’Haussonville, del Guizot e di parecchi altri a lui in tutto o in gran parte benevoli e favorevoli; nè quelli poco benevoli del Rosmini, del Berti, del Filopanti, del Gabussi, del Perrens, del Nisco e di altri; nè quelli quasi completamente avversi del Brofferio, del Cattaneo, del La Farina, del Mazzini, del Miraglia, del Saffi, e di parecchi altri, nè, in fine, quelli, ostilissimi contro il Rossi, di uomini pur degnissimi quali il generale Garibaldi, Giorgio Pallavicino-Trivulzio, il conte Ilarione Petitti, il generale Federico Torre, il padre Gioacchino Ventura e qualche altro. Di tutti questi giudizi darò contezza nel cap. V di questo volume.
  57. Guizot, Mémoires, etc., tomo I, pag. 156 e seg.
  58. A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1849.
  59. G. Mazzini, Scritti, ecc., vol. III, pag. 14.
  60. Lo stesso, ivi.
  61. Cherbuliez, Reybaud, De Puynode e Curtois.
  62. L. Grandpierre, Mèmoires politiques cit., par. I, pag 122.
  63. D. K. Daendliker, op. e loc. cit.
  64. L. Reybaud, art. cit. Cf. G. Mazzini, loc. cit.
  65. J. Cretinau-Joly, K. Daendliker, L. Grandpierre, opere citate. Cf. Guizot, Mémoires, etc., tomo VIII, pag. 121.
  66. H. Saladin, A. Pierantoni, opere citate.
  67. H. D’Ideville, op. cit. lib. II, pag. 62.
  68. H. Saladin, opusc. cit.
  69. Cretinau-Joly, Daendliker, Grandpierre cit, e A. E. Cherbuliez, La democrazia nella Svizzera, nella Biblioteca di scienze politiche diretta da A. Brunialti, Tonno, Unione tipografico-editrice, 1898, pag. 292 e seg.
  70. L. Reybaud, art. cit.
  71. Mignet, elog. cit.
  72. Mignet, Saladin, De Broglie, Baudrillart, Reybaud, Garnier, De Puynode, De Mazade, Guizot, Pierantoni art. e op. cit. In generale g’ii scrittori svizzeri, lo Cherbuliez, il Cretinau-Joly, il Daendliker e il Grandpierre, tutti appassionati, subiettivi e, perciò, non imparziali, sono discordi fra loro nel giudicare il patto Rossi e tutti hanno, insieme a lodi maggiori o minori per questa o per quella parte del patto stesso, biasimi più o meno severi per altre parti, o anche pel complesso. Lo Cherbuliez, per esempio, pur così grande ammiratore del Rossi, conclude il suo giudizio così: «Questa costituzione, redatta da una Commissione di quindici membri, di cui il Rossi fu il relatore e sulle deliberazioni della quale egli esercitò, senza dubbio, una g:rande influenza, non potrebbe che impropriamente essere chiamata opera del Rossi. Essa non ha l’impronta della sua scuola: essa non prova, rapporto a lui, che la verità di ciò che io dissi di sopra, cioè che egli non era l’uomo da cui si potesse attendere una soluzione a questioni pendenti»; art. cit. del 1849.
  73. Pellegrino Rossi, Mélanges d’économie politique, d’histoire et de philosophie, Paris, Guillaumin, 1851, tome II, pag. 428 et suiv. Cfr. con J. Cretinau-Joly, op. cit., vol. II, pag. 108 e seg. Daendliker, Grandpierre e A. E Cherbuliez, La democrazia nella Svizzera di sopra citata, il quale loda la relazione di «grande abilità» e trova che nel disegno «i due principi opposti della rappresentanza legale degli Stati e dell’accentramento dei poteri erano se non conciliati, ravvicinati e combinati con molta arte.
  74. A. E. Cherbuliez, La democrazia nella Svizzera, ediz. cit., pag. 294.
  75. A. Pierantoni, disc. cit.
  76. Relazione di P. Rossi nei Mélanges, loco citato. Cfr. con J. Dubs, Il diritto pubblico della Confederazione svizzera, Torino, Unione tipografico-edit., 1888, pag. 595.
  77. De Broglie, Garnier, Reybaud e specialmente Henry d’Ideville, il quale, come accennai in altra nota, è il penultimo cronologicamente, fra coloro che scrissero su Pellegrino Rossi e, perciò, quegli a cui si offrivano maggiori materiali storici sull’importante argomento. Al che se si aggiunga che egli fu nel 1862 segretario di Ambasciata a Roma, onde potè avere a sua disposizione tutti i documenti riguardanti il conte Rossi, compreso il processo compilato contro gli uccisori di lui, facilmente si comprenderà tutto ciò che egli, se avesse saputo, avrebbe potuto fare e tutto ciò che gli studiosi erano in diritto di attendersi da lui. Ma sfortunatamente il visconte D’Ideville si preparò e si accinse all’opera con una leggerezza che non sembra vera. Non conobbe e non ricercò parecchi degli scrittori che lo avevano preceduto; spaventato dalla mole del processo non ebbe il coraggio e la pazienza neppure di sfogliarlo e si attenne, per ciò che riguarda l’uccisione del Rossi, unicamente al Sommario o Ristretto che ne compilò 11 giudice processante avv. Laurenti, il qual Sommario è tutto un tessuto di menzogne e non è il riassunto, ma, la falsificazione delle risultanze del processo stesso. Cosl il D’Idevilie, impreparato ed inetto, affastellò farraginosamente e incompletamente la materia, senza ordine cronologico, senza nesso logico, senza unità organica; accumulò errori sopra errori, fandonie sopra fandonie le più stupide che immaginar si possano e fece opera storicamente miserevolissima. E, per tutto ciò che riguarda il Rossi di fronte ai rivoluzionari romani, mentendo e alla dignità di storico e al siio carattere di gentiluomo, non scrisse una storia, ma ripetè i libelli ridicoli ed insensati dei suoi connazionali Balleydier, D’Harcourt, De Saint-Albin ecc., cose tutte che io dimostrerò in apposite note, alla luce dei documenti, in capitoli successivi. Giudizio simile, nella sostanza, a questo mio ha pronunciato sul libro del D’Idevilie il chiaro F. Bertolini, vol.cit. da pag. 55 a 57.
  78. A. E. Cherbuliez, H. Saladin, De Mazade, De Brog-lie, H. Baudrillart, A. Pierantoni, G. De Puynode e F. Curtois.
  79. Ad un amico il Rossi di quei giorni scriveva: «I miei occhi sono malati, la mia salute è cattiva, speriamo ancora». E ad un altro scriveva questa disperata frase: «La barca fa acqua da tutte le parti». De Mazade, art. cit. Della povertà a cui si trovava ridotto Pellegrino Rossi, parlano anche J. Garnier, De Puynode, Baudrillart e A. Pierantoni.
  80. Fr. Guizot, J. Garnier, L. Reybaud, G. De Puynode, op. cit; Fr. Guizot, Mémoires, tom. III, pag. 115 e seg.
  81. A. E. Cherbuliez, art. cit. del 1849.
  82. Lo stesso, ivi.
  83. Il Rossi, nel partire da Ginevra, aveva perduto la pazienza ed era adirato contro gli Svizzeri e contro i Ginevrini per gli assalti violenti di cui egli era stato obietto durante la lotta per la revisione del patto federale; onde par certo che esclamasse che la «Repubblica di Ginevra era una babilonia». Edmond Renaudin, nell’articolo citato nel Journal des Économtstrs del 1887.