Opere (Lorenzo de' Medici)/XI. La rappresentazione di san Giovanni e Paolo

XI. La rappresentazione di san Giovanni e Paolo

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XI. La rappresentazione di san Giovanni e Paolo
X. Altercazione - Capitolo VI. XII. Rime spirituali
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XI

LA RAPPRESENTAZIONE

DI SAN GIOVANNI E PAOLO


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INTERLOCUTORI


Angelo annunziatore.
Primo parente di sant’Agnesa.
Secondo parente di sant’Agnesa.
Terzo parente di sant’Agnesa.
Costanza.
Un servo di Costanza.
Sant’Agnesa.
Costantino, padre di Costanza.
Gallicano.
Una delle figliuole di Gallicano.
Altra figliuola di Gallicano.
Attica.
Artemia.
Giovanni.
Paulo.
Un angelo che apparisce.
Trombetto.
Re.
Principe.
Messo a Costantino.
Costantino, figliuolo di Costantino imperatore.
Costante, uno de’ fratelli.
Costanzo, altro fratello.
Imperadore, il nuovo.
Un servo.
Un fante.
Un confortatore.
Un accusatore.
Terenziano.
San Basilio, vescovo.
Maria Vergine.
Tesoriere.
Astrologi.


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L’angelo annunzia e dice:


     Silenzio, o voi che ragunati siete:
voi vedrete una istoria nuova e santa;
diverse cose e devote vedrete,
esempli di fortuna varia tanta.
Sanza alcun motto stien le voci chete,
massimamente poi quando si canta.
A noi fatica, a voi il piacer resta:
però non ci guastate questa festa.
     Santa Costanza, dalla lebbra monda,
con devozion vedrete convertire:
nella battaglia molto furibonda
gente vedrete prendere e morire;
mutar lo imperio la volta seconda;
e di Giovanni e Paulo il martíre;
e poi morir l’apostata Giuliano
per la vendetta del sangue cristiano.
     La Compagnia del nostro san Giovanni
fa questa festa, e siam pur giovanetti:
però scusate i nostri teneri anni,
se i versi non son buoni o ver ben detti;
né sanno de’ signor vestire i panni,
o vecchi o donne esprimer, fanciulletti:
puramente faremo e con amore;
sopportate l’etá di qualche errore.

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Primo parente di santa Agnesa.


     Forse, tacendo il ver, sarei piú saggio,
che, dicendolo a voi, parer bugiardo:
ma, essendo parenti e d’un legnaggio,
non arò nel parlar questo riguardo;
perché, se pur parlando in error caggio,
non erro: quando in viso ben riguardo,
questa coniunzion di sangue stretta
fa che tra noi ogni cosa è ben detta.
     Il caso, che narrar vi voglio, è questo.
In quest’ultima notte ch’è fuggita,
io non dormivo e non ero ben desto:
la santa vergin morta m’è apparita,
Agnesa, che morí, oggi è il dí sesto;
lieta, divota e di bianco vestita:
con lei era un umíl candido agnello,
e di molte altre vergini un drappello.
     E, consolando con dolce parole
il dolor nostro di sua morte santa,
diceva: — Il torto avete, se vi duole
ch’io sia venuta a gloria tale e tanta:
fuor dell’ombra del mondo or veggo il sole
e sento il coro angelico che canta:
però ponete fin, cari parenti,
se ancor me amate, al dolore e’ lamenti. —

Secondo parente.


     Non dir piú lá: tu m’hai tratto di bocca
quel che volevo dir, ma con paura,
temendo di non dir qualcosa sciocca.
Ancor a me, sendo alla sepoltura
per guardar che da altri non sia tócca,
apparve questa vergin santa e pura:
con l’agnel, con le vergini veniva.
Cosí la vidi come fussi viva.

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Terzo parente.


     E’ non si crederrá, e pur è vero.
Io la vidi anche, e senti’ quel che disse;
i’ non dico dormendo o col pensiero,
ma tenendo le luci aperte e fisse.
I’ cominciai, e non forni’ l’intero:
— O vergin santa e bella... — Allor si misse
in via per ritornarsi al Regno santo:
io restai solo e lieto in dolce pianto.

Il Primo parente un’altra volta.


     Benché a simil fallaci visione
chi non è molto santo non de’ credere
(ché spesso son del diavol tentazione),
questa potrebbe pur da Dio procedere,
essendo ella apparita a piú persone.
Dobbiam Dio ringraziare, e merzé chiedere,
e rallegrarci di questa beata;
ché abbiamo in paradiso un’avvocata.

Costanza.


     Misera a me! che mi giova esser figlia
di chi regge e governa il mondo tutto?
aver d’ancille e servi assai famiglia,
ricchezza e gioventú? Non mi fa frutto
l’onor, l’esser amata a maraviglia,
se ’l corpo giovenil di lebbra è brutto.
Non darò al padre mio nipoti o genero,
sendo tutto ulcerato il corpo tenero.
     Meglio era che quest’anima dolente
nel corpo mio non fussi mai nutrita;

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e, se pur v’è venuta, prestamente
nella mia prima etá fussi fuggita:
piú dolce è una morte veramente
che morire ad ogn’ora in questa vita,
e dare al vecchio padre un sol tormento,
che, vivendo cosí, dargliene cento.

Un servo di Costanza.


     Bench’io presuma troppo o sia importuno,
madonna, pur dirò quel che m’occorre:
quando un mal è sanza rimedio alcuno,
a cose nuove e strane altri ricorre:
medicina, fatica o uom nessuno,
poiché non può da te questo mal tôrre,
tentar nuovi rimedi è ’l parer mio,
ché, dove l’arte manca, abbonda Dio.
     Io ho sentito dir da piú persone
che Agnesa, la qual fu martirizzata,
a’ parenti è venuta in visione,
e credesi per questo sia beata:
io proverrei ad ir con devozione
lá dove questa santa è sotterrata:
raccomándati a lei con umil voce:
e’ non è mal tentar quel che non nuoce.

Costanza.


     I’ ho giá fatte tante cose invano,
che questi pochi passi ancor vo’ spendere;
se ’l corpo mio debbe diventar sano,
questa è poca fatica: io la vo’ prendere;
e forse l’andar mio non sará vano.
Giá sento in devozione il cuore accendere,
giá mi predice la salute mia:
orsú, andiam con poca compagnia.

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Costanza, poich’è giunta alla sepoltura di sant’Agnesa, dice:


     O Vergin santa, d’ogni pompa e fasto
nemica e piena dell’amor di Dio,
pe’ merti dello sparso sangue casto
ti prego vòlti gli occhi al mio desio:
abbi pietá del téner corpo guasto,
abbi pietá del vecchio padre mio:
bench’io nol merti, o Vergin benedetta,
rendimi al vecchio padre sana e netta.

Addormentasi; e sant’Agnesa le viene in visione, dicendo:


     Rallégrati, figliuola benedetta.
Dio ha udito la tua orazione
ed esaudita, ed ègli suta accetta,
perch’ella vien da vera devozione,
e se’ libera fatta, monda e netta.
Rendi a Dio grazie, ché tu n’hai cagione;
e per questo mirabil benefizio
ama Dio sempre ed abbi in odio il vizio.

Costanza si desta e dice:


     Egli è pur vero. Appena creder posso,
e vedo e tocco il mio corpo esser mondo:
fuggito è tutto il mal che aveva addosso;
son netta come il dí ch’io venni al mondo.
O mirabile Dio, onde se’ mosso
a farmi grazia? ed io con che rispondo?
Non mia bontá o merti mia preteriti,
ma mosso han tua pietá d’Agnesa i meriti.
     L’odor suave di sua vista casta,
come incenso salí nel tuo cospetto;
ond’io, che son cosí sana rimasta,
fo voto a te, o Gesú benedetto,

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che, mentre questa brieve vita basta,
casto e mondo ti serbo questo petto:
e ’l corpo, che di fuor or mondo sento,
con la tua grazia anco sia mondo drento.

E, vòltasi a quelli che sono seco, dice:


     Diletti miei, queste membra vedete,
che ha monde la suprema medicina.
Insieme meco grazie a Dio rendete
dell’ammirabil sua pietá divina.
Simili frutti con dolcezza miete
colui che nel timor di Dio cammina.
Torniamo a casa, pur laudando Dio,
a dar quest’allegrezza al padre mio.

Mentre ne va a casa:


     O Dio, il qual non lasci destituto
della tua grazia ancor gli umani eccessi,
e chi arebbe però mai creduto
che d’una lebbra tanti ben nascessi?
Cosí utile e sano è ’l mio mal suto;
convien che i miei dolor dolci or confessi.
O santa infermitá per mio ben nata,
c’hai mondo il corpo e l’anima purgata!

E, giunta al padre, dice:


     Ecco la figlia tua, che lebbrosa era,
che torna a te col corpo bello e netto;
sana di sanitá perfetta e vera,
però che ha sano e il corpo e l’intelletto.
Troppo son lieta, e la letizia intera,
o dolce padre, vien per tuo rispetto;
però che Dio mirabilmente spoglia
me dalla lebbra e te da tanta doglia.

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Costantino, il padre, risponde:


     Io sento, figlia mia, tanta dolcezza,
che pare il gaudio quasi fuor trabocchi;
né posso far che per la tenerezza
non versi un dolce pianto giú dagli occhi.
Dolce speranza della mia vecchiezza,
creder nol posso infin ch’io non ti tocchi.

E, dicendo cosí, gli tocca la mano:


Egli è pur vero. Oh gran cosa inaudita!
Ma dimmi, figlia mia: chi t’ha guarita?

Risponde Costanza:


     Non m’ha di questa infermitá guarita
medico alcun, ma la divina cura:
io me n’andai e devota e contrita
d’Agnesa a quella santa sepoltura;
feci orazion, la qual fu in cielo udita;
poi dormi’; poi desta’mi netta e pura;
feci allor voto, o caro padre mio,
che ’l mio sposo e ’l tuo genero sia Dio.

Costantino risponde:


     Grande e mirabil cosa certo è questa:
chi l’ha fatta non so, né ’l saper giova.
Basta: se sana la mia figlia resta,
sia chi si vuol: questa è suta gran pruova.
Su, rallegriamci tutti e facciam festa.
O scalco, su, da far colezion truova.
Fate che presto qui mi vengh’innanzi
buffoni e cantator, chi suoni e danzi.

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Torna in quest’allegrezza Gallicano di Persia con vittoria, e dice:


     Io son tornato a te, divo Augusto,
e non so come, tra tanti perigli.
Ho soggiogato il fèr popol robusto,
né credo contra te piú arme pigli.
Per tutta Persia il tuo scettro alto e giusto
or è tenuto; e di sangue vermigli
fe’ con la spada i fiumi correr tinti:
e’ son per sempremai domati e vinti.
     Tra ferro e fuoco, tra feriti e morti
con la spada abbiam cerco la vittoria
io e’ tuoi cavalieri audaci e forti:
di noi nel mondo fia sempre memoria.
io so ben che tu sai quanto t’importi
questa cosa al tuo stato ed alla gloria:
che s’ella andava per un altro verso,
era il nome romano e ’l regno perso.
     Benché la gloria e ’l servir signor degno
al cor gentil debb’esser gran merzede,
pur la fatica, l’animo e l’ingegno,
ancor ch’io mi tacessi, premio chiede.
Se mi dái la metá di questo regno,
non credo mi pagassi, per mia fede;
ma minor cosa mi paga abbastanza,
se arò per sposa tua figlia Costanza.

Risponde Augusto, cioè Costantino:


     Ben sia venuto il mio gran capitano,
ben venga la baldanza del mio impero,
ben venga il degno e fido Gallicano,
domator del superbo popol fèro;
ben sia tornata la mia destra mano,
e quel, nella cui forza e virtú spero;

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ben venga quel che, mentre in vita dura,
l’imperio nostro e la gloria è sicura.
     Ogni opera e fatica aspetta merto,
e’ tuoi meriti meco sono assai:
e, se aspettavi il merto fusse offerto,
io non t’arei potuto pagar mai.
Darti mia figlia gran cosa è per certo,
e quanto io l’amo, Gallican, tu il sai:
gran cosa è certo un pio paterno amore,
ma il tuo merito vince ed è maggiore.
     Se tu non fussi, lei non saria figlia
d’imperadore, il qual comanda al mondo:
però, s’altri n’avessi maraviglia
e mi biasma, con questo gli rispondo.
Credo che lei e tutta mia famiglia
e ’l popol tutto ne sará giocondo,
ed io di questo arò letizia e gloria,
non men ch’io abbi della gran vittoria.
     In questo punto ir voglio, o Gallicano,
a dir qualcosa a mia figlia Costanza:
tornerò resoluto a mano a mano.
Intanto non t’incresca qui la stanza.

Mentre che va, dice:


Oh ignorante capo! oh ingegno vano!
O superbia inaudita! oh arroganza!
E cosí l’aver vinto m’è molesto,
se la vittoria arreca seco questo.
     Che farò? Darò io ad un suggetto
la bella figlia mia, che m’è sí cara?
S’io non la do, in gran pericol metto
lo Stato. E chi è quel che ci ripara?
Misero a me! Non c’è boccon del netto:
tanto Fortuna è de’ suoi beni avara.
Spesso chi chiama Costantin felice,
sta meglio assai di me, e ’l ver non dice.

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Poiché è giunto a Costanza dice:


     Io ti vengo a veder, diletta figlia,
con gli occhi, come ti veggo col cuore.

Costanza.


O padre, io veggo in mezzo alle tue ciglia
un segno che mi dice c’hai dolore,
che mi dá dispiacere e maraviglia.
O padre dolce, se mi porti amore,
dimmi ch’è la cagion di questo tedio;
e s’io ci posso fare alcun rimedio.
     Dimmelo, padre, sanz’alcun riguardo.
Io son tua figlia per darti dolcezza;
e però dopo Dio a te sol guardo,
pur ch’io ti possa dar qualche allegrezza.

Costantino.


Io sono a dirti questa cosa tardo.
Pietá mi muove della mia vecchiezza
e del tuo corpo giovenil, che sano
è fatto acciò che il chiegga Gallicano.

Costanza.


     O padre, deh pon’ freno al tuo dolore!
Intendo quel che tu vuoi dire a punto.
Il magno Dio, ch’è liberal signore,
non stringerá la grazia a questo punto.
Io veggo onde ti vien tal pena al core:
se dái a Gallican quel c’ha presunto,
offendi te e me; e s’io nol piglio
per mio marito, il regno è in gran periglio.

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     Quando il partito d’ogni parte punga,
né sia la cosa ben secura e netta,
io ho sentito dir che il savio allunga
e dá buone parole, e tempo aspetta.
Benché il mio ingegno molto in su non giunga,
padre, io direi che tu me gli prometta:
d’assicurarlo ben fa’ ogni pruova,
e poi lo manda in questa impresa nuova.
     Benché forse io parrò presuntuosa,
fanciulla, donna e tua figlia, se io
ti consigliassi in questa ch’è mia cosa,
prudente, esperto e vecchio, padre mio;
tu gli puo’ dir quant’è pericolosa
la guerra in Dacia, e che ogni suo disio
vuoi fare; e, perché creda non lo inganni,
per sicurtá da Paulo e Giovanni.
     Questi statichi meni, acciò che intenda
ch’io sarò donna sua, da poi ch’e’ vuole;
e d’altra parte indietro lui ti renda
Attica, Artemia, sue care figliuole.
In questa guerra vi sará faccenda,
e ’l tempo molte cose acconciar suole.

Costantino:


Figlia, e’ mi piace assai quel che m’hai detto:
son lieto, e presto il metterò ad effetto.

Da sé, mentre che ritorna da Gallicano:


     Laudato sia colui che in te spira
bontá, prudenzia, amor, figliuola mia.
Io ho giú posto la paura e l’ira,
e cosí Gallican contento fia;
l’onor fia salvo, il qual drieto si tira
ogni altra cosa, sebben cara sia.

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Passato questo tempo e quel periglio,
vedrem poi quel che fia miglior consiglio.

E, giunto a Gallicano:


     Io torno a te con piú letizia indrieto
ch’io non andai: e Costanza consente
esser tua donna. Io son tanto piú lieto,
quanto piú dubbio avevo nella mente.
Pareva vòlta ad un viver quieto,
sanza marito o pratica di gente.
Mirabilmente di quel suo mal monda,
bella consente in te sana e gioconda.
     Direi: facciam le nozze questo giorno
e rallegriam con esse questa terra;
ma se ti par, facciam qualche soggiorno;
ché tu sai ben quanto ci stringe e serra
Dacia rebelle, qual ci cigne intorno;
e non e ben accozzar nozze e guerra:
ma dopo la vittoria, se ti piace,
farem le nozze piú contenti in pace.
     So ben c’hai di Costanza desidèro,
ma piú del tuo onore e del mio Stato,
anzi del tuo, ché tuo è questo impero,
perché la tua virtú l’ha conservato.
Per fede, Gallican, ch’io dica il vero,
Giovanni caro a me, Paulo amato
teco merrai; e sicurtá sien questi:
Artemia, Attica tua, qui meco resti.
     Tu sarai padre a’ dua diletti miei;
Costanza madre alle figliuole tue
e non matrigna; e sia certo che lei
le tratterá siccome fussin sue.
Io spero nell’aiuto degli dèi,
ma molto piú nella tua gran virtúe,
che contro a’ daci arem vittoria presta.
Costanza è tua: allor farem la festa.

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Gallicano:


     Nessuna cosa, o divo imperadore,
brama il mio cuor, quanto farti contento,
conservare il tuo Stato e ’l mio onore:
Costanza sanza questo m’è tormento.
IoFonte/commento: Edimburgo, 1912 spero tornar presto vincitore;
so che fia presto questo fuoco spento:
proverrá con suo danno il popol strano
la forza e la virtú di questa mano.
     Quando un’impresa ha in sé grave periglio,
non metter tempo nella espedizione:
pensata con maturo e buon consiglio,
vuole aver presta poi l’esecuzione.
Però sanza piú indugio il cammin piglio:
arò Paulo e Giovanni in dilezione
come fratelli o figli tuttavia;
e raccomando a te Costanza mia.
     O fidato Alessandro, presto andrai;
Attica, Artemia, fa’ sien qui presenti.
E tu, Anton, trova danari assai,
eFonte/commento: Edimburgo, 1912 presto spaccia tutte le mie genti.
O forti cavalier, che meco mai
non fuste vinti, o cavalier potenti
nutriti nella ruggine del ferro,
noi vinceremo ancor: so ch’io non erro.

Gallicano, poiché sono giunte le figliuole, dice a Costantino:


     Non posso dirti con asciutte ciglie
quel ch’io vorrei delle dolci figliuole.
Io te le lascio acciò che sien tue figlie.
Fortuna nella guerra poter suole;
io vo di lungi molte e molte miglie
fra gente che ancor ella vincer vuole:
bench’io speri tornar vittorioso,
l’andare è certo, e ’l tornar è dubbioso.

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Vòltosi alle figliuole, dice:


     E voi, figliuole mie (da poi ch’e’ piace
ch’io vada in questa impresa al mio signore),
pregate Giove che vittoria o pace
riporti sano, e torni con onore:
se lá resta il mio corpo e morto giace,
il padre vostro fia lo imperadore;
per lui i’ metto volentier la vita:
Costanza mia da voi sia riverita.

Una delle figliuole di Gallicano:


     Quando pensiam, padre nostro diletto,
che forse non ti rivedrem mai piúe,
copron gli occhi di pianto il tristo petto.
E dove lasci le figliuole tue?
Giá mille e mille volte ho maladetto
l’arme e la guerra e chi cagion ne fue.
Benché un buon padre e degno ci abbi mostro,
pur noi vorremmo il dolce padre nostro.

L’altra figliuola, a Costantino:


     Alto e degno signor, deh, perché vuoi
che noi restiam quasi orfane e pupille?
Risparmia in questa impresa, se tu puoi,
il padre nostro: de’ suoi par c’è mille,
ma altro padre piú non abbiam noi;
contentaci, ché puoi; facci tranquille.

Costantino:


Su, non piangere: il vostro Gallicano
tornerá presto con vittoria e sano.

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Gallicano si volta a Costantino, e dice:


     Io vo’ baciarti il piè, signor sovrano,
prima ch’io parta, ed a mie figlie il volto.
E credi che ’l fedel tuo Gallicano
Giovanni e Paul tuo osserva molto:
l’uno alla destra; alla sinistra mano
l’altro terrò, perché non mi sia tolto;
se senti alcuna loro ingiuria o torto,
tu puoi dir certo: — Gallicano è morto.

E, voltatosi a’ cavalieri, dice:


     Su cavalier, cotti e neri dal sole,
dal sol di Persia, ch’è cosí fervente!
Il nostro imperador provar ci vuole
tra’ ghiacci e neve di Dacia al presente:
la virtú il caldo e il freddo vincer suole;
periglio, morte alfin stima niente.
Ma facciam prima sacrifizio a Marte,
ché sanza Dio val poco o forza o arte.


Detto questo, fa sacrifizio in qualche luogo dove non sia veduto altrimenti: di poi si parte con lo esercito, e ne va alla impresa di Dacia.


Costanza ad Attica ed Artemia, quale lei converte:


     O care mie sorelle in Dio dilette,
o cara Artemia, o dolce Attica mia;
io credo il vostro padre mi vi dette
non sol per fede o per mia compagnia,
ma acciò che sane, liete e benedette
vi renda a lui quando tornato fia;

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né so come ben far possa quest’io,
se prima sane non vi rendo a Dio.
     O care, o dolci sorelle, sappiate
che questo corpo di lebbra era brutto;
e queste membra son monde e purgate
dall’autore de’ ben, Dio, che fa il tutto:
a lui botai la mia verginitate,
finché sia il corpo da morte destrutto:
e servir voglio a lui con tutto il core:
né par fatica a chi ha vero amore.
     E voi conforto con lo esemplo mio
che questa vita, ch’è brieve e fallace,
doniate liete di buon core a Dio,
fuggendo quel che al mondo cieco piace:
se volterete a lui ogni disio,
arete in questa vita vera pace,
grazia d’aver contra ’l demòn vittoria;
e poi nell’altra vita eterna gloria.

Artemia.


     Madonna mia, io non so come hai fatto:
per le parole sante, quali hai detto,
io sento il cuor giá tutto liquefatto,
arder d’amor di Dio il vergin petto:
e mi senti’ commuovere ad un tratto,
come, parlando, apristi l’intelletto:
di Dio innamorata, son disposta
seguir la santa via che m’hai proposta.

Attica.


     Ed io, madonna, ho posto un odio al mondo,
giá come fussi un capital nemico:
prometto a Dio servare il corpo mondo:
con la bocca e col cuor questo ti dico.

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Costanza.


Sia benedetto l’alto Dio fecondo,
ed io in nome suo vi benedico.
Or siam vere sorelle, al parer mio:
orsú, laudiamo il nostro padre Dio.

Costanza, Artemia ed Attica cantano tutte e tre insieme:


     A te sia laude, o Caritá perfetta
c’hai pien di caritate il nostro cuore;
l’amor, che questi dolci prieghi getta,
pervenga a’ tuoi orecchi, o pio Signore:
questi tre corpi verginali accetta
e gli conserva sempre nel tuo amore.
Della Vergine giá t’innamorasti:
ricevi, o Sposo nostro, i petti casti.



Concione di Gallicano a’ soldati:


     O forti cavalier, nel padiglione
il capitan debb’esser grave e tardo;
ma, quando è del combatter la stagione,
sanza paura sia forte e gagliardo.
Colui, che la vittoria si propone,
non stima spade, sassi, lance o dardo.
Lá è il nimico, e giá paura mostra:
su, diamci drento: la vittoria è nostra.

Affrontasi con gli nimici, e gli è rotto tutto l’esercito; e, restato solo con Giovanni e Paulo, dice:


     Or ecco la vittoria ch’io riporto!
Ecco lo Stato dello imperadore!
Lasso! meglio era a me ch’io fussi morto
in Persia, ché morivo con onore!

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Ma la Fortuna m’ha campato a torto,
acciò ch’io vegga tanto mio dolore.
Almanco fuss’io morto questo giorno!
ché non so come a Costantin ritorno.

Giovanni.


     Quando Fortuna le cose attraversa,
si vuol reputar sempre che sia bene.
Se tu hai oggi la tua gente persa,
ringrazia Dio, ché questo da lui viene.
Non vincerá giamai la gente avversa
chi contra sé vittoria non ottiene;
né vincer altri ad alcuno è concesso,
se questo tal non sa vincer se stesso.
     Forse t’ha Dio a questo oggi condotto,
perché te stesso riconoscer voglia.
E se l’altrui esercito hai giá rotto,
sanza Dio non si volge in ramo foglia.
Quel che può l’uom da sé, mortal, corrotto,
altro non è se non peccato e doglia.
Riconosciti adunque, ed abbi fede
in Dio, dal qual ciaschedun ben procede.

Paulo.


     Non creder che la tua virtute e gloria,
la tua fortezza e ingegno, o Gallicano,
t’abbia con tanto onor dato vittoria:
Dio ha messo il poter nella tua mano.
Perché n’avevi troppo fumo e boria,
Dio t’ha tolto l’onore a mano a mano,
per mostrare alle tue gonfiate voglie
che lui è quel che ’l vincer dá e toglie.
     Ma, se tu vuoi far util questa rotta,
ritorna a Dio, al dolce Dio Gesúe:

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l’idol di Marte ch’è cosa corrotta,
ferma il pensier, non adorar mai piúe;
poi vedrai nuova gente qui condotta,
in numer grande e di maggior virtúe.
Umilia te a Gesú alto e forte,
ché lui sé umiliò fino alla morte.

Gallicano.


     Io non so come a Gesú fia accetto,
se a lui me umilio, come m’è proposto;
ché da necessitá paio costretto
in questo miser stato che m’ha posto.
Io ho sentito alcun cristian, c’ha detto
che Dio ama colui, quale è disposto
dargli il cuor lietamente e voluntario:
la mia miseria in me mostra il contrario.

Giovanni.


     In ogni luogo e tempo accetta Dio
nella sua vigna ciascun operaio;
e ’l padre di famiglia dolce e pio
a chi vien tardi ancor dá ’l suo danaio.
Dá’ pur intero a lui il tuo disio,
poi cento ricorrai per uno staio:
inginòcchiati a Dio col corpo e core;
e lui ti renderá gente ed onore.

Gallicano s’inginocchia e dice.


     O magno Dio, omai la tua potenzia
adoro, e me un vil vérmin confesso.
Se piace alla tua gran magnificenzia,
fa’ che vincer mi sia oggi concesso:
se non ti piace, io arò pazienzia.

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Nel tuo arbitrio, Dio, mi son rimesso:
disposto e fermo non adorar piúe
altro che te, dolce signor Gesúe.

Giovanni, inginocchiati che sono tutti eFonte/commento: Edimburgo, 1912 tre:


     O Dio che desti a Giosué l’ardire
e grazia ancor che ’l sol fermato sia,
e che facesti mille un sol fuggire,
e diecimila due cacciassin via,
e che facesti della fromba uscire
il fatal sasso che ammazzò Golia;
concedi or forza e grazia a questa mano
del tuo umiliato Gallicano.

Un angelo apparisce a Gallicano con una croce in collo, e dice:


     O umil Gallicano, il cor contrito
a Dio è sacrifizio accetto molto;
e però ha li umil tuo’ prieghi udito
ed è pietoso al tuo disio or vòlto:
va’ di buon core in questa impresa ardito,
ché ’l regno fia al re nimico tolto;
daratti grande esercito e gagliardo:
la croce fia per sempre il tuo stendardo.

Gallicano colle ginocchia in terra:


     Questo non meritava il cuor superbo
di Gallicano e la mia vanagloria:
tu m’hai dato speranza nel tuo verbo,
ond’io veggo giá certa la vittoria.
O Dio, la mia sincera fé ti serbo,
sanza far piú de’ falsi dèi memoria.
Ma questa nuova gente onde ora viene?
Solo da Dio, autor d’ogni mio bene.

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E, voltatosi a quelli soldati venuti mirabilmente, dice:


     O gente ferocissime e gagliarde,
presto mettiamo alla cittá l’assedio.
Presto portate sien qui le bombarde
(Dio è con noi: e’ non aran rimedio),
passavolante, archibusi e spingarde,
acciò che non ci tenghin troppo a tedio;
fascine e guastator: la terra è vinta,
né può soccorso aver dal campo cinta.
     Fate i graticci, e’ ripari ordinate
per le bombarde: e’ ponti sien ben forti:
i bombardier securi conservate,
che dalle artiglierie non vi sien morti.
E voi, o cavalieri, armati state
a far la scorta, vigilanti, accorti;
ché ’l pensier venga agli assediati meno,
e le bombarde inchiodate non sièno.
     Tu, Giovanni, provvedi a strame e paglia,
sí che ’l campo non abbi carestia;
venga pan fatto ed ogni vettovaglia;
e Paulo sará teco in compagnia.
Fate far scale onde la gente saglia.
Quando della battaglia tempo fia,
ciascun sia pronto a far la sua faccenda.
Sol Gallican tutte le cose intenda.
     Fate tutti i trombetti ragunare
súbito; fate il consueto bando:
ché la battaglia io vorrò presto dare.
L’esercito sia in punto al mio comando:
chi sará il primo alle mure a montare,
mille ducati per premio gli mando,
cinquecento e poi cento all’altra coppia;
e la condotta a tutti si raddoppia.

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Trombetto.


     Da parte dello invitto capitano
si fa intendere a que’ che intorno stanno,
se non si dá la terra a mano a mano
al campo, sará data a saccomanno;
né fia pietoso poi piú Gallicano;
e chi ará poi il male, abbiasi il danno.
A’ primi montator dare è contento,
per gradi, mille, cinquecento e cento.

Fassi la battaglia, e pigliano il re.


Il re preso dice:


     Chi confida ne’ regni e negli Stati
e sprezza con superbia gli alti dèi,
la cittá in preda e me legato or guati,
e prenda esemplo da’ miei casi rei.
O figli, ecco i reami ch’io v’ho dati,
ecco l’ereditá de’ padri miei!
Voi e me, lassi! avvolge una catena;
con l’altra preda il vincitor ci mena.

E, voltatosi a Gallicano, dice:


     E tu, nelle cui man Fortuna ha dato
la vita nostra ed ogni nostra sorte,
bastiti avermi vinto e subiugato,
arsa la terra, ucciso il popol forte:
e non voler che vecchio io sia campato,
per veder poi de’ miei figliuol la morte.
Per vincer si vuol fare ogni potenzia,
ma dopo la vittoria usar clemenzia.
     Io so che se’ magnanimo e gentile,
e in cor gentil so pur pietá si genera:

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se non ti muove l’etá mia senile,
muovati l’innocenzia e l’etá tenera:
uccidere un legato è cosa vile,
e la clemenzia ciascun lauda e venera:
il regno è tuo; la vita a noi sol resti,
la qual a me per brieve tempo presti.

Il principe, uno de’ figliuoli del detto re, dice:


     Noi, innocenti e miser figli suoi
(poiché Fortuna ci ha cosí percossi),
preghiam salvi la vita a tutti noi,
piacendoti; e, se ciò impetrar non puossi,
il nostro vecchio padre viva, e poi
non ci curiam da vita esser rimossi.
Se pur d’uccider tutti noi fai stima,
fa’ grazia almeno a noi di morir prima.

Gallicano.


     La pietá vostra m’ha sí tócco il core,
che d’aver vinto ho quasi pentimento:
ad ogni giuoco un solo è vincitore,
e l’altro vinto de’ restar contento.
Dell’una e l’altra etá, pietá, dolore;
lo esemplo ancor della Fortuna sento:
però la vita volentier vi dono,
insin che a Costantin condotto sono.



Il messo, che porta le nuove della vittoria a Costantino, dice cosí:


     O imperador, buone novelle porto.
Gallican tuo ha quella cittá presa;
e credo che ’l re sia o preso o morto:
vidi la terra tutta in fiamma accesa.

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Per esser primo a darti tal conforto,
non so i particolar di questa impresa.
Basta, la terra è nostra; e questo è certo.
Dammi un buon beveraggio, ch’io lo merto.

Costantino.


     Io non vorrei però error commettere,
credendo tai novelle vere sièno.
Costui di Gallican non porta lettere;
la bugia in bocca e ’l ver portano in seno.
Orsú, fatelo presto in prigion mettere:
fioriranno, se queste rose fièno:
se sará vero, arai buon beveraggio;
se no, ti pentirai di tal viaggio.

Torna in questo Gallicano, e dice a Costantino:


     Ecco, il tuo capitan vittorioso
ritorna a te dalla terribil guerra,
d’onor, di preda e di prigion copioso;
ecco il re giá signor di quella terra.
Ma sappi ch’ella andò prima a ritroso,
ché chi fa cose assai spesso ancor erra:
pur, con l’aiuto che Dio ci ha concesso,
abbiam la terra e ’l regno sottomesso.

Il re preso a Costantino dice:


     O imperadore, io fui signore anch’io;
or servo e prigion son io e’ miei figli.
Se la Fortuna, ministra di Dio,
questo ha voluto, ognuno esemplo pigli;
ed ammonito dallo stato mio,
de’ casi avversi non si maravigli.
Il vincer è di Dio dono eccellente,
ma piú nella vittoria esser clemente.

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Costantino risponde:


     L’animo che alle cose degne aspira,
quanto può cerca simigliare Dio:
vincer si sforza e superar desira
finché contenta il suo alto desio;
ma poi lo sdegno conceputo e l’ira,
l’offesa mette subito in oblio.
Io ti perdono, e posto ho giú lo sdegno:
non voglio il sangue, ma la gloria e ’l regno.

E, vòltosi a Gallicano:


     O Gallican, quando tu torni a me,
sempre t’ho caro ancor sanza vittoria:
or pensa adunque quanto car mi se’,
tornando vincitor con tanta gloria;
veder legato innanzi agli occhi un re:
cosa che sempre arò nella memoria.
Ma dimmi: questa croce, onde procede,
che porti teco? hai tu mutato fede?

Risponde Gallicano a Costantino:


     Io non ti posso negar cosa alcuna:
or pensa se negar ti posso ’l vero;
il ver, che mai a persona nessuna
di negarlo uom gentil de’ far pensiero.
Di questa gloriosa mia fortuna
rendute ho grazie a Dio, or in San Piero.
Perché ’l vincer da Cristo è sol venuto,
porto il suo segno, e l’ho da Cristo avuto.
     Io t’accennai nelle prime parole,
in effetto fui rotto e fracassato.
Campò di tanti tre persone sole:
io e questi duo’ cari qui dallato;

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facemmo tutt’a tre come far suole
ciascun che viene in vile e basso stato:
chi non sa e non può, tardi (s’occorre)
per ultimo rimedio a Dio ricorre.
     Tu intenderai da Paulo e Giovanni,
per grazia e per miraculo abbiam vinto.
Conosciuto ho de’ falsi dèi gl’inganni,
della fede di Cristo armato e cinto;
disposto ho dare a lui tutti i miei anni,
quieto e fuor del mondan labirinto:
e di Costanza, sutami concessa,
t’assolvo, imperador, della promessa.

Costantino.


     Tu non mi porti una vittoria sola,
né sola un’allegrezza in questa guerra;
tu m’hai renduto un regno e la figliuola,
piú cara a me che l’acquistata terra.
E, poi che se’ della cristiana scuola
ed adori uno Dio che mai non erra,
puoi dir d’aver te renduto a te stesso:
Dio tutte queste palme t’ha concesso.
     E, per crescer la tua letizia tanta,
intenderai altre miglior novelle:
perché Costanza, la mia figlia santa,
ha convertite le tue figlie belle:
e tutti siate rami or d’una pianta,
e in ciel sarete ancor lucenti stelle:
per suoi vuol Gallican, Attica, Artemia
Dio, che per grazia e non per merto premia.

Gallicano.


     Miglior novelle, alto Signore e degno,
ch’io non ti porto, or tu mi rendi indrieto:
ché, s’io ho preso e vinto un re e ’l regno,

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son delle mie figliuole assai piú lieto;
che, convertite a Dio, han certo pegno
di vita eterna, che fa ’l cor quieto:
chi sottomette i re e le province
non ha vittoria, ma chi ’l mondo vince.
     Chi vince il mondo e’ l diavol sottomette
è di vera vittoria certo erede;
e ’l mondo è piú che le province dette,
e ’l diavol re, che tutto lo possiede:
sol contra lui vittoria ci promette
e vince il mondo sol la nostra fede:
adunque questa par vera vittoria,
che ha per premio poi eterna gloria.
     Però, alto signor, se m’è permesso
da te, io vorrei starmi in solitudine,
lasciare il mondo, e viver da me stesso,
la corte e ogni ria consuetudine.
Per te piú volte ho giá la vita messo,
pericoli e fatiche in multitudine;
per te sparto ho piú volte il sangue mio:
lascia me in pace servire ora a Dio.

Costantino.


     Quand’io penso al mio stato e all’onore,
par duro a licenziarti, o Gallicano;
ché, sanza capitan, lo imperadore
si può dir quasi un uom sanza la mano;
ma, quand’io penso poi al grande amore,
ogni pensier di me diventa vano:
stimo piú te che alcuno mio periglio,
e laudo molto questo tuo consiglio.
     Benché mi dolga assai la tua partita,
per tua consolazion te la permetto.
Ma, poiché Dio al vero ben t’invita,
séguita ben, sí come hai bene eletto;

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ché brieve e traditora è questa vita,
né altro al fin che fatica e dispetto:
metti ad effetto i pensier santi e magni,
ché arai ben presto teco altri compagni.

Gallicano si parte, e di lui non si fa piú menzione.




Costantino lascia lo imperio a’ figliuoli, e dice:


     O Costantino, o Costanzio, o Costante,
o figliuoi miei, del mio gran regno eredi,
voi vedete le membra mie tremante
e ’l capo bianco e non ben fermi i piedi:
questa etá, dopo mie fatiche tante,
vuol che qualche riposo io li concedi;
né puote un vecchio bene, a dire il vero,
reggere alle fatiche d’un impero.
     Però, s’io stessi in questa regal sede,
saria disagio a me, al popol danno;
l’etá riposo, e ’l popol signor chiede:
di me medesmo troppo non m’inganno.
E chi sará di voi del regno erede,
sappi che ’l regno altro non è che affanno,
fatica assai di corpo e di pensiero;
né, come par di fuor, dolce è l’impero.
     Sappiate che chi vuole il popol reggere,
debbe pensare al bene universale;
e chi vuol altri dagli error correggere,
sforzisi prima lui di non far male:
però conviensi giusta vita eleggere,
perché lo esemplo al popol molto vale,
e quel che fa il signor, fanno poi molti,
ché nel signor son tutti gli occhi vòlti.
     Non pensi a util proprio o a piacere,
ma al bene universale di ciascuno:
bisogna sempre gli occhi aperti avere;

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gli altri dormon con gli occhi di quest’uno;
e pari la bilancia ben tenere;
d’avarizia e lussuria esser digiuno;
affabil, dolce e grato si conservi:
il signor dee esser servo de’ servi.
     Con molti affanni ho questo imperio retto,
accadendo ogni dí qualcosa nuova:
vittoriosa la spada rimetto,
per non far piú della fortuna pruova,
ché non sta troppo ferma in un concetto;
chi cerca assai, diverse cose truova:
voi proverete quanto affanno e doglia
dá il regno, di che avete tanta voglia.


Costantin padre, detto che ha queste parole, si parte e se ne va copertamente, e di lui non si ragiona piú.


Costantino figliuolo alli due altri fratelli dice cosí:


     Cari fratei, voi avete sentito
di nostro padre le savie parole:
di non governar piú preso ha partito.
Succeder uno in questo imperio vuole;
ché, se non fussi in un sol fermo e unito,
saria diviso, onde mancar poi suole:
io sono il primo; a me dá la natura
e la ragion ch’io prenda questa cura.


Costante, uno de’ fratelli, dice:


     Io, per me, molto volontier consento
che tu governi, come prima nato:
e, se di te, o fratel, servo divento,
questo ha voluto Dio e ’l nostro fato.

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Costanzo, l’altro fratello.


Ed io ancor di questo son contento,
perché credo sarai benigno e grato:
io minor cedo, poiché ’l maggior cede.
Or siedi ormai nella paterna sede.

Il nuovo imperadore.


     O dolci frati, poiché v’è piaciuto
che, di fratel, signor vostro diventi,
e che dal mondo tutto abbi tributo
e signoreggi tante varie genti,
l’amor fraterno sempre fra noi suto
sempre cosí sará, non altrimenti:
se fortuna mi dá piú alti stati,
siam pur d’un padre e d’una madre nati.

Un servo.


     O imperadore, e’ convien ch’io ti dica
quel che tener vorrei piú presto occulto.
Una parte del regno t’è nimica,
e rebellata è mossa in gran tumulto:
perché tuo padre piú non vuol fatica,
contra a’ tuoi officiali han fatto insulto,
né stimon piú i tuoi imperi e bandi:
convien che grande esercito vi mandi.

Imperadore.


     Ecco la profezia del padre mio,
che disse che ’l regnare era un affanno,
a pena in questa sede son post’io,
ch’io lo conosco con mio grave danno:

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in questo primo caso spero in Dio
che questi tristi puniti saranno.
O Costanzio, o Costante, presto andate
con le mie genti, e i tristi gastigate.
     Io non ho piú fidati capitani;
sapete ben che questo imperio è vostro:
poiché ’l metteste voi nelle mie mani
potete dir veramente: — Egli è nostro. —

Costante e Costanzio rispondono, dicendo:


I tuoi comandamenti non fien vani:
andrem per quel cammin, il qual ci hai mostro,
e perché presto tal fuoco si spenga,
noi ci avviamo, e ’l campo drieto venga.

Imperadore.


     In ogni luogo aver si vuol de’ suoi,
che son di piú amore e miglior fede.
Andate presto o uno o due di voi
al tempio dove lo dio Marte siede,
e farete ammazzar pecore e buoi;
ché gran tumulto mosso esser si vede;
pregando Dio che tanto mal non faccia,
quanto in questo principio ci minaccia.

Un fante dice:


     O imperador, io vorrei esser messo
di cose liete e non di pianti e morte:
pur tu hai a saper questo processo
da me o da altri: a me tocca la sorte.
Sappi che ’l campo tuo in rotta è messo,
e morto o preso ogni guerrier piú forte;
e’ tuo’ fratelli ancora in questa guerra
morti reston con gli altri su la terra.

[p. 104 modifica]


Imperadore.


     O padre Costantin, tu mi lasciasti
a tempo questo imperio e la corona.
A tanto mal non so qual cor si basti
o qual fortezza sia costante e buona.
Ecco or l’imperio, ecco le pompe e’ fasti,
ecco la fama e’ l nome mio che suona!
Non basta tutto il mondo si ribelli;
c’ho perso ancora i miei cari fratelli.

Uno lo conforta e dice:


     O signor nostro, quando il capo duole,
ogn’altro membro ancor del corpo pate.
Perdere il cor sí presto non si vuole:
piglia del mal, se v’è, niuna bontate.
Chi sa quel che sia meglio? Nascer suole
discordia tra fratei molte fiate:
forse che la fortuna te gli ha tolti,
acciò che in te sol sia quel ch’era in molti.
     Ritorna in sedia e lo scettro ripiglia,
ed accomoda il core a questo caso,
e prendi dello imperio in man la briglia,
e Dio ringrazia che se’ sol rimaso.

Lo imperadore dice:


Io vo’ far quel che ’l mio fedel consiglia
e quel che la ragion m’ha persuaso;
tornar in sedia, come mi conforti:
co’ vivi i vivi, i morti sien co’ morti.
     Io so che questa mia persecuzione
da un error che io fo, tutto procede;
perch’io sopporto in mia iurisdizione

[p. 105 modifica]

questa vil gente, quale a Cristo crede:
io vo’ levar, se questa è la cagione,
perseguitando, questa vana fede;
uccidere e pigliar sia chi si voglia.
Oimè, il cor! quest’è l’ultima doglia.

Dette queste parole, si muore, e quelli che restono si consigliano, ed uno di loro parla:


     Noi siam restati sanza capo o guida:
l’imperio a questo modo non sta bene:
il popol rugghia, e tutto ’l mondo grida.
Far nuovo successor presto conviene.
Se c’è tra noi alcun che si confida
trovare a chi lo imperio s’appartiene,
presto lo dica: ed in sedia sia messo.
Quant’io per me, non so giá qual sia desso.

Un altro.


     E’ c’è Giulian, di Costantin nipote,
ché, benché mago e monaco sia stato,
è di gran cuore, e d’ingegno assai puote,
ed è del sangue dello imperio nato:
bench’egli stia in parte assai remote,
verrá, sentendo il regno gli sia dato.

Un terzo.


Questo a me piace.

Un quarto dice:


                                   Ed a me molto aggrada.

Primo.


Orsú! presto, per lui un di noi vada.

[p. 106 modifica]


Giuliano, nuovo imperadore.


     Quand’io penso chi stato è in questa sede,
non so s’io mi rallegri o s’io mi doglia
d’esser di Giulio e d’Augusto erede;
né so se imperadore esser mi voglia.
Allor, dove quest’aquila si vede,
tremava il mondo, come al vento foglia:
ora in quel poco imperio che ci resta
ogni vil terra vuol rizzar la cresta.
     Da quella parte lá, donde il sol muove,
infin dove poi stracco si ripone,
eron temute le romane pruove:
or siam del mondo una derisione.
Poiché fûr tolti i sacrifizi a Giove,
a Marte, a Febo, a Minerva, a Giunone,
e tolto è ’l simulacro alla Vittoria,
non ebbe questo imperio alcuna gloria.
     E però son fermamente disposto,
ammonito da questi certi esempli,
che ’l simulacro alla Vittoria posto
sia al suo luogo, e tutti aperti i templi;
e ad ogni cristian sia tolta tosto
la roba, acciò che libero contempli;
ché Cristo disse a chi vuol la sua fede:
«Renunzi a ogni cosa ch’e’ possiede».
     Questo si truova ne’ Vangeli scritto:
io fui cristiano, allor lo intesi appunto.
E però fate far pubblico editto:
«Chi è cristian, roba non abbi punto
— né di questo debb’esser molto afflitto
chi veramente con Cristo è congiunto: —
la roba di colui che a Cristo creda
sia di chi se la truova giusta preda».

[p. 107 modifica]


Uno, che accusa Giovanni e Paulo.


     O imperador, in Ostia, giá molti anni,
posseggon roba e possession assai
due cristiani, cioè Paulo e Giovanni,
né il tuo editto obbedito hanno mai.

Giuliano imperadore.


Costor son lupi, e di pecore han panni;
ma noi gli toserem, come vedrai.
Va’ tu medesmo; usa ogni diligenzia,
acciò che sian condotti in mia presenzia.
     Che val signor, che obbedito non sia
da’ suoi soggetti, e massime allo inizio?
Perché un rettor d’una podesteria
ne’ primi quattro dí fa il suo offizio:
bisogna conservar la signoria
reputata, con pena e con supplizio.
Intendo, poi ch’io son quassú salito,
ad ogni modo d’essere obbedito.

A Giovanni e Paulo, condotti dinanzi all’imperadore, esso imperadore Giuliano dice:


     Molto mi duol di voi, dappoi ch’io sento
che siate cristian veri e battezzati;
ché, benché assai fanciullo, io mi rammento
quanto eri a Costantin, mio avol, grati:
pure stimo piú il mio comandamento;
ché la reputazion mantien gli Stati.
Ora, in poche parole: o voi lasciate
la roba tutta, ovver Giove adorate.

[p. 108 modifica]


Giovanni e Paulo.


     Come a te piace, signor, puoi disporre
della roba, e la vita anche è in tua mano:
questa ci puoi, quando ti piace, tôrre;
ma della fede ogni tua pruova è invano.
E chi a Giove, vano dio, ricorre,
erra; e ben crede ogni fedel cristiano:
vogliamo ir per la via che Gesú mostra:
fa’ quel che vuoi; questa è la voglia nostra.

Giuliano imperadore dice:


     S’io guardassi alla vostra ostinazione,
io farei far di voi crudele strazio:
pietá di voi mi fa compassione;
se non, del vostro mal mai sare’ sazio.
Ma il tempo spesse volte l’uom dispone:
però vi do di dieci giorni spazio
a lasciar questa vostra fede stolta;
e se no, poi vi sia la vita tolta.
     Or va’, Terenziano, e teco porta
di Giove quella bella statuetta;
e in questi dieci di costor conforta
che adorin questa, e Cristo si dimetta:
se stanno forti a ir per la via torta,
il capo lor giú dalle spalle getta.
Pensate ben, se la vita v’è tolta,
che non ci si ritorna un’altra volta.

Giovanni e Paulo.


     O imperadore, invan ci dái tal termine,
però che sempre buon cristian saremo:
il zel di Dio e questo dolce vermine
ci mangia e mangerá fino allo estremo:

[p. 109 modifica]

il gran, che muore in terra, sol par germine;
per morte adunque non ci pentiremo:
e, se pur noi ci potessim pentire,
per non potere abbiam caro il morire.
     Dunque fa’ pur di noi quel che tu vuoi:
paura non ci fa la morte atroce.
Ecco! giú ’l collo lieti porrem noi
per Quel che pose tutto ’l corpo in croce.
Tu fusti pur ancor tu giá de’ suoi;
or sordo non piú odi la sua voce.
Fa’ conto questo termin sia passato:
il corpo è tuo, lo spirito a Dio è dato.

Giuliano imperadore.


     E’ si può bene a forza a un far male,
ma non giá bene a forza è far permesso:
nella legge di Cristo un detto è tale:
che «Dio non salva te sanza te stesso»:
e questo detto è vero e naturale
(benché tal fede vera non confesso).
Da poi che il mio pregar con voi è vano,
va’, fa’ l’officio tuo, Terenziano.

Terenziano a Giovanni e Paulo dice:


     E’ m’incresce di voi, che, giovinetti,
andate come pecore al macello.
Deh! pentitevi ancor, o poveretti,
prima che al collo sentiate il coltello.

Giovanni.


Se a questa morte noi saremo eletti,
fu morto ancor lo immaculato Agnello.
Non ti curar de’ nostri teneri anni:
la morte è uno uscir di molti affanni.

[p. 110 modifica]


Terenziano.


     Questa figura d’oro che in man porto
l’onnipotente Giove rappresenta:
non è meglio adorarla ch’esser morto,
poiché lo imperador se ne contenta?

Paulo.


Tu se’, Terenzian, pur poco accorto:
chi dice: — Giove è Dio, — convien che menta:
Giove è pianeta, che il suo ciel sol muove;
ma piú alta potenzia muove Giove.

Giovanni.


     Ma ben faresti tu, Terenziano,
se adorassi il dolce Dio Gesúe.

Terenziano.


Quest’è appunto quel che vuol Giuliano:
e meglio fia non se ne parli piúe.
Qua venga il boia: e voi di mano in mano,
per esser morti, vi porrete giúe.
Su, mastro Pier, gli occhi a costor due lega,
ch’i’ veggo il ciambellotto ha fatto piega.

Posti ginocchioni con gli occhi legati, insieme dicono cosí:


     O Gesú dolce misericordioso,
che insanguinasti il sacrosanto legno
del tuo sangue innocente e prezioso
per purgar l’uomo e farlo del ciel degno;
volgi gli occhi a due giovani, pietoso,
che speran rivederti nel tuo regno.
Sangue spargesti e sangue ti rendiamo:
ricevilo, ché lieti te lo diamo.

[p. 111 modifica]


Giuliano imperadore.


     Chi regge imperio e in capo tien corona,
sanza reputazion, non par che imperi;
né puossi dir sia privata persona:
rappresentano il tutto i signor veri.
Non è signor chi le cure abbandona
e dássi a far tesoro o a’ piaceri:
di quel raguna, e le cure lasciate,
e del suo ozio, tutto il popol pate.
     Se ha grande entrata, per distribuire
liberalmente e con ragion, gli è data:
faccia che ’l popol non possa patire
dall’inimici, e tenga gente armata.
Se ’l grano è caro, debbe suvvenire
ché non muoia di fame la brigata:
a’ poveretti ancor supplir conviene.
E cosí ’l cumular mai non è bene.
     La signoria, la roba dello impero,
giá non è sua, anzi del popol tutto;
e, benché del signor paia lo ’ntero,
non è né ’l posseder, né l’usufrutto;
ma distribuitore è ’l signor vero:
l’onore ha sol di tal fatica frutto;
l’onor, che fa ogn’altra cosa vile,
ch’è ben gran premio al core alto e gentile.
     Lo stimol dell’onor sempre mi punge,
la fiamma della gloria è sempre accesa:
questa sproni al caval, che corre, aggiunge,
e vuol ch’io tenti nuova e grande impresa
contra’ Parti, che stanno sí da lunge,
da’ quai fu Roma molte volte offesa:
e di molti romani il sangue aspetta,
sparso da lor, ch’io faccia la vendetta.
     Però sien tutte le mie gente in punto
a compagnarmi a questa somma gloria.

[p. 112 modifica]

Su, volentier! non dubitate punto:
a guerra non andiamo, anzi a vittoria:
con la vostra virtú so ch’io li spunto.
Le ingiurie antiche ho ancor nella memoria:
il sangue di que’ buon vecchion romani
fia vendicato per le vostre mani.
     E’ fûrno i padri, di che siam discesi;
onde conviensi la vendetta al filio.
Mettete in punto tutti vostri arnesi;
fate ogni sforzo: questo è il mio consilio:
a una fava due colombi presi
saranno; ché in Cesárea è ’l gran Basilio,
nimico mio, amico di Gesúe:
s’io ’l truovo lá, non scriverá mai piúe.
     Su, tesorier, tutte le gente spaccia:
quattro paghe in danar, due in panni e drappi;
e fa’ che lor buon pagamenti faccia:
convien far fatti, e non che ciarli o frappi.
Fate venire innanzi alla mia faccia
gli astrologi, ché ’l punto buon si sappi;
Marte sia ben disposto e ben congiunto.
Ditemi poi quando ogni cosa è in punto.

Il vescovo santo Basilio dice cosí:


     O Padre eterno, apri le labbra mia,
e la mia bocca poi t’ará laudato:
donami grazia che ’l mio orare sia
sincero e puro e sanza alcun peccato:
la Chiesa tua, la nostra madre pia,
perseguitata veggio d’ogni lato;
la Chiesa tua, da te per sposa eletta:
fa’ ch’io ne vegga almen qualche vendetta.

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La Vergine Maria

apparisce sopra la sepultura di santo Mercurio, e dice:


     Esci, Mercurio, della oscura tomba;
piglia la spada e l’arme giá lasciate.
Sanza aspettar del Giudizio la tromba,
da te sien le mie ingiurie vendicate.
Il nome tristo di Giulian rimbomba
nel cielo e le sue opre scellerate.
Il cristian sangue vendicato sia:
sappi ch’io son la Vergine Maria.
     Giuliano imperador per questa strada
debbe passare, o martir benedetto:
dágli, Mercurio, con la giusta spada,
sanza compassïone, a mezzo al petto:
non voglio tanto error piú innanzi vada,
per pietá del mio popol poveretto:
uccidi questo rio venenoso angue,
il qual si pasce sol del cristian sangue.

Il tesoriere torna allo imperadore, e dice:


     Invitto imperador, tutta tua gente
in punto sta al tuo comandamento
coperta d’arme belle e rilucente,
e pargli d’appiccarsi ogn’ora cento:
danari ho dati lor copiosamente:
se gli vedrai, so ne sarai contento:
mai non vedesti gente piú fiorita,
armata bene, obbediente, ardita.

Gli astrologi, che fece chiamare lo imperadore, dicono:


     O imperador, noi ti facciam rapporto.
Secondo il cielo, e’ c’è un sol periglio,
il qual procede da un uom ch’è morto.
Forse ti riderai di tal consiglio.

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Lo imperadore dice:


S’io non ho altro male, io mi conforto:
se un morto nuoce, io me ne maraviglio:
guardimi Marte pur da spade e lance;
ché queste astrologie son tutte ciance.
     Il re e ’l savio son sopra le stelle:
ond’io son fuor di questa vana legge:
i buon punti e le buone ore son quelle
che l’uom felice da se stesso elegge.
Fate avviar le forti gente e belle:
io seguirò, pastor di questa gregge.
O valenti soldati, o popol forte,
con voi starò, alla vita, alla morte.


Giuliano partesi con l’esercito.

E, nel cammino ferito mortalmente da Santo Mercurio, dice:


     Mirabil cosa! in mezzo a tanti armati
stata non è la mia vita secura.
Questi non son de’ Parti fèr gli agguati;
la morte ho avuta innanzi alla paura.
Un solo ha tanti cristian vendicati.
Fallace vita! oh nostra vana cura!
Lo spirto è giá fuor del mio petto spinto.
O Cristo Galileo, tu hai pur vinto.