Novelle gaje/Divina gioventù
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DIVINA GIOVENTÙ.
A disdeut ani ch’el mond a lè bel!
(Quanto è bello il mondo a diciotto anni!) |
I.
Nella sua qualità d’uomo serio apparteneva anzitutto al paese; e un po’ qua un po’ là alle varie accademie e clubs, non escluso il Parlamento e l’Associazione costituzionale.
Gli restava uno spirito distratto, un sorriso a fior di labbro, un repertorio di complimenti usati e una cortesia convenzionale.
Troppo poco per interessarmi — e dovevamo restare insieme cinque ore di strada ferrata!
Egli mi aveva già parlato di teatri ripetendo le medesime opinioni del suo giornale — di politica idem, idem — di letteratura come sopra.
Tutti gli uomini si somigliano al giorno d’oggi. La costanza dovrebbe perdere i suoi meriti di virtù. A che scopo cambiare? Poichè A. B. C. si informano su D. E. F. per eguagliare I. K. L...
Ciro Garzes dunque mi annoiava.
I suoi discorsi li avevo letti la sera prima; le sue galanterie mi facevan l’effetto del suono delle campane — le riconoscevo ad una ad una come vecchie amicizie; questa è di San Satiro, quella è la Passione... un po’ rauca; ecco Santa Maria Segreta e la Corte... palese.
— Basta, basta — lo interruppi — non avete proprio niente di nuovo?
— Egli è che sono vecchio, mia buona amica!
— Tanto meglio. Non ci è nulla di così nuovo come l’antico.
— Scherzate?
— Ma no. Il nuovo, cioè il contemporaneo, lo conosco, dunque non è più nuovo; l’antico lo ignoro e per me sarà una novità.
— Se potessi tornare indietro venti o trent’anni!
— Ebbene tornate e rimorchiatemi. Non sarete sempre stato così freddo e scolorito, suppongo. Un’occhiata retrospettiva alle speranze, alle illusioni, alle care follie della gioventù desterà forse una scintilla d’entusiasmo nel vostro petto immobile sotto il vostro panciotto inamidato. Prima di diventare cittadino elettore ed eleggibile sarete stato uomo, avrete scorrazzato per i campi col fucile in ispalla e il cappello di traverso prima di imparare l’equilibrio burocratico della vostra tuba lucida sulla vostra scriminatura compassata!
Un sospiro sollevò l’ampio torace di Ciro Garzes, e la sua cravatta Windsor - fashion — P C. e C. — M London si scompose leggermente nel triplice nodo.
Un villanello zuffolava dentro un campo di segale; vedendo passare il treno alzò la faccia ilare e curiosa sulla quale sorrideva la serena confidenza dei vent’anni.
— Divina gioventù! — esclamò il mio amico guardandolo. — Ebe dalle dita rosee e dai fragranti capelli diffusi in nimbi d’oro sulle immortali forme!
— Bene! Bravo! Ridiventatemi poeta e crederò che tutto non è morto ancora nel vostro cuore. Avanti.
Egli lasciò cadere le braccia scoraggiato:
— Come posso parlarvi di gioventù e di poesia alla mia età?
— Magnificamente e con conoscenza di causa. Non si giudica mai bene una battaglia finchè si è nella mischia; la polvere accieca e il frastuono assorda; ma quando deposte le armi si contempla tranquilli il passato col sorriso indulgente del soldato e del filosofo, allora è tempo di scernere. il vero dal falso e la poesia sposata all’esperienza riesce più robusta e più vera. I giovani sono cattivi parlatori perchè corrono avanti col pensiero nei bugiardi vortici della speranza; preferisco la parola calma ed arguta dell’età che ricorda. Suvvia, narratemi qualche episodio della vostra vita di studente.
— Temo di accrescere la mia malinconia e per conseguenza la vostra noia rifacendo nella mente una vita che non esiste più.
— E perchè dovreste pensarvi con malinconia? La gioventù è lotta, la vecchiaia è riposo (badavo a tirare in lungo il discorso perchè non avesse a cadere affatto). Entrambi hanno i loro piaceri, quella più acuti, questa più profondi. Noi abbiamo l’abitudine di rimpiangere sempre il passato, qualunque esso sia; ma ditemi poi il vero, ora che l’esperienza vi ha aperto gli occhi, bramereste proprio sinceramente di tornare indietro?...
Non vi credo. Lo splendore delle rimembranze vi attira per un istante, ma non vorreste a patto di libare ancora l’ambrosia stillante dai cappelli d’Ebe, rifare l’ardua salita. Una forza invincibile ci spinge a proseguire, come l’onda che incalza l’onda e non ritorna mai nel solco che ha lasciato. Anch’io grido con voi: «O divina gioventù!» e vi penso con tenerezza come ad una madre dal cui seno fecondo ho succhiato il latte della scienza; vi penso con amore come alle idoleggiate sembianze della persona cara, ma vi penso anche con un segreto orgoglio misto a vaghezza di pace che mi fa esclamare guardando i giovani: «Correte pesciolini all’acqua dolce! io mi avvio tranquilla in porto e vi aspetto per detergere con mano pietosa l’assenzio che resterà sulla vostra bocca.»
— E come toglierete voi quell’assenzio quando mancano ad un tratto fede, illusioni, entusiasmo?
Mi vennero in mente quei cari versi di Arrigo Boito:
Colma il tuo cuor d’un palpito ineffabile e vero |
Li ridissi e soggiunsi:
— Lasciate aperto il vostro cuore; che il vento vi soffi le rose d’Anacreonte o l’ellera di Parini, che importa? Ma Dio mi perdoni, vi faccio una lezione di metafisica, e quantunque l’altra metà sia morale...
— Se Dio mi ascolta, non vi perdonerà, perchè aborro le freddure; ma via, sono disposto a lasciarvi frugare nel mio passato. Che sperate di trovarvi? Un romanzo?
— Avete gioito?
— Un poco.
— Avete sofferto?
— Qualche volta.
— Avete amato?
— Ma... certamente.
— Ebbene, ecco il romanzo.
⁂
— Non avrete la crudeltà di pretendere — disse Ciro Garzes — ch’io vi racconti un’avventura amorosa.
— Ho detto questo? E poi dove sarebbe la discrezione?
— Senza parlare del ridicolo in cui mettereste un pover’uomo obbligato a frasi di questo genere: Ella mi adorava, non pensava che a me. In coscienza tali cose non si possono più ripetere a quarant’anni suonati.
— Narrate quello che volete; forse che la gioventù è soltanto amore? od è amore soltanto quello che si chiama così? A meno di avere una tempra eccessivamente erotica si trascorrono anni ed anni in una beata placidezza, amando i fiori, gli uccelli e i cani, i pasticcini di frutta, le canzoni di guerra, i giornali illustrati e le merende sull’erba e forse sono questi gli anni più intimamente felici.
— Avete ragione. Io mi ricordo che dai quindici ai diciotto le donne mi occupavano meno della mia pipa che tentavo di annerire e non avrei dato il mio carniere pieno di allodole per la più bella delle tre Grazie. Avevo allora un amico, un matto, uno scavezzacollo peggio di me; ne facevamo d’ogni colore. Per dieci miglia all’intorno suonavano i nostri nomi terrore delle massaie alle quali uccidevamo i polli, dei contadini a cui si devastavano i campi per levare a volo le quaglie e sopratutto delle ragazze che non potevano preservare la porta delle loro case da certe caricature briccone dovute al precoce talento artistico d’Oreste. Noi tagliavamo la corda dove la moglie del farmacista sciorinava il suo bucato e più d’una volta entrammo in chiesa nell’ora delle litanie a cantare i versi dell’Ariosto.
— Mi congratulo con voi! eravate un bel soggetto, molto diverso da quello che vi dipinge la Gazzetta del vostro partito nella recente perorazione agli elettori «uomo nutrito di studî seri e profondi, frutto d’una operosa gioventù.»
— Infatti! — esclamo ridendo Ciro Garzes — il mio amico ed io lavorammo per più giorni a scavare un buco invisibile nella muraglia che circondava l’orto del curato; egli aveva il più bell’albero di fichi che si potesse immaginare, e facevano molta invidia a noi che versati nei buoni studî classici ripetevamo con coscienza:
. . . . . tra li lazzi sorbi |
Vi dirò che nel nostro concetto metaforico sì, ma poco reverente, li lazzi sorbi erano il curato, la perpetua e il sagrestano. Oreste ed io avevamo uno stomaco eccellente per digerire i fichi, quantunque gli almanacchi igienici e i trattatali di scienza per il popolo avvertano essere questo il più indigesto dei frutti; io in quel tempo non me ne sono mai accorto.
Ma ben presto invece si accorse il sagrestano di quella tal breccia nel muro e ne fece un baccano del diavolo, la qual cosa, per un uomo che frequentava la casa di Dio, ci parve così sconveniente, ad Oreste e a me, che decidemmo di fargli una burla per inculcargli la tolleranza e l’amor del prossimo. Trovato modo di penetrare nell’usciolo del campanile, ci collocammo in modo da abbrancare la corda e tirarla colle nostre due forze riunite proprio nel momento che il sagrestano l’aveva pigliata per suonare le campane... Vi rappresentate bene la situazione? Il poveraccio, balzato improvvisamente nelle alte sfere, si dondolava al capo della fune e si contorceva in sì strane pose che noi contemplandolo a volo d’uccello non potevamo trattenere le risa.
— Monelli!
— Sapete che quell’età è senza compassione; lo disse il poeta, ed è vero. Io però feci osservare ad Oreste che la burla non doveva eccedere i limiti dell’onesto. Egli mi diede retta e depose delicatamente al suolo la nostra vittima; pareva un grosso pipistrello caduto dal tetto.
— Ma non ebbe nessuna velleità di pigliare un crocifisso dall’altare e picchiarlo di santa ragione sulle vostre teste balzane?
— Pare di no, anzi diventammo i migliori amici del mondo.
— O uomini!
Il treno si era fermato; eravamo alla stazione di Verdello.
I bei colli bergamaschi rompevano in linee azzurre il sereno uniforme del cielo; si sentiva l’aria pura della valle Brembana e l’olezzo dei gelsi montanini, ed io seguivo coll’occhio del pensiero il corso tranquillo dell’Adda attraverso le ubertose campagne e gli allegri paeselli che tante care memorie ridestavano nel mio cuore.
— L’aspetto di questi luoghi — disse Ciro Garzes — mi richiama alla mente il teatro delle mie prodezze giovanili.
— Voi siete piemontese?
— Nacqui a B***.
— Vicino a Stradella?
— Sì. Conoscete quel bell’angolo di Piemonte che si abbraccia amorosamente alla Lombardia con quella fascia argentea scorrente tra i pioppi...
— Il Po!
— E la Rocca vicino a Stradella?
— E i molli declivi di Canneto?
— E la Versa inghirlandata di pampini?
— Conoscete anche la Versa?
— La conosco e l’amo come si amano tutti i luoghi nei quali si ebbero diciott’anni.
— Ohi ma allora vi ricorderete del caffè di B***?
— Con tre sedie di legno, sei tazze scompagnate e un vassoio d’ottone carico di bicchieri di ogni forma.
— Le gaie serate che si passavano trincando in quei bicchieri!... e se il suono d’un organetto arrivava fino a noi scuotendo i nervi sensibili delle nostre gambe... A proposito, qual è la vostra opinione sugli organetti?
Risposi subito:
— Io penso (e se si fosse trattato di combattere l’indipendenza delle donne non avrei parlato con maggior calore, tanto quella semplice, puerile evocazione aveva destato care memorie nel mio cuore) penso che sono il mezzo più simpatico di comunicazione tra un giovinotto ed una fanciulla quando sospirano il momento di stringersi la mano; sono il mezzo più igienico e più morale per promuovere lo sfogo di quegli atomi di materia organica incandescente che bollono e ribollono nelle giovani membra e che l’organetto fa sciogliere in goccioline di benefico sudore. L’organetto è l’amico dei nostri primi anni, il complice dei nostri primi sospiri, il conforto dei nostri primi dolori, l’anima di quelle belle riunioni dove non si parla ancora di politica e dove non si sbadiglia che per fame. Gli uomini seri, le damine dal ben timbrato orecchio che biascicano svenevolmente i nomi barbari di Schübert e di Gung’l lo hanno messo all'indice, ma io, io che non sono una damina e che non sono seria...
La locomotiva si pose in moto, soffocando col suo rumore di ruote e di stantuffi la bestemmia che stavo per pronunciare.
Dopo alcuni istanti Ciro Garzes riprese, allungandosi sui cuscini color caffè e latte:
— Sì, il denaro è una forza; l’amore, l’ambizione, l’ingegno anche, tutte bellissime cose, ma chi mi rende la mia gioventù! Quando cantavo a braccetto d’Oreste, sfrondando le viti e facendo rotolare i sassi:
Per noi che siamo giovani |
E non l’avevamo neppure l’amorosa, almeno io. Oreste non so... Ah! ora che mi ricordo, faceva la corte a una bella lavandaina di quattordici anni; non si erano mai parlati, ma egli le dedicava dei versi e passandole accanto quando lavava al torrente lasciava cadere nell’acqua il suo bastone. Tempi felici! Dite quel che volete ma io ripeterò sempre: tempi felici!
Sospirò; mise la testa nell’angolo e parve sprofondarsi nelle proprie reminiscenze.
Io frattanto guardava attraverso i vetri il panorama di Bergamo, bianca in mezzo ai monti azzurri.
Il treno tornò a fermarsi.
Ad un tratto il mio amico gettò un grido; ma un vero grido come quelli delle attrici nei melodrammi e prendendomi una mano con forza balbettò:
— Osservate... là... là...
— Ebbene? Io non vedo nulla di straordinario. È una cometa? un’ecclissi? Spiegatevi.
Dunque non fu un sogno! — esclamò Ciro Garzes senza più abbadare a me e spingendosi con tanta violenza fuori dello sportello che temetti sul serio diventasse pazzo.
— Insomma, si può sapere che c’è? Mi fate paura.
Egli ricadde sui cuscini ansante; la sua natura linfatica pigliava il sopravvento; la sua pancia di uomo positivo reagiva contro quei segni allarmanti di una fantasia a spasso. Pose macchinalmente l’indice nel collo della camicia per procurarsi un po’ di sollievo e coll’altra mano mi accennò una carrozza elegante, scoperta, entro la quale saliva una coppia che aveva tutta l’aria di essere forestiera, perchè lui portava un ampio cappotto azzurro colle maniche larghe, aguzze, coperte di ricami e li seguiva in altra carrozza più modesta un negro e due serve mulatte.
Le carrozze si posero subito in moto prendendo il viale Napoleone, ma un istante era bastato perchè io potessi afferrare molto bene l’aspetto dei due personaggi principali.
Non era possibile ingannarsi sulla loro origine.
I capelli nerissimi, lucenti; l’ovale allungato della faccia, il naso dritto, la carnagione pallida e bruna, gli occhi sfolgoranti sotto la curva delle palpebre, li diceva figli dell’Oriente — della Grecia o dell’Asia.
Avevano entrambi i segni caratteristici della stessa razza, si assomigliavano, eppure si capiva che non erano fratelli.
Lei doveva essere stata di una bellezza straordinaria.
Avvenente ancora, quantunque non più giovane; portava con grazia regale uno sciallo della China a molti colori; i suoi denti brillavano attraverso le labbra porporine; vidi una mano piccolissima, senza guanti, tutta coperta di gemme e un piede di fata dentro scarpine a bottoni d’oro.
Anche lui era un bell’uomo, un po’ serio, con uno sguardo languido e distratto a guisa di sultano troppo felice.
Passarono come una visione.
Sul loro cammino la gente si fermava a guardarli e gli impiegati della ferrovia, ritti sugli scalini della stazione, dimenticavano che un nuovo treno era arrivato.
Appena furono aperti gli sportelli, Ciro Garzes si precipitò abbasso.
— Fuggite? — gli domandai trattenendolo per la manica, perchè mi pareva un po’ esaltato.
— Li seguo.
— Dove? Chi sono?
Fiato sprecato. Ciro Garzes, ad onta della sua pinguedine, correva come un levriere.
Gli gridai mettendo le mani alla bocca:
— Ricordatevi che dobbiamo andare a Verona.
Si voltò, mi fece cenno di non aspettarlo e via sotto gli alberi del viale.
Restai attonita finché il fischio della locomotiva mi rintronò nelle orecchie insieme alla voce obbligata:
— Paar...tenza!
Guardai allora il sedile lasciato vuoto dal mio amico e mi appropriai la Perseveranza ch’egli vi aveva dimenticata insieme agli occhiali.
⁂
Mi raggiunse a Verona dopo due giorni.
Era pallido, mortificato, stanco. Aveva nella borsa da viaggio un calmante e s’era applicato un senapismo alla nuca per tirare abbasso, com’egli diceva, i vapori che gli salivano al cervello.
Stettimo insieme poche ore, durante le quali non ebbi agio di chiedergli spiegazione alcuna.
Sul punto di separarci egli mi disse:
— Non ho potuto raggiungerli, sapete? No; mi hanno fatto rompere il collo (voleva dire senza dubbio il collo del piede) su e giù per quei maledettissimi sassi bergamaschi, e tutto ciò senza costrutto. Comincio a credere che sia proprio una visione, una fantasmagoria che mi perseguita, un caso di pazzia ragionante... Che ve ne pare?
— E che ne so mai io! Siamo in viaggio, si parla di gioventù, di cose passate, di organetti e di campanari; dobbiamo andare a Verona, voi ci avete una causa ed io un’amica ammalata; sembrava il viaggio più semplice di questa terra; ed ecco che mi diventate improvvisamente una specie d’energumeno, forzate lo sportello, rovesciate un bimbo, dimenticate gli occhiali non mi salutate nemmeno e via di corsa. Vi domando un po’ che ne posso sapere io?
— Ma non avete visto quella carrozza?
— Sì, l’ho vista.
— E lui? E lei?
— Tutti e due. Sembravano un’incisione delle Mille ed una notte; lui somiglia al principe Camaralzaman, lei alla principessa Badrulbudur; aveva dei bottoncini alle scarpe che luccicavano come diamanti. Ma conoscete voi quelle persone?
Ciro Garzes si prese la testa fra le mani.
— Sentite — mi susurrò all'orecchio dopo qualche istante di silenzio — mi promettete di non ridere?
— Prometto.
— Ebbene, io sono stregato.
Mantenni la promessa e non risi, ma gli feci due piccole corna colle dita.
— Perchè mi fate le corna?
— Per distregarvi, amico mio; è il rimedio contro la jettatura, lo sapete bene.
— Orsù, vedo che dovrò raccontarvi tutto; o piuttosto, siccome il tempo stringe, vi scriverò. Mi ritiro per alcuni giorni in campagna allo scopo di lavorare con quiete intorno alla mia causa. Di là avrete mie nuove, avrete l’avventura che tanto vi preme.
— Deo gratias!
— Ma la terrete segreta poi?
— Oh! segreto rigoroso... fra me e le mie lettrici...
II.
lettera di ciro garzes.
Dies irae, mia cara, sempre quei tempi! — sempre.
Per incominciare l’avventura, dovete riportarvi venti anni addietro e immaginare un Ciro Garzes senza pancia, senza malinconie, senza nessun programma politico e umanitario — proprio tal quale lo avete dipinto voi pochi giorni or sono, tra Milano e Verona, cioè tra Milano e Bergamo.
C’entra anche Oreste, anzi fu lui la cagione di tutto.
Dovete sapere che passato Stradella, risalendo il corso della Versa, dopo vaste e solitarie campagne, si innalza una collinetta, solitaria anch’essa e tutta irta di intricate boscaglie. Lontana dalla strada maestra, cinta dal torrente che le forma tutto in giro un riparo naturale come gli antichi castelli, quella collina sembrava vergine d’ogni orma umana. Bisogna anche dire che era proprietà privata — non si sapeva bene di chi, ma un padrone l’aveva sicuro.
Su su, proprio in cima, una casetta rustica lasciava scorgere le sue tegole rossiccie, d’inverno, traverso i rami brulli degli alberi; nella bella stagione i fichi e i castani selvatici le tessevano intorno una gran muraglia verde, inaccessibile agli sguardi dei curiosi — se ve ne fossero stati — ma, per la verità del racconto, devo aggiungere che nessuno se ne curava.
Solo i fanciulli del paese che andavano, sulla fine d’autunno, a raccogliere legna nel bosco, giravano intorno alla collina senza toccarla, perchè, la mamma aveva detto:
«Non fate legna sulla collina, portereste la disgrazia in casa.»
Da qualche tempo infatti correvano voci assurde e strane.
Un’aggressione era avvenuta poco discosto e un mugnaio passandovi il giorno dopo sul suo asinelio, cadde di groppa e restò morto.
Questi due fatti non presentivano logicamente alcuna analogia tra di loro e molto meno colla casetta invisibile; ma il volgo delle femminette, sempre immaginoso e avido di misteri, le aveva collegate con una favola di fantasmi erranti sulla collina — altri dicevano di malfattori nascosti.
L’una e l'altra supposizione erano più che sufficenti per rendere deserto quel luogo; di sera, poi, anche un contadino coraggioso non si sarebbe arrischiato a passarvi.
Fin qui la leggenda — ora la storia.
Ma è poi storia?
Vi confesso, cara amica, che sono tormentato dai dubbi. Quando penso alla mia singolare avventura, l'immaginazione mi giuoca il brutto tiro di farmela credere un sogno; eppure l’altro giorno...
Basta, udite.
Ero andato, con Oreste, alla sagra di un paesello fra i monti. Ci eravamo divertiti assai, e, sopratutto, avevamo bevuto un aleatico, vi giuro, che valeva quanto il bacio di una bella donna — non offendetevi, per carità; pensate che voi, di baci, non me ne avete mai dati.
Ritornammo a casa a sera inoltrata.
Vi ricordate di aver passeggiato a sedici, diciott’anni, sotto il lume della luna, coi piedi nell’erba e la testa al di sopra delle nuvole, mentre le stelle ridevano sul vostro capo, mentre correvano le lucciole fra i cespugli di timo?
(Confesso che leggendo questo paragrafo della lettera di Ciro Garzes, vagai per dieci buoni minuti nel paese celeste delle rimembranze e proprio mi parve di sentire l’odore penetrante del timo — come in quei tempi beati — ed esclamai anch’io sospirando: «Divina gioventù!» Oh non lo dite al mio amico).
Se vi ricordate... e come dimenticarlo?
Fate dunque la cornice profondendovi quanti raggi di luna e quanti profumi avete a vostra disposizione; mettetevi tutto l’azzurro possibile, tutta la poesia immaginabile; sommate i miei anni con quelli d’Oreste — trentacinque — aggiungete il gas che l’aleatico svolgeva nei nostri cervelli e poi statemi a sentire.
La strada era lunghetta, ma il problema di percorrerla in un dato tempo andò presto a vuoto per il fatto che ci trovammo improvvisamente ad un crocicchio dove
...la dritta via era smarrita. |
Oreste accusava un pioppo, un pioppo ingannatore, che somigliava tutto a quello che doveva servirci di guida.
Scaricò cinque o sei bestemmie contro l’albero, il quale squassando serenamente la sua cima inargentata, aveva tutta l'aria di pigliarci a gabbo.
— Torniamo indietro?
Oreste mi guardò con cipiglio fiero, come se gli avessi proposta una viltà.
— E allora?
— Allora avanti! Avanti, matricolino, ti insegnerò io il passo di carica.
Quando Oreste voleva spiegare la sua massima autorità mi chiamava matricolino, sembrandogli che dopo questo richiamo alla mia inesperienza non avrei più osato oppormi.
Nè mi opposi maggiormente alla scelta della via, poichè tre sentieri raggiavano egualmente bianchi al lume della luna senza indicazione della meta, e Oreste pensò bene di orizzontarsi dietro il fumo del suo sigaro.
Tentai, è vero, di suggerirgli un metodo più sicuro, per esempio la posizione degli astri; l’Orsa o il Carro di Boote.
Egli mi assicurò di non conoscere punto il carro di Boote e quanto all'orsa le dessi io la caccia se me ne sentivo la voglia.
L’onda cinerea e profumata del suo vevey da un soldo fu la nostra bussola.
Camminammo una buona mezz’ora, lasciandoci addietro filari di viti e campi olezzanti di fieno maturo
L’aere era purissimo, trasparente; il cielo fulgido.
Non so per quali vie l’aleatico mi era sceso al cuore mormorando tenere parole all’orecchietta destra e all’orecchietta sinistra — diventavo sentimentale.
Lo dissi ad Oreste. Oreste mi rispose che ero un imbecille; io non gli diedi retta e mi posi tra me e me a cercare le rime per un sonetto colla coda.
M’era riuscito di azzeccare la prima quartina, rimando notte serena con luna piena, poi mi balenò un pensiero grazioso: un pensier che la lagrima elice; ma e la rima con elice? Ripetevo a mezza voce: un pensier che la lagrima elice.
— Colla forza d’una locomotrice — interruppe Oreste.
Mi cascarono le braccia.
— Che cos’è quel pan di zucchero? — esclamò improvvisamente il mio camerata, additando una massa bruna che sorgeva al di sopra dei pioppi sullo sfondo del cielo.
— È una collina.
— Bravo Cristoforo Piccione; ma quale collina?
— Eh, perbacco! la collina! — risposi, certo del fatto mio e segretamente lusingato di sapere qualche cosa che Oreste non sapeva.
— La collina delle streghe?
Io feci un cenno affermativo e vidi, con sorpresa, il mio amico abbandonarsi a una pazza gioia, gettando per aria il cappello, agitando mani, braccia e gambe; tutto a un tratto si fermò, cacciò il cappello sulla nuca e appoggiandosi fortemente al manico di corno del suo bastone.
— Sarebbe oggi sabato per caso?
Mi fece questa domanda con voce bassa e misteriosa.
Riflettei un momento, perchè, al pari di lui, non mi trovavo quella sera molto forte per gli esercizi di memoria; ma infine credetti di poter affermare che non era sabato.
— Peccato, peccato, peccato! Non potremo dunque vedere le streghe... mi sarebbe piaciuto tanto; e a te?
— Mediocremente, lo confesso.
— Cuor di coniglio! — esclamò Oreste sdegnoso, e si pose a borbottare su un tono da ventriloquio:
Tu dito d’un pargolo strozzato nel nascere, |
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La luna s’era nascosta dietro i pioppi e uno sprazzo di luce, tingendosi di verde tra foglia e foglia, dava al paesaggio un aspetto fantastico, che ricordava a puntino il terzo atto del Macbeth.
Il venticello della mezzanotte, passandomi tra i capelli e il bavero del vestito, mi cagionò una specie di brivido.
— Tu hai paura? — disse Oreste.
— No!
— Sì!
— Ti dico di no!
Avevo alzato tanto la voce che le ultime sillabe si ripercossero in un’eco lontana.
Gridai ancora:
— No!
E tesi l’orecchia.
Un suono vago, indistinto, troppo prolungato per essere l’eco di quel monosillabo, svegliò la mia attenzione.
— Odi?
— Che cosa?
— Sta attento.
Ci fermammo sui due piedi.
Pareva un arpeggio di corde celesti, un concerto invisibile e come perduto in mezzo a profondità misteriose.
— Sai? — disse Oreste con un’aria che aveva qualche cosa di strano in quella notte stranissima — sono voci dalla collina.
Ebbene, perchè dovrei vergognarmene ora?
Io vi confesso, cara amica, che quel tal brivido fra i capelli e il bavero tornò ancora a molestarmi... e non credo fosse tutto freddo!
Oreste invece raggiava. Le sue spalle di giovane atleta si rizzavano superbe, le sue narici dilatate fiutavano il vento.
— Oh la bella avventura, la bella avventura! — mormorò.
Non avevo la stessa opinione. Da qualche istante una visione insistente mi passava e ripassava nel cervello... era il mio letto che mi appariva sotto le forme più seducenti. Povero letto tante volte calunniato! Le sue foglie discretamente peste io le paragonavo in quell’istante al voluttuoso sofà d’una odalisca; le ruvide lenzuola che la mia buona mamma faceva tessere colla propria canape — perchè, quantunque grossetta ella preferiva la propria canape a tutto il lino della Olanda — mi pareva che avrei sentito con un gusto infinito quelle care lenzuola avvolgersi intorno al mio corpo e abbracciarmi come un vecchio amico.
E il russare tranquillo di Fido sdraiato ai miei piedi... Oh! perchè non avevo condotto meco il mio cane? Almeno...
— Pensi sempre al sonetto? — domandò Oreste vedendomi preoccupato.
Ebbi la debolezza di confidargli la mia visione, ma un pugno giustamente applicato fra le due spalle mi provò che la forza l’aveva lui...
— Guarda, ti rinnego per amico!
— Infine che intendi di fare?
Oreste mi guardò sottecchi alzando le spalle.
Di mano in mano che noi ci avanzavamo i suoni si facevano più distinti. Era una melodia patetica all’eccesso e affatto sconosciuta ai nostri orecchi.
La collina ci stava davanti nera, imponente, col suo fitto bosco di castani e la Versa che la cingeva come una corazza argentea.
Oramai la strada per ritornare a B*** la sapevamo, ma quale fu la mia sorpresa nel vedere che Oreste si ingolfò risolutamente nella via che conduceva alla collina!
Lo chiamai; egli si voltò.
Effetto bizzarro! Mi sembrava che diventasse più alto e più grosso tutte le volte che lo guardavo; i suoi neri capelli un po’ lunghi gli coprivano abbondantemente la testa, all’estremità della quale l’ampio cappellaccio si reggeva con un miracolo d’equilibrio di cui Oreste si mostrava molto fiero.
— Dove vai per di lì?
Egli tese il braccio silenziosamente verso la collina.
— Sei matto?
— Non lo so. Voglio scoprire il mistero. Vieni?
Un minuto di riflessione; nemmeno, un secondo, tanto è pronto l’entusiasmo in quell’età — e risposi deciso:
— Vengo.
Oreste mi regalò un pugno di soddisfazione per farmi dimenticare quell’altro che era stato di disapprovazione.
Li notai a suo credito, per l’equità dell’amicizia.
Intanto Oreste diceva:
— Che bel capitolo di romanzo! «Era una notte d’autunno; splendeva la luna sui colli sabaudi (per il momento non splende, ma i lettori non sono qui a vedere) due giovani...»
— Sì — lo interruppi — il principio è romanzesco, ma come sarà la fine?
— Qui sta il bello; poichè nemmeno l’autore non ne sa nulla.
M’era venuto un coraggio da leone. L’aleatico momentaneamente smarrito in chi sa quale latebra ignobile del mio organismo, riprendeva il suo corso generoso avvivando il sangue delle arterie; esclamai:
— Comunque sia, viva il romanzo!
— A proposito, hai uno zolfanello? Volevo gridare viva lo sigaro! — disse Oreste.
— Non ne ho.
— Allora, morte al sigaro. Cantiamo:
Era notte e non ci si vedea |
Pliff!
— Ohèe! sono entrato nell’acqua fino a metà gamba.
Dopo questa esclamazione d’Oreste, io, prudentemente, mi fermo. Egli bestemmia.
— Niente lume e niente zolfanelli. Non ci si vede un corno!
— Ma dove sei cascato?
Non risponde subito, si orizzonta a quel che pare, poi dice tranquillo e molto soddisfatto, come un professore di storia naturale che è riuscito a classificare un centopiedi:
— È una diramazione capricciosa e imprevista della Versa; un vivaio forse dove le streghe tengono in fresco i loro rannocchietti, ma se vuoi credermi, è meglio pigliare questa via così miracolosamente indicataci dalla Provvidenza. Ho in mente che il sentiero è bugiardo e che a seguirlo ci condurrebbe fuori di strada.
— Di che via intendi parlare? — domandai vedendo Oreste fermo in mezzo all’acqua come san Cristoforo.
— Questa, caro, questa delle «dolci fresche, verdi acque.» Più avanti la Versa si allarga maledettamente e sarebbe più faticoso l’attraversarla, poiché una volta o l’altra ci conviene attraversarla, visto e considerato che dal castello lassù non vorranno gettarci il ponte levatoio.
Guardai in alto di là dove partivano prima i flebili suoni; non si udiva più nulla. La collina era immersa in un perfetto silenzio.
Plaff!
In un batter d’occhio raggiunsi il mio amico:
Un rospo colla spada e la livrea |
Diguazzavamo ridendo nell’acqua fresca, non troppo limpida per verità...
Ah! mia amica, pensare che al giorno d’oggi non osiamo ridere senza aver prima scrutato il motivo, vedere se ha una sorgente abbastanza nobile, sufficientemente dignitosa, indiscutibilmente morale — ah! mia amica, come si diventa vecchi!
Divago un poco, non è vero? Ma se sapeste! Mi sembra di ritornare ragazzo e lascio volentieri da parte la mia causa, che mi fa arrabbiare, per scrivere queste memorie che mi sollevano il cuore.
Usciti dalla Versa, ci asciugammo i piedi bene o male, ma più male che bene, e Oreste disse:
— Vi sarà un sentiero probabilmente?
— Sì, probabilmente, ma come trovarlo ora?
— In tal caso facciamone senza. Vedo dei castani fronzuti a larghe radici proteiformi che ci aiuteranno nella salita. Faremo lo scoiattolo dopo aver fatto il pesce.
— Chi sa che di lassù non ci tocchi fare anche l’uccello!
— Ciò mi aprirebbe il campo a uno studio comparativo fra le attitudini dell’uomo e quelle degli altri animali. È una tesi filosofica. Mi porterebbe a delle dissertazioni interessanti sulla teoria di Darwin, e forse riuscirei a scoprire una parentela più immediata che non sia quella delle scimmie.
Un ramo di castano tagliò a mezzo la eloquenza d’Oreste, ma è giustizia dire che gli tagliò in pari tempo la faccia facendolo prorompere in una bestemmia che avrebbe potuto, a rigor di termine, rimare con vento e colle stelle del firmamento.
In quella famosa ascensione ebbi anch’io la mia parte di danno — perdei il cappello; — finalmente, quando Dio volle, ci trovammo in alto.
La casetta sepolta alla lettera in mezzo ai castani che le crescevano intorno con tutto il vigore di una foresta vergine, era illuminata.
Sì, e non mica col solito lampanino dei nostri contadini, ma di una luce chiara e diffusa che usciva da due finestre dell’unico piano.
Una fitta vegetazione di pianticelle arrampicanti, glicine, caprifogli, rose selvatiche tessevano su quelle finestre una cortina naturale del più leggiadro effetto. Tutto il muro poi, dalla base al tetto, scompariva sotto il verde di ghirlande, di festoni, di rami intricati nel modo più semplice e più atto a nascondere la povertà delle quattro pareti.
Non aveva l’apparenza di una casa ma di un nido e se mai gente umana potesse abitarvi, dovevano essere Filemone e Bauci. Tale almeno fu l’impressione che io ne ricevetti.
La comunicai, come sempre, ad Oreste che scosse il capo in aria di compassione.
Voleva dire senza dubbio: sei un povero di spirito; ma non lo disse e si arrampicò invece coll’agilità di un gatto sul davanzale di una delle finestre.
— Bada quel che fai! — gli dissi piano.
Egli non mi ascoltava.
Scorgeva certo delle cose molto straordinarie perchè il suo volto immobile dietro le foglie esprimeva un’attenzione intensa, ostinata.
Gli domandai che cosa vedeva. Mi rispose ponendo l’indice in croce sulla bocca e tornando a cacciare la testa più che poteva frammezzo i rami di caprifoglio.
Non mi restava altro partito che quello di raggiungerlo sulla sua specola improvvisata e provvisoria; ma appena toccai il davanzale della finestra un ooh! strappato dalla meraviglia alle mie labbra ingenue mi valse un pizzicotto di Oreste che mormorò fra i denti:
— Taci, bestia!
Perorazione succinta e poco accademica, della quale tuttavia riconobbi l’opportunità in quel momento.
Mi stava davanti la scena più inaspettata, più bizzarra, più inesplicabile.
Figuratevi che l’interno di quella rustica capanna era trasformato in una specie di pagoda turca, colle rozze pareti mascherate da damaschi orientali, il soffitto foggiato a uso di tenda con ricchi paneggiamenti in color giallo e celeste. Una lampada originale, di una forma sconosciuta nelle nostre case, ardeva, palliata da un cristallo azzurro — un effetto magico e fantastico, v’assicuro, coll’aggiunta d’un vaso d’oro entro cui bruciava del legno di sandalo e una quantità di rose sparse sulla stuoia finissima del pavimento.
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Per pietà, reprimete quel sorriso incredulo; cacciate la brutta tentazione che vi suggerisce essere tutto questo una fiaba che io vi racconto per ingannare l’uggia di una giornata piovosa.
Vi do la mia parola d’onore che quanto vi racconto è la pura verità. È incredibile, lo so bene; ma lo ricorderei così a puntino dopo tanti anni se l’impressione che mi ha lasciata non fosse quella di un’avventura straordinaria?
Quasi ogni vita, a volerci pensare, presenta un punto, un caso, un fatto od una sensazione che raccontandoli sembrerebbero inventati, mentre tutti i giorni si inventano romanzi e novelle che trasportano il benevolo lettore a esclamazioni consimili: «Come è vero! Come è naturale! Capita anche a me!»
Bisogna proprio concludere che il vero non è sempre verosimile e viceversa.
Dunque prestatemi un’attenzione seria come se leggeste la vita dei santi, sulla quale, m’immagino, non vi corre il menomo dubbio.
Non vi era nella strana camera nessun mobile, tolto alcuni cuscini gettati qua e là, proprio all’usanza turca.
Soltanto un divano o un sofà o un’ottomana, non saprei insomma, qualche cosa di simile; un lettuccio elegante di raso celeste coperto per metà da una pelle di tigre faceva fronte alla finestra e sovr’esso giaceva abbandonata come una sultana nel suo harem Lei... avete capito? — la bella signora dallo sciallo chinese e dai bottoni d’oro sulle scarpe. Ma pensate che si tratta di vent’anni addietro!
Non posso dirvi come fosse vestita, non me lo domandate nemmeno. Avete mai sognato — le donne devono farne spesso di questi sogni — un tessuto aereo come i vapori che si alzano all’alba dai colli imbalsamati? roseo, lucente, diafano come una foglia di madrevite quando la rugiada l’imperla? Avete mai confuso in un ardente desiderio di bellezza le stelle e le rose, il primo raggio del mattino e l’ultimo bagliore del crepuscolo?
Non trovo altre parole — immaginate — e se riuscite a farvi un’idea di quella apparizione, potrete capire l’effetto che fece su di noi.
Bellissima — l’avete veduta — coi neri capelli ondeggianti, disciolti, con un braccio appoggiato sulla pelle di tigre; a’ suoi piedi un liuto, dei fiori e l’olezzo del sandalo che ardeva avvolgendola in una leggera nube come una divinità antica.
Piano piano, alzando l’indice con precauzione, Oreste mi mostrò un uomo — lui seduto sulla stuoia, col capo sprofondato nel medesimo cuscino che sorreggeva il capo della bella. Immobili entrambi.
Forse delibavano estatici i divini silenzi dell’amore, forse...
Io devo avvertirvi, amica mia, che avevo i piedi bagnati in causa della Versa. Dio! che interruzione prosaica! — direte — ma fu tale e quale.
Un violento starnuto mi fece battere la testa contro il muro e dovette per fermo rintronare alle orecchie dei misteriosi amanti perchè ero appena disceso dalla finestra quando mi trovai faccia a faccia con lui, Camaralzaman, se vi piace.
Oreste che si era lasciato scivolare sul versante della collina, trovavasi già a buon punto; ma devo dire in suo onore che, vedendomi preso, corse subito in mio aiuto.
Camaralzaman doveva accorgersi che io non facevo nessun tentativo per fuggire poiché mi contemplò qualche minuto senza aprir bocca. Intanto Oreste ci raggiunse e non so davvero che cosa avremmo potuto dirgli, se egli stesso prendendo la parola in un italiano molto corretto e preciso, non avesse prevenuta la nostra spiegazione.
— Signori, dite il vero, voi siete venuti qui per spiarmi!
La confusione del colpevole mi invadeva dalla testa ai piedi; Oreste volle rispondere.
— Signore...
Ma l’altro interruppe con un gesto pieno di dignità.
— Basta. Non siete ladri, questo si vede; dunque siete curiosi, ed alla vostra età — additò sorridendo i nostri volti imberbi — si può perdonare una leggerezza. Entrate e guardate.
Credo che se ci avesse somministrato una salva di scappellotti la nostra sorpresa sarebbe stata molto minore.
Quel contegno così nobile di fronte ad una ignobile ragazzata mi fece senso.
Esitammo un poco, ma egli ci precedette tenendo aperta la porticina bassa della capanna; uno sguardo ricambiato con Oreste mi diede coraggio ed entrai.
Ahimè! Il divano era vuoto; l’angelo, la fata, la principessa era sparita.
Lui non fece la benchè menoma allusione a questa scomparsa. Ci indicò i cuscini sparsi sul pavimento invitandoci a sedere; poi trasse da un armadietto nascosto dietro la tappezzeria due calici elegantissimi, li riempì di un vino limpido, trasparente, color di topazio oscuro, e venne ad offrirceli con serena gravità. Nè Oreste nè io non avevamo mai bevuto nulla di simile. L’aleatico si nascose nel cantuccio più umile delle mie reminiscenze, e pensai alle delizie del greco Falerno.
Oreste espose con sufficiente retorica una scusa onesta, si profuse nelle espressioni del nostro pentimento; disse che eravamo mortificati, ecc., dolenti, ecc.
Camaralzaman troncò di nuovo questo discorso e riempì i calici vuoti. Sembrava non avesse molta voglia di discorrere e noi rispettando i motivi del suo riserbo non trovammo modo migliore per esprimere i sensi della nostra gratitudine che bevendo alla sua salute.
Non era il caso di prolungare una visita così bizzarra, perciò io tentai di alzarmi; ma un tremito che attribuii all’emozione mi paralizzava le gambe.
Camaralzaman tornò a far colare i topazi rutilanti nel grembo cristallino della coppa; mi sembrava di vedere ogni goccia del liquore ridere e saltare dentro gli orli dorati e vi fu un istante nel quale avrei giurato che la bella fata si trovasse in fondo al mio bicchiere col suo liuto, i suoi fiori e i suoi capelli disciolti...
Oreste improvvisò dei versi.
Mi parvero tanto belli nell’udirli recitare da lui col Falerno in mano — assicuratevi che era Falerno — in quel tempio d’orientale mollezza, tra i profumi del sandalo e delle rose, che li notai subito per memoria.
Canta poeta, canta cherubino, |
La camera girava. Le ampie tende di damasco sembravano contorcersi in una ridda frenetica; danzavano i cuscini sulla stuoia del pavimento e la lampada si cullava appesa al suo chiodo di ottone come una sultana nell’amaca.
I fiorami gialli del soffitto diventarono pavonazzi e avrei giurato che il piccolo divano azzurro non era più un divano coperto da una pelle di tigre, era proprio una tigre vera sdraiata sulle quattro zampe.
Improvvisamente una nube biancastra sparsa di pulviscoli, che a miei occhi facevano l’effetto di fiammelle vagolanti, avvolse Camaralzaman — non lo vidi più.
Un torpore pieno di fascini mi faceva chiudere le palpebre.
Chiamai Oreste — Oreste era lungo disteso per terra; aveva la testa sul manico del liuto.
— Oreste — gli dissi — tu non ti comporti civilmente in casa dell’ospite, alzati...
Ma ignoro il resto.
Gli occhi mi si chiudevano pesantemente; sentiva nelle orecchie il suonò di mille campanelluzzi d’argento che mi stordivano, caddi, io credo, come corpo morto cade.
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Se mai puntini furono necessari in uno scritto, questa lunga fila che qui vedete, amica mia, è indispensabile.
Ogni puntino vi rappresenta un’ora trascorsa, e tutti insieme separano quello che vi ho detto da quello che mi rimane a dirvi.
Poca cosa in verità; ma più che mai sorprendente.
Mi destò la punta dello stivale d’Oreste che passeggiava per proprio conto tra il mio naso e la mia bocca. Destandomi, mi guardai attorno— era giorno fatto — e le memorie della sera prima affollandosi confusamente nel mio cervello mi resero immobile per la sorpresa.
Non vi era più nulla, nulla affatto. Nè pagoda turca, nè tappeti, nè profumi, nè uomo, nè donna.
Mi trovavo sul nudo suolo di quella nuda casetta fra pareti nude; un gatto sul davanzale della finestra mi guardava fisso co’ suoi occhi screziati di verde e di giallo.
Nessun vestigio di gente umana, nessuna traccia.
Oreste era meravigliato come me.
Ci alzammo e facemmo il giro della capanna — silenzio dappertutto; tutte le finestre per mancanza di imposte erano aperte, ma la porta chiusa.
Questo ci diede da pensare, noi eravamo ben sicuri di essere entrati dalla porta.
— To’ — disse Oreste — l’avranno chiusa prima di fuggire.
— Sono dunque fuggiti?
— Eh! certo; come spiegare in altro modo la faccenda?
Precisamente; come spiegarla?
Quei due venuti chi sa da dove, per chi sa quali motivi, avevano posato il loro nido, come uccelli di passaggio, fra i castani della collina; trovandosi scoperti erano volati via; non vi è cosa più semplice di questa.
Una notte era bastata per ripiegare le tende; nella loro posizione avranno tenuto ogni oggetto pronto e naturalmente, poco lungi, li aspettava l’ippogrifo per trasportarli nella regione delle chimere, nel paese azzurro d’onde erano venuti.
D’accordo con Oreste, mi parve fuor di dubbio che essi fossero due principi perseguitati, o per lo meno il figlio di un vizir che aveva rubato al sultano la più bella schiava.
Deliziosamente inebbriati e pieno il capo della nostra grande avventura, dopo aver cercato inutilmente un segno, un’orma dei fuggitivi — avesse ella almeno perduto una pianella, come Cenerentola! —pensammo di tornare alle nostre famiglie, dove, senza alcun dubbio, si era in pensiero per noi.
Nello scendere la collina ci parve di sentire una certa resistenza nel polpaccio delle gambe e un certa senso di pesantezza alla fronte, che poteva ben essere l’effetto di quei liquidi topazi generosamente prodigati da Camaralzaman.
Narrato il fatto ai parenti ed agli amici, trovammo, pur troppo, degli increduli. Si pretendeva che il solo mago dell’avventura fosse l’aleatico, alla quale prosaica insinuazione Oreste ed io ci opponemmo energicamente.
Lessi, per prova, i versi di Oreste; ma tutti furono d’accordo nel dire che quei versi non provavano nulla in favore della pagoda, che non erano affatto versi turchi, ma semplicemente versi sbagliati.
Ci misero in canzone, si beffarono di noi, tanto che, vi confesso, il dubbio si insinuò a poco a poco nel mio spirito. Sì, io finii col non essere più sicuro della mia opinione e da allora guardai sempre l’aleatico con diffidenza...
Ma ora li avete veduti anche voi! Li avete pur veduti i due misteriosi amanti, che dopo tanti anni portano ancora per il mondo la loro costanza e il loro segreto.
Che cosa devo concludere? Le mie idee si confondono. Al postutto, rifletto che vi sono tante cose senza conclusione in questo nostro globo terracqueo — non vedo perchè non potrebbe starci anche la mia avventura!
Se però voi riuscite a trovare un bandolo, fatemelo sapere.
III.
Non trovai il bandolo, e per mio conto rinuncio ad arrischiare un giudizio.
Dal racconto di Ciro Garzes, mi risulta positivamente che in quella famosa sera egli era un tantino alterato; ma d’altra parte non trovo impossibile l'avventura. Se ne vedono tante!
Ad ogni modo, mi feci promettere dal mio amico che ove il caso gli faccia trovare la chiave del mistero, non abbia a defraudarmi di una confidenza alla quale credo di aver diritto per l’attenzione e per l’interesse che prestai al racconto.
Quel lettore che può dire altrettanto di sè stesso alzi la mano.
Io terrò nota di questa adesione gentile per metterlo a parte, caso mai, del mistero.
Frattanto, in attesa che Camaralzaman ricompaia a tiro della mia penna, terminerò la nocella con una curiosa coincidenza.
Lo scorso autunno mi trovavo a villeggiare lungo il Po, sui colli che prospettano Pavia, ed era con me una piccola brigata fra cui Ciro Garzes.
Una settimana di cattivo tempo ci aveva resi tutti annoiati e noiosi; non si sapeva come spendere le ore della giornata. Ad ogni occhiata di sole si correva fuori, ma uno scroscio di pioggia ne ricacciava dentro; sembrava di giocare a mosca cieca.
Ciro Garzes propose un giorno di andare alla villa di un suo amico — ammogliato — (questo lo aggiunse per le signore) assicurandoci che colà avremmo trovato una vigna immensa da porre a sacco, accoglienza sincera e nessuna etichetta.
Detto fatto, si andò. Fu una gita di poche ore, ma piacevolissima.
Due grossi cani da pagliaio col pelo irto e le pupille di bragia annunciarono il nostro arrivo a tutti i punti cardinali.
Un punto solo rispose e fu quello da cui apparve un’orribile vecchia con una mano distesa al di sopra degli occhi e l’altra inarcata sul fianco.
Pare che la vista di tanta gente le riuscisse di sorpresa anzichenò, perchè scomparve fra i latrati dei cani non abbadando a Ciro Garzes che gridava:
— Fermatevi, ascoltate buona donna, sono io!
La buona donna tornò, ma rinforzata dalla padrona. Dietro questa poi si mostrarono successivamente tutte le persone della casa — quattro bimbi, l’orlotano, un altra serva più orribile della prima, un gatto, alcune galline — e più lungi vidi passare attraverso le sbarre di una finestra bassa il muso allungato e patetico di un bell’asino.
— La famiglia non è completa — esclamò Ciro Garzes inchinandosi davanti alla padrona — non veggo Oreste.
— Oreste è nell’orto — rispose la signora asciugando col grembiale la faccia di uno dei suoi figli.
Seguì la presentazione alla buona e tutti insieme entrammo nel salotto terreno dove i cani, il gatto e le galline ci seguirono, dando prova di avere molta dimestichezza con tutti gli angoli della casa.
Mi aveva colpito il nome di Oreste e domandai piano a Ciro Garzes se si trattava del bell’Oreste, l’Oreste vivace e scapigliato, suo maestro un tempo, l’Oreste che mi era restato impresso nella memoria colla sua figura marziale, gli occhi lampeggianti e il cappello sulla nuca; l’Oreste infine che aveva cantato:
Bacio di donna e nettare di vino.
— Appunto — rispose il mio amico.
Dietro proposta della signora pigliammo tutti la via dell’orto; con una certa curiosità io mi preparavo a vedere l’eroe della collina.
Un uomo che poteva avere quarantanni, ma che ne dimostrava almeno cinquanta, stava ammonticchiando delle patate in un solco. Non era un contadino. Aveva un bel paio di pantofole ricamate a punto in croce e una callotta di seta verde all’uncinetto.
Era alto, scialbo, un po’ curvo nelle spalle, con una barba molto grigia e molto trascurata; sulla fisonomia gli si leggeva la calma di una vita contemplativa, placida e raccolta, senza emozioni.
Pensai fosse uno zio — ne aveva tutte le apparenze — uno di quelli zii celibi che nelle famiglie viziano i ragazzi e aiutano la mamma a preparare le conserve, che fabbricano i cavallucci; di carta per il piccino e conducono a messa il maggiore. Un fratello d’Oreste probabilmente.
Ebbene, no; era Oreste in persona.
— Che diavolo fai! — esclamò Ciro Garzes.
Oreste si rizzò nel bel mezzo delle patate come una statua sul suo piedistallo e tese le braccia all’amico con una spontaneità veramente fraterna; ma gli mormorò nell’orecchio:
— Avresti potuto dire diacine... davanti alle signore!
Si scusò poi a proposito delle patate; disse che in campagna non si sa come occupare il tempo, che si diventa coltivatori per forza, salvo a restarvi per amore.
Ci volle mostrare i suoi possessi, e girando qua e là trovò modo di soffiare un paio di volte il naso al suo quartogenito.
Aveva un fare bonario e mite; seppi che era cancelliere della parrocchia e se in giorno di domenica trovava qualche giovinotto a zonzo, lo mandava alla dottrina e ai vesperi.
Avendo Ciro Garzes fatto allusione alla loro vita di studente, Oreste lo interruppe:
— Mia moglie è molto rigida in fatto di discorsi... te ne prego...
Io dissi:
— Mi pare che una volta ella fosse poeta!
— Oh Dio, no! — rispose tutto confuso.
— Ma sì? — saltò su la signora — non hai scritto quel bel sonetto per l'onomastico del parroco?
Ci offersero di restare a pranzo «quantunque fosse di magro»; nessuno di noi accettò, nemmeno Ciro Garzes che sembrava molto contrariato per la metamorfosi del suo amico.
Pigliammo anzi le mosse un po’ presto perchè alcuni nuvoloni neri neri minacciavano un cinquantesimo rovescio di pioggia per terminare degnamente la settimana.
Oneste ci accompagnò un tiro di schioppo, avendo cura di annodarsi un foulard intorno al collo a cagione dei reumi cui andava soggetto.
Dopo una confidenza fatta con tanto candore, noi ci unimmo tutti per pregarlo a rincasare, non volendo assolutamente che s’infreddasse per colpa nostra.
Oreste cedette e si accontentò di affacciarsi alla finestra della villa sventolando il suo fazzoletto di tela rossa.
— Miseria di Dio! — borbottò Garzes — come è possibile cambiare a questo punto?
Una ragazzina passava con un fascio di legna in testa; il suo magro corpicciuolo curvavasi sotto il peso e attraverso la manica sdrucita i fuscelli più lunghi sfregiavano la sua spalla candida e nuda.
Eppure cantava allegramente trovando tempo di rosicchiare un pezzo di pane nero, negli intermezzi.
O divina gioventù!