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Divina gioventù. 55


Anche lui era un bell’uomo, un po’ serio, con uno sguardo languido e distratto a guisa di sultano troppo felice.

Passarono come una visione.

Sul loro cammino la gente si fermava a guardarli e gli impiegati della ferrovia, ritti sugli scalini della stazione, dimenticavano che un nuovo treno era arrivato.

Appena furono aperti gli sportelli, Ciro Garzes si precipitò abbasso.

— Fuggite? — gli domandai trattenendolo per la manica, perchè mi pareva un po’ esaltato.

— Li seguo.

— Dove? Chi sono?

Fiato sprecato. Ciro Garzes, ad onta della sua pinguedine, correva come un levriere.

Gli gridai mettendo le mani alla bocca:

— Ricordatevi che dobbiamo andare a Verona.

Si voltò, mi fece cenno di non aspettarlo e via sotto gli alberi del viale.

Restai attonita finché il fischio della locomotiva mi rintronò nelle orecchie insieme alla voce obbligata:

— Paar...tenza!

Guardai allora il sedile lasciato vuoto dal mio amico e mi appropriai la Perseveranza ch’egli vi aveva dimenticata insieme agli occhiali.

Mi raggiunse a Verona dopo due giorni.

Era pallido, mortificato, stanco. Aveva nella borsa