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Divina gioventù. | 61 |
ste pensò bene di orizzontarsi dietro il fumo del suo sigaro.
Tentai, è vero, di suggerirgli un metodo più sicuro, per esempio la posizione degli astri; l’Orsa o il Carro di Boote.
Egli mi assicurò di non conoscere punto il carro di Boote e quanto all'orsa le dessi io la caccia se me ne sentivo la voglia.
L’onda cinerea e profumata del suo vevey da un soldo fu la nostra bussola.
Camminammo una buona mezz’ora, lasciandoci addietro filari di viti e campi olezzanti di fieno maturo
L’aere era purissimo, trasparente; il cielo fulgido.
Non so per quali vie l’aleatico mi era sceso al cuore mormorando tenere parole all’orecchietta destra e all’orecchietta sinistra — diventavo sentimentale.
Lo dissi ad Oreste. Oreste mi rispose che ero un imbecille; io non gli diedi retta e mi posi tra me e me a cercare le rime per un sonetto colla coda.
M’era riuscito di azzeccare la prima quartina, rimando notte serena con luna piena, poi mi balenò un pensiero grazioso: un pensier che la lagrima elice; ma e la rima con elice? Ripetevo a mezza voce: un pensier che la lagrima elice.
— Colla forza d’una locomotrice — interruppe Oreste.
Mi cascarono le braccia.
— Che cos’è quel pan di zucchero? — esclamò improvvisamente il mio camerata, additando una massa bruna che sorgeva al di sopra dei pioppi sullo sfondo del cielo.
— È una collina.