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Divina gioventù. 75


Improvvisamente una nube biancastra sparsa di pulviscoli, che a miei occhi facevano l’effetto di fiammelle vagolanti, avvolse Camaralzaman — non lo vidi più.

Un torpore pieno di fascini mi faceva chiudere le palpebre.

Chiamai Oreste — Oreste era lungo disteso per terra; aveva la testa sul manico del liuto.

— Oreste — gli dissi — tu non ti comporti civilmente in casa dell’ospite, alzati...

Ma ignoro il resto.

Gli occhi mi si chiudevano pesantemente; sentiva nelle orecchie il suonò di mille campanelluzzi d’argento che mi stordivano, caddi, io credo, come corpo morto cade.

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Se mai puntini furono necessari in uno scritto, questa lunga fila che qui vedete, amica mia, è indispensabile.

Ogni puntino vi rappresenta un’ora trascorsa, e tutti insieme separano quello che vi ho detto da quello che mi rimane a dirvi.

Poca cosa in verità; ma più che mai sorprendente.

Mi destò la punta dello stivale d’Oreste che passeggiava per proprio conto tra il mio naso e la mia bocca. Destandomi, mi guardai attorno— era giorno fatto — e le memorie della sera prima affollandosi confusamente nel mio cervello mi resero immobile per la sorpresa.

Non vi era più nulla, nulla affatto. Nè pagoda turca, nè tappeti, nè profumi, nè uomo, nè donna.

Mi trovavo sul nudo suolo di quella nuda casetta