Novelle gaje/Come la mia anima fu perduta alla grazia
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COME LA MIA ANIMA FU PERDUTA
ALLA GRAZIA.
storia un po’ lunga.
(Chi la narra è un giovanotto sui trent’anni molto simpatico, abbastanza spiritoso, elegante quanto è necessario per piacere a una donna di buon gusto senza dispiacere a una donna di buon senso; il suo nome è Torquato Gallieri degli Omodei; il suo stile è il seguente.)
Il Canavese, piccola provincia che si stende da Ivrea a Candia, ebbe l’onore di darmi i natali: che questo fosse proprio un onore per il Canavese me lo ripetevano continuamente servi e vassalli del mio castello paterno. La boria e l’ignoranza, tenere sorelle, sedettero per tempo alla mia culla, spargendomi negli occhi polvere d’oro.
Non v’era parete a me d’intorno che non ricordasse o in stemmi o in ritratti le alte gesta dei Gallieri degli Omodei.
Rimasto orfano prima di uscire dalle fasce, una zia materna venne a istallarsi presso a me, assumendo la responsabilità della mia educazione. Per diciotto lunghissimi anni io non vidi altra donna che lei; potete immaginarvi se ebbi tempo di esaminarla! Ora permettete che ve la presenti.
La marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre apparteneva alla vecchia aristocrazia piemontese e non era senza un po’ di degnazione che dichiaravasi parente dei Gallieri degli Omodei, quantunque rimontando l’albero genealogico della mia famiglia non vi incontrasse alcuna macchia plebea; ma credo vi fosse qualche anno di meno nell’anzianità.
Maritata giovanissima a un gran signore russo, un boiardo che la chiuse sùbito ne’ suoi castelli sulle rive inospitali della Dwina, ella languì otto anni; nobile fiore d’Italia fra i servi della gleba (come diceva un madrigale relativo a quell’epoca). Nel Canavese tutti la credevano morta, quand’ecco invece di lei morì il boiardo e la vedovella scuotendo le ali dopo così lungo servaggio ritornò in patria cinta dall’aureola interessante del martirio. I suoi dolori, i sacrifici, le abnegazioni, le virtù incomprese o da comprendere le arrecarono una fama che nel devoto Piemonte salì quasi alla canonizzazione. Molti proseliti della beata Francesca di Chantal disertarono in favore di mia zia; ella divenne una celebrità per la provincia; un trionfo di più per il sesso, debole, s’intende; e una speranza per il calendario. Tale successo la infervorò maggiormente nella pietà, nella devozione, nel ritiro, nella continenza, nella mortificazione della carne, nella negazione d’ogni principio vitale e sociale, insomma in tutte le virtù cristiane.
A ventisei anni, bella, libera, ricca, la marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre era inespugnabile; sfido io, agguerrita a quel modo! Aveva da sola più fortezze che non ne avesse a’ suoi tempi il re di Sardegna; che dico! Aveva il quadrilatero italiano. Eppure pensando adesso alle sue bianche mani che l’ozio dei Paternoster aveva perfettamente conservate, pensando alla sua taglia che appariva morbida e snella anche sotto la pelliccia di martoro; pensando a’ suoi begli occhi, a’ suoi ondeggianti capelli e a molte altre cose ancora io non mi so persuadere che l’amore abbia rispettato un terreno così favorevole a’ suoi attacchi.
Sepolta per otto anni in Russia, nella compagnia d’un boiardo che fuma, bestemmia e adopera il knout, non ha ella sentito ondate di sangue novello scorrerle le vene quando pose il piede sui giardini d’Italia? Non ha ella subito l’influenza di questo caldo cielo, di quest'aere voluttuoso, dei molli profumi che esalano i nostri prati verdeggianti, i nostri colli e le sponde fiorite dei nostri laghi?
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La linea di puntini che qui vedete, rappresenta una conclusione che il mio ossequio di nipote non mi permette di formulare più chiaramente; ma ecco che un altro ordine di idee mi si affaccia al cervello. A che cosa tende il bigottismo, se non a svellere dalla natura tutto ciò che è umano? Il bigottismo prende un uomo di carne e d’ossa, di muscoli e di sangue; me lo muta in un ente astratto che ha occhi e non deve vedere, mani e non deve toccare, fibre e non deve sentire; me lo tuffa nel misticismo; me lo circonda di virtù negative; me lo avvia dritto dritto sulla strada di un paradiso che ogni buon cristiano desidera e spera più tardi che sia possibile.
Dunque mia zia può essere stata una di queste creature elette, prescelte ad abbandonare l’alta missione della donna, l’amore, il sacrificio, la compassione, il lavoro, la famiglia, la maternità, per correre con un giglio in mano sugli inutili sentieri della penitenza.
Delle due versioni il lettore prenderà quella che meglio gli aggrada.
Io continuo la cronaca dei fatti e registro per intanto, a latere della marchesa, un certo cavaliere Guglielmo Zaccarone dei nove Chiodi, nobilissimo e illustrissimo personaggio; carattere grave, costumi illibati; una pietà di san Francesco da Paola; un fervore di san Tommaso d’Aquino; un’umiltà di san Rocco; una fermezza di sant’Antonio abate per resistere alle tentazioni; spiacemi di non poter aggiungere un’eloquenza di san Giovanni Grisostomo; la colpa non è mia.
Il cavaliere Zaccarone dei nove Chiodi doveva rassomigliare molto a quel palo su cui il tiranno Gessler aveva collocato un cappello; c’era in lui la medesima altezza e flessibilità. Vestiva abitualmente di nero e portava all’occhiello il nastro di una decorazione ignota. Era membro e solido appoggio della congregazione del Buon Pastore, era il braccio destro di mia zia e faceva in casa nostra la pioggia ed il bel tempo. Credo fosse un’ottima pasta di bacchettone, innocuo, senza fiele, neghittoso, sempre stanco e spossato; solo adiravasi un poco quando, entrato in sala e stese le sue lunghe gambe davanti al camino, io movevo a salutarlo in questi termini:
— Come sta ella, illustrissimo signor cavaliere Zaccarone dei sette chiodi? oppure: degli undici chiodi?
Non ci metteva malizia; ma il numero esatto de’ suoi chiodi non lo potevo mai ritenere.
— Nove, ragazzo, nove chiodi; tre volte tanti quanti ne aveva nostro Signore Gesù Cristo. Tieni a mente una buona volta.
Oltre alla marchesa e al cavaliere io vedeva giornalmente due abati preposti alla cura della mia educazione; due abati che non andavano mai d’accordo in nulla. Uno sosteneva sant’Agostino e l’altro san Pietro; ne parlavano sempre e si oltraggiavano a vicenda; motivo per cui appresi di buon’ora che sant’Agostino era un discolo e san Pietro un ignorante. Il partigiano di sant’Agostino era un grosso epicureo dalla faccia rubiconda, temperamento sanguigno, labbra dense e vermiglie; si chiamava don Edoardo; mi direte che non è un nome da abate, ed io vi rispondo che non l’ho battezzato io.
Don Sulpicio l’altro, ma, prima di continuare, ditemi, o lettori, se voi credete che l'uomo discenda dalle scimmie, come asseriscono molti naturalisti, e, concessa questa credenza, lasciate che vi esponga la mia: cioè che don Sulpicio fosse un po’ parente delle lucertole e dei ramarri; la stessa pelle, le stesse gambe, gli stessi occhi tondi e freddi, lo stesso modo di camminare strisciando, lo stesso orecchio attento e pauroso, lo stesso piede veloce alla fuga: ah! nessuno me lo cava dalla testa, don Sulpicio era un lucertolone che tentava di congiungersi alla razza umana.
Che facesse poi anche delle esperienze sul propagamento della specie, questo non ve lo posso affermare; c’è campo libero alla supposizione. Bilioso, irascibile, mordace, non ho mai compreso perchè si tenesse tanto caro quel buon uomo di san Pietro, messo a guardia del paradiso appunto per la sua tolleranza e facilità di chiudere un occhio; ma lo faceva forse unicamente per dispetto del suo collega.
Ora che conoscete i quattro punti cardinali a’ cui venti si schiuse la mia infanzia, vi parlerò un poco di me.
Come m’avesse formato la natura nel grembo della mamma mia, io non so veramente. So che, allevato e cresciuto in un’atmosfera tutta santità, mi piegai senza sforzo e senza lotta all’influenza dominante. Innamorato dapprima delle belle immagini dorate e dei crocifissi di piombo dipinto; poi delle cotte bianche a merli finissimi che la zia mi adattava sulle spalle appuntandole con una rosetta azzurra; poi del fumo dell’incenso che sorgeva in fragranti vapori dai turiboli d’argento e con passo gigantesco entrando nelle gioje contemplative delle letture ascetiche, le canzonette del beato Alfonso de’ Liguori, i salmi esaltati di Davide, le orazioni appassionate di sant’Agostino, i deliri di santa Teresa attrassero la mia giovane fantasia per modo che minacciavo di offuscare la fama esemplare della marchesa Vavaroux. M’affretto a soggiungere che la nobile dama esultava dei miei trionfi (erano, in fin dei conti, opera sua) e commossa esclamava guardando il cielo:
— Ah! se Dio ti protegge tu sei veramente degno di popolare le schiere dei cherubini ed è su di te che l’Altissimo cavalcherà quando attraverserà lo spazio per punire i suoi nemici. «E cavalcava sopra cherubini e volava; e lanciò le saette e disperse coloro; lanciò le folgori e li mise in rotta.»
Tocco profondamente a questa citazione del coronato di Sion, stile di don Edoardo, io aprivo il salmo XVIII e continuavo a leggere:
«Oh Signore, mia forza, mia rôcca, mia fortezza, mia rupe, mio scudo e corno della mia salute.»
Vedevo con piacere che i titoli del Signore si accostavano assai a quelli di mia zia, la marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre: peccato che le mancasse il corno! ma non si può aver tutto.
Primissima cura dei miei istitutori fu di conservarmi in una beata ignoranza; come nobile non mi si addiceva lo studio, e come cristiano dovevo fuggire tutte le vanità mondane per non occuparmi che della mia salute spirituale. Ecco un saggio delle lezioni che mi davano i due abati.
Don Edoardo entrava rosso, grasso e sereno, e dopo essersi mollemente adagiato in una sedia a braccioli, prendeva a istruirmi sull’umiltà, sulla mansuetudine degli apostoli.
— Tu sarai umile e mansueto come S. Pietro — interrompeva don Sulpicio.
— S. Pietro, don Sulpicio! S. Pietro! è un modello da proporsi al signorino Gallieri degli Omodei? Un ignobile pescatore, un plebeo!
— Non vorrete già citare la mansuetudine del vescovo d’Ipona!
— No certo. Sant’Agostino aveva idee troppo elevate e mente troppo vasta per discendere a virtù di volgo.
— E sono queste le virtù che vorreste inculcare al signorino Gallieri degli Omodei! — esclamava don Sulpicio trionfante.
— Voi non mi comprendete mai, che Dio vi benedica e v’apra l’intelligenza. Il signorino è ancora giovane e ben gli stanno l’umiltà e la mansuetudine; quando sarà giunto alla forza ed allo splendore del vescovo d’Ipona farà ciò che meglio gli aggradirà. Giova per altro avvezzarlo per tempo a dominare l’orgoglio, funestissima passione, don Sulpicio! Io dirò, per esempio, al mio caro allievo di non imitare il perfido re Roboamo, che appena eletto al trono intimò guerra al suo vicino Geroboamo.
— Sbagliate, don Edoardo. Fu Geroboamo che istigò Roboamo alla guerra.
— Pigliate un granchio, don Sulpicio. Se aveste letto attentamente il capo X delle Cronache, sapreste che Salomone, padre di Roboamo aveva posto enormi pesi sul regno di Geroboamo, e Geroboamo quando seppe della nuova elezione di Roboamo mosse gentilmente a pregarlo di alleggerire il giogo del padre suo. Vedete che Geroboamo agiva da cavaliere; ma Roboamo che era un mascalzone, gli rispose villanamente che avrebbe raddoppiate le imposte, le tasse e lo avrebbe castigato con flagelli pungenti. Esorto dunque il mio caro allievo a fuggire l’esempio di Roboamo: molto più che Dio lo ha punito togliendogli la sua grazia, e i di lui fasti non furono scritti sul santo libro del profeta Semaia.
— Perdonate, don Edoardo; ma io scorgo che Dio non ha menomamente ritirato la sua grazia a Roboamo perocché il di lui regno prosperò magnificamente, come si legge nel capo XI delle Cronache e per di più edificò le città di Bet-lehem di Etam, di Bet-sur, di Soco, di Adullam, di Gat, di Maresa, di Zif, di Adoraim, di Lachis, di Azeca, di Sora, di Aiolon e di Nebron; e le fortificò e vi pose dei capitani e dei magazzini di vettovaglie, vino e olio.
— Che cosa mi parlate, don Sulpicio, di questo genere di prosperità? Roboamo in mezzo a tutto ciò gemeva e languiva per malattie corporali ché non gli lasciavano tregua nè pace.
— Malattie corporali? O come volete che avesse delle malattie corporali se prese in moglie Mahabat figliuola di Jerimot ed ebbe tre figli: indi prese Masca, figliuola di Absalon, ed ebbe quattro figli, e contemporaneamente prese diciotto mogli e sessanta concubine, dalle quali ebbe centotto maschi e sessanta femmine?
— Tutti i vostri argomenti, subdoli argomenti, don Sulpicio, non mi persuadono che Roboamo sia andato impunito dei suoi peccati, perchè si legge nel libro del profeta Nahum: «Il Signore è un Dio geloso e vendicatore; il Signore è vendicatore e sa adirarsi e serba l'ira a' suoi nemici.»
— Il profeta Nahum? Che autorità è la sua a paragone del santo re Davide che scrisse: «Celebrate il Signore perchè è buono e la sua benignità è in eterno.»
Non era la replica che mancasse a don Edoardo, ma io temo di stancare i lettori prolungando un dialogo che basta cosí com’è a dare un’idea de’ miei studi e del sommo profitto che ne doveva ricavare.
L'eloquenza de’ miei istitutori per altro mi abbagliava: io mi ingolfavo con essi a decifrare quell’interminabile logogrifo che è la Bibbia e spingendo al più altro grado l’esaltazione ascetica vagheggiavo i deserti della Tebaide, le rovine di Gerusalemme, Sion, Ninive e Babilonia; pensavo di recarmi in Palestina, sul Giordano e sulle rive del Mar Morto; avrei ben saputo scoprire il ruscello dove Labano abbeverava le sue pecore; l’albero sotto il quale Agar vide l’angelo; la grotta dove Giaele aveva inchiodato al suolo la testa di Sisara; forse avrei anche trovato il chiodo... oh! qual gioia! che regalo pel mio ottimo amico cavaliere che avrebbe così compiuto la decina. Giorno e notte studiavo le sacre carte. Da Davide a S. Paolo, da sant’Agostino a san Francesco di Sales, Kempis, Fénélon, Bourdalou, qualche cosa di Pascal e di Bossuet, io divoravo tutto; ma sopratutto mi infervoravo nelle vite dei primi padri della Chiesa; dormire sul nudo sasso, cibarsi di radici, vestirsi di foglie d’albero, bere olio per acqua, come san Gerolamo; cingere il cilicio, come san Benedetto; quasi quasi invidiavo la graticola di san Lorenzo.
Come potete comprendere di leggieri, questo metodo di vita non era il più confacente ed igienico per un giovinetto diciottenne. Non posso dirvi precisamente come fossi, perchè non m’ero mai guardato nello specchio, ma novanta per cento l’indovinereste supponendomi magro e giallo come un cetriolo avvizzito, cavi gli occhi, foschi e biechi, i capelli irsuti, raso il mento, lunghe mani, collo piegato a terra, come avviene in tutte le persone che aspirano al cielo, curva la spina dorsale, il petto concavo e le spalle aguzze come i pioli d’una sedia. Il mio vestito consisteva in una tonacella metà laica, metà pretesca, che io avevo l’abitudine di tener sempre salda colle mani e ciò mi dava un contegno pudico che la marchesa Vavaroux non finiva mai di lodare.
Durante quei diciotto anni uscii dal castello una sola volta; avevamo in casa la cappella per assistere ai divini uffici, il parco per passeggiare, una biblioteca e i soliti amici; che volevasi di più?
Uno de’ miei lettori, un garbatissimo giovinotto al quale non bastano le dieci dita per numerare le sue conquiste, mi chiede sommessamente:
— E in mezzo a tutte queste mistiche occupazioni che cosa faceva il vostro corpo?
— Non ve l’ho detto? Si trasformava in cetriolo, alcunché che somiglia al citrullo.
Giungevo appunto all’apogeo della mia vita vegetale quando spuntò l’alba di un giorno memorabile; conviene che ve lo descriva in ogni parte, abbiate pazienza.
Era il ventinove di giugno; non so se splendesse il sole, perchè non mi permettevo di guardare all’insù del mio naso; non so se facesse caldo, perchè un uomo occupato dell’anima sua non deve ascoltare le impressioni dei sensi; non so se fosse mattina, mezzogiorno, le due o le quattro, allorché fui chiamato in sala, perchè un servo del Signore non calcola il tempo, e tutte le ore sono buone per pregare. Mi chiederete dunque che cosa vi voglia descrivere di quel giorno memorabile; io vi dirò che aveva recitato il mio rosario, fatta la solita meditazione sul Manuale di Filotea, mangiato del pane raffermo e della carne putrida per mortificare la gola (lo che aveva maggiormente mortificato il mio stomaco che spasimava per la nausea), e mi preparavo a scrivere una dissertazione sul modo compassionevole col quale Tobia rimase cieco, allorché — come dissi — mi chiamarono in sala.
La mia nobile zia Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre appariva in tutto lo splendore della sua dignità; seduta in alto, vestita di nero, colle sue candide mani intrecciate sul petto, la paragonai a santa Cunegonda regina. Non saprei a chi paragonare il non meno nobile cavaliere Guglielmo Zaccarone dei nove Chiodi, che faceva anch’egli la sua bella figura, in piedi, presso al camino e languidamente appoggiato con uno de’ suoi lunghi bracci al davanzale di marmo. Don Edoardo e don Sulpicio completavano il quadro in pose differenti.
— Perdonimi Iddio, caro nipote, — è la marchesa che parla, — se ti ho distratto dalle tue pie occupazioni; ma il Signore nella sua benignità permette che noi ci occupiamo qualche volta dei nostri fratelli.
— Ama il prossimo come te stesso — interruppe Zaccarone a guisa di commento.
La marchesa approvò con un cenno del capo e riprese:
— Noi abbiamo goduto fin qui la pace delle anime giuste nella solitudine e nel ritiro. I rumori del mondo non contaminarono il tuo orecchio o Torquato; io ti crebbi nella fede del Signore e null’altro ti insegnai perchè tutto il resto è vanità.
— Delle vanità — completò Zaccarone.
— Ma adesso, figlio mio, è giunto il momento di aprire il tuo vergine cuore ad altre voci che non sono quelle della meditazione e delle preci.
Udendo mettere in ballo così la verginità del mio cuore io mi turbai profondamente; compresi nel suo ampio concetto l’apparizione dell’angelo a Maria, annunciandole che sarebbe madre. Non è ch’io pure m’aspettassi una simile annunciazione — benché tutto sia possibile nella fede, io non la pensai — ma il mio cuore tremò inconscio e timoroso. Mia zia se ne accorse.
— Ti rassicura, Torquato; quello che devo dirti non porrà incaglio alla santità della tua vocazione: si tratta di un’opera di misericordia.
— Ascolto, signora zia.
— Tu sai che in linea paterna avevi un cugino di fresco ammogliato con una damigella lombarda.
— Ahi signora, l’anima mia non si cura dei vincoli che attaccano questo misero corpo all’umanità.
— Ben detto, Torquato, e degno di te; ma devo annunciarti che il cugino è morto.
— Pace alle sue ossa! Gli reciterò un De profundis davanti all’immagine di san Giuseppe.
— Sarà una buona opera, ma non basta. Questo tuo parente ha lasciato una vedova giovinetta, orfana, senza beni di fortuna; il baratro del mondo è aperto sotto i suoi piedi; Satana approfitterà del di lei isolamento ... ah!
Un fremito d’orrore sospese la perorazione della pia marchesa; il cavaliere dei nove Chiodi staccò dal camino il suo lungo braccio e le offerse un pizzico di rapè; don Edoardo e don Sulpicio, in previsione, si soffiarono il naso. Mia zia continuò:
— Basterà l’animo a noi cristiani di lasciar cadere in un abisso di perdizione questa innocente pecorella?... Io vorrei proporti o Torquato di ritirare presso a noi la vedova finché si possa meglio provvedere alla salvezza dell’anima sua ed al suo meglio.
— Faccia lei signora zia come crede.
— Bramo avere il tuo consenso poiché questa è casa tua.
— L’uomo è un pellegrino che non ha casa sulla terra, la sua casa è in Cielo! Le ripeto, faccia come crede.
— Quand’è così, ritengo il tuo assenso. Don Edoardo, favorite scrivere alla signora Giannina Odescalchi vedova Gallieri degli Omodei, che noi l’aspettiamo.
Sciolta a questo modo la seduta, tornai a meditare sulla cecità di Tobia.
Una settimana dopo io avevo perfettamente dimenticato tale incidente mondano ed entravo in sala all’ora del pranzo; mortificato di dovere questa concessione alla fragilità della carne, tenevo gli occhi sul tappeto e le mani sulla mia tonacella.
Un delicato profumo di mammola ferì il mio naso abituato esclusivamente al forte odore dell’incenso, e una voce che non assomigliava per nulla alle voci che udivo tutti i giorni esclamò soavemente:
— È questo dunque mio cugino?
Io non la guardai, no, lettori; ma compresi che doveva essere la vedovella e le feci un rispettoso inchino.
Mia zia replicò:
— Ecco, Torquato, la nostra cara parente, io la raccomando singolarmente a te, perchè colla rassegnazione e colla fede che il Signore Iddio t’ha compartito possa a tua volta trasfondere nel di lei petto quei sentimenti di cristiana mansuetudine che soli aiutano a sopportare le tribolazioni del secolo.
— Marchesa, hanno dato in tavola — interruppe Zaccarone.
Sedemmo tutti; dal fruscio leggero di un vestito di seta m’accorsi che la cugina era collocata rimpetto a me. Io non la guardai, no, lettori; ma il profumo di mammola attraversava la mensa e giungeva ancora a solleticarmi l’odorato e la soave vocina parlava sovente in termini che mi facevano arrossire. Ella rideva ah! come rideva! io non avevo mai udito ridere nè mai osservato che figura facesse una bocca ridendo. Pure non la guardai, no, lettori; ma siccome la creta è fragile e la pupilla gira così rapidamente, mi posi una mano davanti agli occhi e rimasi in questa positura tutto il tempo del pranzo.
Alla sera chiesi il permesso di ritirarmi presto, dovendo incominciare la novena di San Eulogio, vescovo.
Il cielo m’è testimonio che io non pensavo e non mi occupavo menomamente della giovane vedova; ma il fatto è ch’ella mi rubava quattro o cinque ore al giorno per istigazione della marchesa; il cielo potrà anche dire se la marchesa agiva in tal modo per sbarazzarsi di una compagnia che poteva distoglierla dalle sue pie occupazioni.
— Ah! cugino, sono molto infelice! — diceva la signora Odescalchi Gallieri degli Omodei.
— Pregate il Dio di Gerusalemme ed egli verrà in vostro aiuto — rispondevo innalzando la mia mano.
— Il Dio di Gerusalemme non mi renderà Milano! — singhiozzava la vocina, e che soave odore di mammola usciva dal suo fazzoletto!
— Empia città! Come è mai possibile il rimpiangerla? — diss’io che non la conoscevo.
— Ah! cugino, sono nata a Milano, là mi sono maritata, là perdetti il mio Giulio.
— Signora, l’amore di Dio vi renderà il doppio di quello che perdeste nell’amore di un uomo.
— Io m’accontenterei che mi rendesse semplicemente quello che ho perduto, ma ne dubito. Se sapeste cosa vuol dire esser vedova a diciassette anni, dopo sei mesi di matrimonio! Noi ci amavamo tanto!
— Signora! — interruppi alzando anche l’altra mia mano.
— Deh! lasciate che mi sfoghi; Giulio ed io eravamo felici come gli angeli nel paradiso.
— Quale bestemmia, signora, quale bestemmia! (ah! perchè non avevo una terza mano da innalzare?)
— Voi parlate così perchè vi sono ignote le gioie purissime, inebbrianti, divine che allietano due sposi uniti dal più tenero amore! Di giorno, di sera, noi eravamo sempre uniti; un solo desiderio ci infiammava, un solo pensiero.
— Per carità, signora, cessate da questo strano delirio; il mio pudore si rivolta a descrizioni sì scandalose.
Ella tacque, ma ricominciò a singhiozzare; io mi posi in ginocchio, e nascondendo il volto fra le pieghe della mia tonacella, gridai dal profondo dell’anima: «E fino a quando, o Signore, flagellerai i tuoi servi?»
Quasi tutti i giorni avevamo un dialogo di questo genere; ma disperando di salvarla colla persuasione e co’ saggi ammonimenti, digiunavo per lei e mi flagellavo e chiedevo fervorosamente allo Spirito Santo che la inondasse della sua grazia.
Senonchè trascuravo a questo modo la mia propria salute e più d’una volta l’anima mia sorprese la mia mente rivolta alla peccatrice. Risolsi di involare qualche ora alla notte per riprendere le mie meditazioni sui padri della Chiesa primitiva. Mi alzai alle tre; ma c’era nella cameretta un topo che dava troppa distrazione al mio spirito, onde mi avventurai fuori dell’uscio, giù per la scala, fino ai primi alberi del giardino. Oh! come dolce scendeva su di me la rugiada delle celesti ispirazioni, là, fra quelle brune piante, sotto quella vôlta stellata che mi parlava dell’onnipotenza di Dio! Sdraiato sulla sabbia dei viali, colla testa sull'umida erbetta, quanti cantici io composi ad imitazione di Salomone! quanti salmi come Davide! quanti lamenti come Geremia!
Ma una notte; notte calda, trasparente, vaporosa, vera notte d’estate sotto il cielo d’Italia, mentre attraversavo uno stretto corritoio senza finestre e per ciò tendevo avanti le mani con una delle quali reggevo il Manuale di Filotea e andavo brancicando allo scuro, una sensazione nuova, improvvisa, un contatto morbido qual foglia di rosa, tiepido quale... Dio!... era una mano. E un lieve profumo di mammola mi avvolse e un piccolo grido represso mi ferì il cuore.
— Chi siete? chi siete? — disse premurosamente colei che pur troppo avevo riconosciuto.
— Vade retro, Satana! — mormorai stringendomi al petto il Manuale di Filotea: ma volle appunto sventura che il pesante volume mi scivolasse cadendo rumorosamente per terra.
— Oh! siete voi, cugino? E che cosa v’è mai caduto? Aspettate che v’aiuterò a cercarlo.
Io mi curvai in un baleno per evitare ogni nuovo contatto; ma quando il dito del Signore si allontana dal nostro capo tutto va di male in peggio.
Curvandomi sfiorai i capelli, la fronte e il serico velo che copriva le spalle di Giannina.
— Cugino! cugino! accendete uno zolfanello.
Altro che zolfanello!
Ella mi chiamava ancora che io già mi trovavo nella mia cameretta, ginocchioni, con uno scudiscio in mano disposto a castigare la caducità de’ miei sensi, se non era il topo che mi interrompeva obbligandomi a dargli la caccia.
Per tre giorni consecutivi non mi mostrai alla vedova di mio cugino. Impiegai questo tempo nelle più sante e rigorose penitenze, nei digiuni, nel raccoglimento, nella mortificazione. Quando potei giudicare di essere abbastanza fortificato alla grazia divina, essendo la natura umana da sè sola imperfetta, ripresi l’arduo cammino sul quale il Signore ne’ suoi imperscrutabili decreti aveva fatto smarrire una pecorella; ma perchè dare a me l’incarico di ricondurla all’ovile?
— Cugino, vi ricordate del nostro incontro dell’altra sera?
— Anzitutto vorrei pregarvi, signora, a non chiamarmi cugino; questa parola accenna vincoli di sangue e di carne; è un peccato per me. Poi vi avverto che io non ricordo nulla delle cose materiali.
— Ve le rammenterò io; bisogna bene che giustifichi quella mia passeggiata notturna.
— Giustificatevi col Signore, io non c’entro.
— Per esempio: vorrei sapere se fu il Signore che mi scompigliò i ricci e fu causa che il mio velo si rompesse in due luoghi.
— Signora, mi meraviglio che mi diciate simili cose.
— Preferite accertarvene coi vostri occhi? guardate.
Ah! che orrore, ella rideva come se fosse il dialogo più semplice di questo mondo, ma io tenevo sempre la mano alzata.
— Ho capito, il paravento è ancora all’ordine del giorno; vi dirò intanto, cugino, che l’altra notte io pensavo al mio povero marito. Oh! come mi trovavo deserta, malinconica. Come desideravo il mio Giulio, come sospiravo rimembrando i tempi felici della nostra unione! Ho appena diciasette anni...
— Signora, tali particolari...
— Tali particolari, cugino, mi conducono a dirvi perchè non potendo trovar pace nel mio letto deserto uscii a respirare l’aria fresca e perchè invece dell’aria fresca ho incontrato voi e il vostro Manuale, a proposito del quale vi annunzio che si trova nel mio appartamento.
— Spero me lo renderete.
— Quanto prima; esso ha formato la mia delizia in questi giorni.
— Me ne rallegro signora e da ciò argomento che l’anima vostra progredisce verso la salute.
— Ma credete che sia inferma l’anima mia?
— Oh quanto! tutte le vanità mondane, tutte le gioie nefande dei sensi, tutte le concupiscenze della carne tramano contro di voi.
— Che cosa tramano? — chiese la vedovella col suo riso infantile e impertinente.
— La perdizione dell’anima vostra, signora! di questa pura fiamma che noi dobbiamo alimentare a gloria di Dio e che voi fate ardere di fuoco profano.
— Ah! cugino, non mi farete credere che voi parlate da senno; siete imboccato dalla nostra nobile parente Vavaroux, dal cavaliere dei Chiodi e da quei due coccodrilli che vi insegnano il latino, non su Virgilio, ma sul Confiteor.
— Signora, v’ingannate...
— No, che non m’inganno. Siete voi l’ingannato, cugino mio, voi che a diciannove anni vivete come una mummia; voi, che dell’uomo non serbate che il nome; voi che abdicaste alle nobili gioie, ai lavori virili, alle conquiste dell’intelligenza, alle lotte del cuore, all’ebbrezza dei muscoli, e per chi? Rispondete: per chi?
Era impossibile che io rispondessi perchè quel fiume di parole così stravaganti, così astruse per me mi rendevano muto.
Ella, supponendo che mi mancasse il coraggio, mi si fece accanto e mi prese improvvisamente una mano. Risentii, come in quella sera, la morbidezza della rosa, il profumo della mammola, un turbamento arcano, profondo, indescrivibile.
Mi alzai e fuggii a corsa, rattenendo i lembi della mia tonacella.
— Sant’Antonio, san Gerolamo, sant’Agostino, san Paolo, voi tutti valorosi campioni della forza che domina gli istinti brutali, abbiate pietà di me. San Luigi, san Francesco, san Domenico, san Carlo, gigli di purità e di candore, abbiate pietà di me. Angeli, arcangeli, cherubini, serafini, troni e dominazioni, abbiate pietà di me!
Compiuta questa breve ma fervente orazione, mi coricai sul nudo terreno ove presi sonno. Dormendo vidi le due rotture che avevo fatte nel velo di Giannina.
All’indomani un servitore mi portò il Manuale di Filotea per ordine della signora vedova Gallieri. Premuroso di abbeverarmi a quella fonte salutare lo apersi e la prima cosa che mi cadde sotto gli occhi fu una canzonetta del beato Alfonso de’ Liguori, tutta virgolata con matita rossa. Eccone un saggio:
Dov’è quel tempo, o Dio, |
Non fui in grado di finirla. Quella canzone che avevo letta tante volte infiammato d’amor divino mi sembrava allora tutta spirante voluttà e mollezza.
Da ogni virgoletta sembrava scaturisse una scintilla, Sembrava che quella scintilla mi ripetesse l’eco melodioso della voce di Giannina.
Mi toccai la testa per assicurarmi che l’avea sulle spalle; la testa c’era, ma il cervello?
Si ha un bell’imprigionare la natura, violentare le sue leggi, circoscriverla entro limiti dati e approvati; si ha un bel proclamare la superiorità dell’anima sul corpo, dello spirito sulla materia; questa materia che è la prima e forse l'unica base del nostro essere, freme a dispetto di tutti i vincoli e quando è giunto il suo momento scoppia, avvampa, distrugge. Io mi sentivo tutto il sangue in tempesta; sudavo e gelavo. Ero e non ero io.
All’ora del pranzo la burrasca de’ miei sensi durava tuttora; mangiai la zuppa ripetendo fra me:
Prima ferimmi il core |
Venne il fritto, venne il lesso, venne l’arrosto; ma io non cessavo dal mormorare: «E poi me lo rapì.»
Contro il solito, Giannina non parlò e non rise; dal canto mio dovetti fare sforzi sovrumani per non guardarla, però non la guardai.
— Soffrite oggi, Giannina? — disse la marchesa, ricevendo dalle mani della vedovella la sua tazza di caffè.
— Un poco, sarà il caldo, suppongo.
— È facile; andate a passeggiare in giardino, vi farà bene.
— Lo credo; ma il giardino è così vasto, che trovandomici sola m’assale la malinconia.
— Torquato vi accompagnerà.
— Duolmi, signora zia, ma ho disposto una meditazione sulle principali opere di misericordai e...
— E invece della teoria ti si offre una buona occasione per applicarti alla pratica, consolare gli afflitti; non dimenticare, Torquato, che questa è la migliore e la più meritoria delle opere cristiane.
Ah! lettori, quando il diavolo ci si mette!...
Mia cugina ed io passeggiammo lungamente sotto un viale di platani; ella guardava le foglie ed io le radici; per tal modo i nostri occhi non si incontravano.
— Cugino, sono stanca, vi spiacerebbe sedere un istante?
— Sedete voi, signora, io vi aspetterò in piedi.
Ella sedette sospirando, e siccome trovavasi rimpetto a me proprio nell’asse de’ miei sguardi, io alzai prudentemente la mano. Nuovo sospiro da parte sua, accompagnato da queste parole:
— Cugino, voi mi odiate!
— Signora, io non odio che il peccato.
— Per lo meno non mi amate, cugino!
— Signora, io non amo che Dio.
— Non mi guardate neppure!
— Dio consiglia di fuggire la concupiscenza degli sguardi; e voi, signora, mi cagionate già bastanti distrazioni.
— Piacesse al cielo, ma non me ne accorgo affatto! Intendete forse parlare delle virgolette segnate in margine alla canzone? Se sapeste! Ieri appunto compiva l’anno che il mio Giulio disse di amarmi, eravamo in giardino, sotto un viale, non di platani, no, d’ippocastani, tramontava il sole così, come adesso, fra quelle nubi di porpora e gli uccelletti cantavano fra i rami!... Ah, Torquato, se sapeste!
— Signora, io non voglio saper nulla.
— Lasciatemi allora ripetere col beato de Liguori:
Dove, mio ben, tu sei? |
— Signora cessate, ve ne scongiuro.
— Come? Volete impedirmi di recitare una canzone sacra?
— Non è la canzone... è... non è...
Effettivamente la mia testa ardeva; mi battevano i polsi; il cuore mi palpitava violentemente.
Giannina tacque.
Tutto ad un tratto, con un movimento di gazzella spaventata, ella balzò in piedi gridando:
— Un bruco, cugino, un bruco!
— Dove, signora?
— Qui sul mio collo.
— Oh, signora!
— Levatelo, cugino, fate presto.
— Egli è che...
— Presto per carità, mi sento morire di paura e di ribrezzo, cugino, presto!
San Giovanni Nepomuceno, come dovevo fare? Anzitutto mi convenne scoprire gli occhi per vedere ove trovavasi il bruco: «sul mio collo,» ella aveva detto. Sul suo collo! ed aveva diciassette anni e una foresta di capelli neri le serpeggiava in ciocche capricciose e il serico velo era lacerato in due luoghi; ah! perchè non rammendarlo?
— Ma Dio! che cosa fate? me lo sento ancora!
— Perdono, non lo vedo, non lo trovo, non...
— Qui! guardatelo qui... fugge! Lo vedete ora?
Sì, lo avevo veduto e con esso, angelo mio custode! e con esso...
Raccolsi prontamente una foglia di platano e l’accostai al lurido insetto; prenderlo colle dita non avrei osato, su quel collo.
Giannina respirò liberamente quando lo vide ruzzolare nella sabbia sotto a’ miei piedi; ma io non potevo più respirare affatto; peggio, non potevo più togliere gli sguardi dal suo collo, dal suo volto, da’ suoi folti capelli, e non è tutto. Ella aveva due occhi nerissimi, profondi, luminosi come il raggio d’una stella, due occhi che mi guardavano, che mi guardavano, che mi attraversavano il cuore.
— Oh Dio!
— Cugino, perchè dite: Oh Dio? Forse che il bruco vi ha morso?
Ah sì! trattavasi di ben altra morsicatura, se io restavo un minuto ancora sotto il fuoco di quegli occhi neri...; fuggii.
Ma giunto all’ultimo platano del viale caddi per terra svenuto.
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— È una meningite bella e buona — diceva il giorno dopo il dottore toccandomi il polso.
Restai a letto un mese, durante la prima metà del quale un continuo delirio m’impedì di riconoscere le persone che circondavano il mio capezzale; lentamente e con fatica ricuperai l'uso intero della ragione e allora distinsi mia zia da un lato e Giannina dall’altro. Giannina!
In quei giorni pioveva, faceva freddo, e il bianco collo di Giannina stava sepolto sotto una sciarpa, ma i suoi occhi neri dardeggiavano; e la mia mano era ancora troppo debole per poter alzarsi e farmi riparo.
La vidi così venti giorni consecutivi. Mia zia, impegnata nella divozione, ci lasciava molte volte soli; sembravale senza dubbio una cosa naturalissima, poiché ci eravamo tante altre volte trovati soli, sia in giardino, sia nella corte o in sala o in chiesa: ma convien dire che non risulti lo stesso o ch’io mi fossi cambiato durante la malattia perchè... perchè... ah! come faccio mai a dirlo! Or bene, non lo dirò. Ma se non lo dico, il lettore può pensare a male e credere... Dunque lo dirò. Tutto ben considerato posso spiegarmi in due parole: io l'amava.
Suppongo, lettori, che voi conoscerete l'amore; ponetevi un istante nei panni di uno che non lo conosceva: che magia! che portento! che trasformazione!
Che cos’è la terra, che cos’è il cielo, che cos’è il tempo, che cos’è l’eternità per un uomo innamorato? (non escludo le donne).
Che cosa divennero a’ miei occhi gli angeli, i santi, i cherubini, i serafini, i troni, le dominazioni? E don Edoardo, e don Sulpicio?
Fu un lampo, le tenebre si squarciarono; oh! come bella e raggiante come mi apparve eterea la mia Giannina!
Ma se basta una scintilla ad illuminare il cuore, a svincolarlo dai ceppi del misticismo, non così facilmente si scioglie la lingua abituata a masticare Paternoster. Ne venne di conseguenza che non potendo più parlare il mio linguaggio antico e trovandomi nella perfetta ignoranza dell’altro, io tacevo. Gli intendenti asseriscono che questo è il miglior mezzo di spiegarsi quando si è innamorati. Era forse per spiegarsi anch’essa che Giannina non apriva bocca? Dapprima lo sperai, poi lo credetti, e non ne ebbi più alcun dubbio, allorché un giorno venendomi accanto per sollevarmi i guanciali, io presi la sua candida manina e la strinsi fra le mie, ella si curvò e mi diede un bacio sulla fronte.
Che eloquente silenzio!
Incominciavo ad alzarmi, don Sulpicio premuroso della mia salute spirituale mi portò la Filotea onde ripigliassi le sante meditazioni, ma se leggevo quel libro di sera mi ci addormentavo sopra e se lo leggevo di giorno pensavo a Giannina. Fu appunto in questa seconda applicazione che i miei occhi caddero su una poesia dedicata al sacro cuore di Gesù:
Come assetato il cervo |
La rilessi otto volte, pensavo a Giannina e la virgolai con inchiostro azzurro.
Un’ora non era trascorsa e Giannina, che veniva a tenermi compagnia nella solitudine della convalescenza, aperse a caso il Manuale; la sua intenzione non era di leggerlo; trastullavasi a voltare i fogli, stirandone le pieghe col suo morbido dito; quando fu alla pagina segnata si fermò, sorrise e mettendomi in volto que’ suoi grandi occhi neri, disse:
— La vostra devozione, cugino, s’adatta alle mie pratiche mondane.
Volli rispondere; mi chiesi che cosa dovevo rispondere; e in fin dei conti non feci altro che arrossire. Tirai avanti un altro mese con questi preliminari.
Giunse l’inverno; la marchesa Vavaroux, avendo voluto recitare il rosario ginocchioni sul marmo della chiesa, erasi buscata un’artritide che l’aveva messa in letto.
Zaccarone le leggeva, per distrarla, le vite dei Santi. Don Edoardo e don Sulpicio continuavano a bisticciarsi per san Pietro e per sant’Agostino, per Roboamo e per Geroboamo.
Io restavo solo colla vedovella ad attizzare il fuoco... del camino.
Sotto pretesto che il Manuale per la sua stampa sottile mi affaticava la vista, non lo aprivo più; sotto pretesto che i digiuni peggioravano la mia salute, mangiavo con Giannina e bevevo tutto il vino che ad essa piaceva di versarmi; con altrettante scuse soppressi le veglie, le meditazioni, il cilicio.
Ma siccome qualche cosa bisognava pur fare nelle dodici ore del giorno, Giannina mi parlava di Milano, della società, dei teatri, della vita e dell’amore. Mi fece imparare il walzer, ballavo con lei tutte le sere e non rattenevo più i lembi della mia tonacella.
Un giorno Giannina scoperse nella mia voce il re-mi; detto fatto: m’insegnò a cantare. Norma, Traviata, Trovatore, Barbiere furono altrettante rivelazioni per me. Cantavamo insieme, con una leggerissima variante:
Tu sai ben che all’età nostra |
Batti e ribatti questa solfa, la sentimmo proprio noi, la frenesia!
Che fu, che non fu, ci trovammo un bel momento abbracciati! Giannina era una donnetta di buon senso; mi fece sedere gravemente su una sedia, sedette ella stessa al mio fianco e mi tenne il seguente discorso:
— Caro Torquato, dobbiamo ragionare con serietà; anzitutto riflettete a mente fredda se mi amate veramente.
— Vi adoro!
— Uh! che sacrilegio, le mie caste orecchie non possono ascoltare questa sacra espressione volta a un oggetto profano.
— Burlatemi, Giannina, burlatemi, avete tutte le ragioni del mondo; frattanto vi adoro.
— Che Dio abbia compassione dell’anima vostra!
— E voi del mio amore.
— A proposito, torniamo a capo. Accettato dunque che voi mi amate, che pensate fare, per norma?
— Quello che fanno tutti — risposi non senza un po’ d’imbarazzo.
— Tutti coloro che vanno per la retta via? — aggiunse la scaltra vedovella lanciandomi un’occhiata assassina.
— Certo.
— Va bene, Torquato, ma voi non siete in condizione di prender moglie.
— Oh! perchè? — chiesi ingenuamente.
— Perchè non avete esperienza di mondo.
— Come c’entra il mondo... fra noi due?
— C’entra, vi dico e ne posso sapere più di voi, dal momento che sono vedova.
— Mentre io...
— Precisamente.
— E allora come si fa?
Giannina pose sulla fronte il suo bianco dito in attitudine pensosa; ecco il risultato de' suoi pensieri.
— Vi abbisogna per lo meno un anno di scuola.
— Dove?
— Dove volete; più lungi, sarà meglio.
— Allontanarmi di qui?
— Eh! naturalmente.
— E la marchesa?
— La marchesa vi darà il buon viaggio.
— Ma ella non permetterà.
— Si parte senza il suo permesso.
— Un atto d’insubordinazione!
— Siete uomo o che cosa siete? Siete o non siete padrone della vostra volontà? Volete seppellirvi in questo castello? Volete diventare un coccodrillo come i vostri precettori, un papero come Zaccarone? E l'amore di Giannina, dite, non lo volete l’amore di Giannina?
L’ultimo argomento era il più convincente di tutti; le baciai l’estremità delle dita mormorando:
— Farò tutto quello che vi aggrada.
— Anche se non aggradisse totalmente a voi? — domandò la mia regina, trattenendomi la mano con dolce violenza.
— Ed è possibile?
— Frasario da innamorato, fingerò di crederlo, ma state all’erta per non tradirvi.
— Quando devo partire?
— Da oggi a domani.
— Per il nord o per il sud?
— Per il campo.
— Il campo! — feci aprendo i miei occhi quanto erano grandi.
— Sì. Non basta che io abbia acquistato un uomo al buon senso, voglio acquistare un cittadino alla patria. Il Piemonte si arma per aiutare la libertà d’Italia; il re aduna l’esercito; accorrono volontari da tutte le parti, voi sarete uno di questi.
Gettai uno sguardo malinconico sulla mia tonacella. Giannina proruppe in una sonora risata e disse tirandomi vezzosamente i capelli:
— Vedrete che cambiamento colla divisa! non sarete più riconoscibile; scommetto che vi spunteranno anche i baffi; ah! che bel maritino.
Quel demonio faceva di me tutto quello che voleva; dall’abate Riva a Beaumarchais; dalla chierica al fucile. Non avevo che a guardare i suoi occhi neri per sentirmi il coraggio d’un leone.
Abbrevio.
Una settimana dopo sapevo come sono fatte le città, i villaggi, le vetture pubbliche, le strade ferrate, i teatri, i caffè, gli alberghi e cento altre importantissime cose. Mi arruolai, venni in Lombardia, feci la mia campagna, guadagnai le spalline e terminato tutto felicemente, scrissi alla mia nobile zia di preparare il vitello grasso perchè il figliuol prodigo stava per ritornare.
Invece del vitello la marchesa Atenaide di Vavaroux, Monte, Rocca, Picco e Torre mi accolse con una lavata di capo, e a lei prestarono mano in qualità di aiutanti don Edoardo, don Sulpicio ed il cavaliere Guglielmo Zaccarone dei nove Chiodi.
Io li lasciai sfogare tutti e quattro e quand’ebbero ben parlato della collera di Dio, delle pene eterne, della religione calpestata, del diavolo trionfatore; quand’ebbero staccati tutti i santi del calendario e invocate tutte le madonne conosciute e da conoscersi (poichè ogni tanto se ne scopre qualcuna nuova) presi per mano Giannina che sospirava tacitamente in un angolo e dichiarai davanti a quella rispettabile adunanza di farla mia sposa.
Si gridò, si strepitò; potete figurarvi! ma la conclusione è che da sei anni a questa parte io mi trovo il più felice degli uomini, quantunque la mia anima sia irremissibilmente perduta alla grazia, come asseriscono in un toccante duetto mia zia e il cavaliere.
E Giannina? — dirà il lettore.
A questo punto, due morbide braccia circondano il mio collo; un delicato profumo di mammola mi involge; sento la mia fronte appoggiata a un cuore che palpita dolcemente e un bacio, due baci, mille baci mi piovono sulle labbra... Ecco Giannina.