Un morto

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Divina gioventù La mia vicina

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UN MORTO.


Le signore sono pregate a non spaventarsi.


SS
ofia aveva intrecciate le braccia (le più candide braccia del mondo, uscenti nude da uno sbuffo di trine) dietro il capo, sull’appoggiatojo della poltrona e coi piedi allungati (due amori di piedi, calze di seta grigia e sandalini) su un cuscino di velluto, dondolava la faccia da destra a sinistra, ridendo.

— Eppure — continuai gravemente — questo signor Emanuele che tenta riannodare vecchie amicizie che la convenienza aveva interrotte, non mi predice nulla di buono.

— Capisci — Sofia abbassò le braccia e me le stese davanti nell’atto di un maestro elementare quando spiega una regola difficile — non è stato lui a vole riannodare...

— Allora sei stata tu? [p. 84 modifica]

— Nemmeno. Ci siamo incontrati, figurati, al cimitero, dove io porto ancora tutt’i mesi una corona sulla tomba di Beppino, quantunque l’anno di lutto sia già passato.

— E tu debba accingerti a nuove nozze col fratello di lui.

— Già.

— È una promessa fatta al letto di un moribondo; non puoi infrangerla.

— E chi ci pensa; mia cara? io sono dispostissima a sposare mia cognato. Ragioni di famiglia e di interesse mi vi spingono; una promessa, come tu dici, mi lega — ebbene lo sposerò. Non è guercio, non è gobbo, non m’ispira nessuna ripugnanza; amore... ah! questa è un altra faccenda. Sai bene che io non so amare, non voglio, non potrei neanche. Dopo le fanciullaggini fatte per Emanuele dieci anni addietro, vere fanciullaggini da educanda che oggi mi muovono il riso — io non ho mai provato nè un palpito nè un desiderio. A che pro? Poichè l’amore è una illusione, poichè è un miraggio lusinghiero e falso, che non mantiene nessuna delle gioie che promette, poichè muore prima di noi e non ci fa felici — queste sono cose che tutti sanno — a che prò amare? No, no, no — (aveva riposte le braccia sulla spalliera della poltrona e vi dondolava su la testa) — amore non mi piglia!

— Dicevi...

— Ah! sì, devo raccontarti l’incontro con Emanuele. Al cimitero dunque; tornavo dalla tomba di mio marito; lo riconobbi subito. Mi salutò gravemente, nè io vidi alcun male a fermarlo per chiedergli [p. 85 modifica]notizie della sua salute. Mi rispose, tossendo un poco, che ora sta meglio, ma che fu gravemente ammalato, intanto che egli parlava, io pensavo che m'ero dimenticata di chiudere la gabbia del mio cardellino e che senza dubbio non ve lo avrei più trovato — vedi quanto Emanuele mi soggiogava!... Non capisco proprio come feci a innamorarmene, ma ero tanto giovane allora che forse scambiai per amore un leggerissimo capriccio; il fatto è che mi parve punto bello; e, sai? non ha gli occhi neri — no; visti sotto il sole hanno un misto di castagno dorato e di grigio azzurrognolo. Egli disse: mi permettete di accompagnarvi fino alla carrozza?

Risposi: perchè no? Solo non vorrei tirarvi giù di strada. Egli replicò (sta attenta al complimento): In vostra compagnia non sono mai giù di strada. Ah! ah! se non fosse stata la solennità del luogo, avrei riso proprio di cuore, ma mi accontentai di dirgli: non scherzate fra i morti.

Prese un’aria grave, abbassando la voce quasi avesse paura che lo udissero le lucertole o il mendicante sordomuto accoccolato dietro il cancello:

— Non scherzo, Sofia. Abbiamo anche noi il nostro povero morto, quel morto cui non aspetta veruna resurrezione... il nostro amore.

Eh? Avevo ben ragione di dirti che non c’è nulla da temere per parte di Emanuele. Possiamo stare vicini come due cariatidi su una tomba — senza toccarci, senza guardarci neppure. Gli ho dato il permesso di venire a trovarmi quando non sa più come uccidere il tempo; ci annoieremo insieme — è una opera di misericordia anche questa. [p. 86 modifica]

Gli amori di Emanuele e di Sofia erano appunto, com’ella aveva detto, vecchi di dieci anni, ed io ne ricordavo perfettamente le sentimentali e platoniche peripezie. Tutt’insieme, tra il primo sguardo e l’ultimo bacio (sulla mano) durarono il tempo che corre tra lo spuntare delle viole e la maturanza delle nespole; poi la fiamma si spense, non so bene perchè, per atonia, per malintesi, perchè la ragazza era troppo giovane o lui troppo timido o perchè doveva spegnersi.

Andarono, l’uno sulla via della medicina, l’altra su quella del matrimonio; il primo a immergere specilli, la seconda a gettar scandagli; studiando tutti e due la gran scienza della vita.

Ora, dopo dieci anni, il caso li riuniva in un cimitero.

Emanuele era diventato un po’ più pallido; aveva una gran barba castagnina, due occhi serii e profondi. Era medico di prim’ordine.

Sofia, cui il matrimonio aveva giovato, sembrava trovarsi benissimo anche nella vedovanza e positivamente non si preoccupava delle seconde nozze; era sempre, con gran dispetto delle sue rivali, una donnina fresca, vivace, seducente, con una dozzina di pozzette sparse un po’ dappertutto e un sorriso che valeva un Perù.

L’avevano soprannominata il polo nord, per la resistenza veramente di ghiaccio, contro la quale si spuntavano le frecce de’ suoi adoratori. [p. 87 modifica]

Ella diceva: l’amore è il wermouth che gli stomachi deboli prendono prima del pranzo; una volta seduti a tavola non si prende più wermouth.

Ma che cosa intendeva per tavola? E perchè voleva escluderne l’amore, che per quanto io mi sforzi a confrontare coi migliori prodotti dei fratelli Cora di Torino, non arrivo proprio a trovare simile nè somigliante.

Basta, anche le persone d’ingegno hanno talvolta degli apprezzamenti sbagliati, e Sofia era veramente, per meriti e per educazione, una donna distinta.

È niente affatto improbabile che la parte larghissima ch’ella concedeva nelle sue occupazioni alle arti, alle lettere, ed a certi studî amabili e positivi, come la storia, la botanica, ecc., le togliessero un po’ di quell’ozio della mente, che è così fervido infiammatore di cuori.

Sofia, nella sua corazza di raso (perchè era molto elegante e vestiva all’ultima moda), si trovava così sicura e intangibile come il Duilio nella sua corazza di ferro.

Ella me lo ripetè ancora, fermamente, accompagnandomi fuori del salotto e mentre io la baciavo in fronte promettendole di tornare presto.

Viene poi a trovarti il signor Emanuele? le domandai una sera mentre sedute tutte e due accanto al primo fuoco d’autunno facevamo delle calze americane per i bimbi!

— Sì, viene;

Lì per lì non trovai altro da soggiungere, ma un po’ dopo le chiesi:

— Quanti punti hai messi tu? [p. 88 modifica]

— Trenta.

— Ma il tuo cotone è più grosso del mio.

— Mettine trentacinque allora; sono più che sufficienti. Maria non ha le gambe molto robuste.

Ruppe il filo perchè c’era un nodo e le cadde per terra il gomitolo; glielo raccolsi ed ella mi disse grazie, poi:

— È strano, quegli occhi! Sono azzurri affatto affatto.

— Gli occhi di Maria?

— No, gli occhi di Emanuele.

— Ah!

— Di un azzurro scuro, profondo...

Bleu marin insomma.

Sofia diede fuori in una gran risata. Quel colore di moda, quel colore della sua sottana e del suo corpetto brettone applicato agli occhi di un dottore le parve buffo.

Rideva ancora quando Emanuele comparve sull’uscio.

Aveva un’aria composta e grave; davvero, se avessi avuto una figlia di vent’anni glie l’avrei confidata senza scrupoli.

Una mestizia tranquilla impallidiva il suo volto senza alterarne le linee; c’era in lui del quaquero e del puritano — e pensare che io... vergogna! sì, per un momento mi erano pullulati nel cervello certi sospetti... Come si è maligni! Dio de’ dèi, quanto fango ci deve essere in questo nostro io pensante per vedere sempre del male!

— L’avete? esclamò Sofia con quella sua foga [p. 89 modifica]impaziente che la fa somigliare a un piccolo razzo quando prende fuoco.

Sì, lo aveva.

Era un libricino giallo, fresco, nuovo col frontispizio rosso e in caratteri elzeviriani, ma non osava deporlo sul tavolino di Sofia.

— Datemelo dunque!

— Non so se devo — disse Emanuele colla sua bella voce larga e sonora — la critica ha trovato molti peli in quest’ovo...

— Ragione di più. Le ova senza pelo sono una cosa tanto comune!

— Ma si vuole che questi sien peli da satiro...

— Via, anche i satiri non saranno poi così brutti come li dipingono.

— Decisamente non avete paura? — disse Emanuele con un sorriso singolare.

— Io no; perchè dovrei avere paura?

Il dottorino si morse le labbra.

— E la signora che dice? — esclamò volgendosi dalla mia parte.

Sofia interruppe:

— Aprite il libro a caso e leggete qualche strofa. Noi abbiamo a buon conto dei parafuochi che potranno servire da parapudore — è ancor meglio che fare da paramarito come li destinava la buon anima di Parini.

Emanuele aperse il libro e lesse (credo con intenzione):

Non ti ricordi
Che bei capelli avevi?
Non ti ricordi dei capelli biondi
Che ti coprian le spalle,
E degli occhi nerissimi, profondi,

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Sofia ascoltava avidamente passando una mano (con troppa civetteria per verità) in mezzo ai suoi capelli biondi e spalancando gli occhioni

Pieni di fiamme gialle?

Sofia che un momento prima aveva riso per il bleu marin, a quella improvvisa fiamma gialla tornò da capo, sconcertando un poco la gravità di Emanuele. Egli lasciò passare lo sfogo poi tornò a leggere, voltando pagina:

   Quando cadran le foglie e tu verrai
A cercar la mia croce in camposanto
In un cantuccio la ritroverai
E molti fior le saran nati accanto.

   Côgli allor tu pe’ tuoi biondi capelli
I fiori nati dal mio cor. Son quelli
I canti che pensai ma che non scrissi
Le parole d’amor che non ti dissi.

Ah! che voce, che espressione. Emanuele leggeva straordinariamente bene. Forse accentuò troppo questa quartina:

   Dove sei, dove sei tu che m’hai detto
Che ne’ tuoi baci l’anima mi davi
E mi stringevi all’anelante petto
Con parole d’amor così soavi?

Io non credo, no, è impossibile, ch’egli volesse alludere al passato — un uomo così serio! — nondimeno Sofia parve leggermente commossa e lo pregò a desistere perchè in quelle poesie non trovava nessun concetto nuovo, nulla veramente che valesse la pena di occuparsene.

Emanuele rintascò il libricino giallo. Parlammo di teatri, di russi, di turchi e dell’Adelina Patti. [p. 91 modifica]

Quando Emanuele si alzò per prendere commiato, Sofia gli chiese sbadatamente:

— Come sono que’ versi: i canti che pensai, ma che non scrissi...

Le parole d’amor che non ti dissi — soggiunse Emanuele.

E mi parve che una corrente elettrica mi fosse passata accanto e vidi che gli occhi di Emanuele erano propriamente azzurri, d’un azzurro cupo, profondo.

Verso quell’epoca, poichè avevo molta cura di star lontana dalle correnti d’aria ed evitavo di bagnarmi i piedi — aggiungi che portavo sempre meco uno scialletto per gli improvvisi abbassamenti di temperatura — mi buscai un solenne raffreddore. Ne ebbi per ben quindici giorni, durante i quali Emanuele veniva a ordinarmi dei decotti e Sofia a farmeli ingojare.

Sofia ed io ridevamo spesso; Emanuele no.

— Sapete che abbiamo avuto un gran giudizio noi due quando abbiamo seppellito il nostro morto?

Così dicendo ella lo guardava fisso e lui rispondeva con calma.

— È vero. Non eravamo destinati.

— No certo, voi siete tutto ghiaccio ed io sono tutta scintille.

Pareva anche a me che Sofia avesse ragione.

Vi ripensai sul tardi quando li vidi partire insieme e conclusi che la felicità di Sofia stava nelle mani di suo cognato e viceversa.

Siccome stetti due giorni senza vederla, al terzo, trovandomi abbastanza ristabilita, volli andare a sorprenderla nel suo salotto. [p. 92 modifica]

Era sola e piangeva.

Non di quel pianto dirotto che accenna a un vivo dolore, ma silenziosamente accorata come immersa nella malinconia dei ricordi.

Nascose al mio giungere un pacco di lettere, ed io, persuadendomi di leggieri ch’ella ripensava al suo defunto marito, mostrai di non accorgermene. Prima di partire però le chiesi se aveva notizie del cognato ed ella parve — come appunto mi aspettavo — impazientita di questo richiamo alle sue seconde nozze.

Mi rispose che era lontano ancora, forse a Teheran che gli affari della seta si presentavano male e che ad ogni modo ella non voleva parlarne perchè non si sa mai quello che può accadere.

Aveva i nervi eccitati; sbadigliò, bevette due gocce d’acqua antisterica e mi ripetè quattro o cinque volte che era stanca della vita.

Che la donna sia mobile è una verità che tutti quelli che hanno udito Rigoletto non mettono più in dubbio — specialmente se il tenore ha bella voce — ma l’improvviso cambiamento di Sofia era troppo in dissonanza col suo carattere per lasciarmi tranquilla.

Ebbi la debolezza di credere che la mia compagnia le fosse utile e ritornai alla sera.

Questa volta non era sola. La voce di Emanuele, bassa e concitata, diceva:

— Che male c’è? I rancori cedono davanti a una tomba...

Ho capito — pensai — parlano del morto. — Entrai — e Sofia rimosse così vivamente la sedia per venirmi incontro che io mi posai il dilemma: O le [p. 93 modifica]faccio un gran piacere... o era troppo vicina al suo buon amico...

Tuttavia vidi Emanuele così grave, così serio; pareva tanto al di sopra delle debolezze umane!...

Sofia cambiava, oh! come cambiava — non era più lei, ecco.

Tra il sì e il no, tentennando, ora accogliendo il dubbio, ora scacciandolo; un po’ dicendomi che Emanuele era un uomo d’onore, un po’ invece ricordandomi che era semplicemente un uomo, e pescando nei vecchi proverbi: La paglia vicina al fuoco — Antico amore dà sempre bruciore — Tira più forte il fil d’una gonnella che la gomena d’una nave — ragionando, sragionando, ma pieno ad ogni modo il cuore dell’avvenire di Sofia, riuscii a formulare un’idea press’a poco così:

Siavi o non siavi simpatia non è conveniente che una fidanzata passi le sere e qualche volta anche le mattine con un terzo.

Io sono persuasissima per mio conto che non c’è ombra di male e che revocazione del loro morto è tutto quanto v’ha di più peccaminoso in quei colloquii. Sofia è tanto positiva, Emanuele tanto calmo! — Sì, sì, ma le apparenze vogliono essere rispettate e se qualcuno, per esempio, si togliesse la briga di scrivere al cognato a Teheran che la futura sposina si fa dipanare le matasse dal dottore e che strimpellano insieme sul pianoforte il vecchio walzer di Arditi, [p. 94 modifica]walzer che ballavano insieme dieci anni fa, durante la luna piena dei loro amori:

Sulle labbra se potessi...

Eh! cospetto, li avevo proprio visti io chini sul pianoforte e lui con che passione diceva se poteeessi...

Capisco che la passione è nella musica, ma tant’è non mi sentivo tranquilla.

Il mio dovere d’amica voleva che io avvertissi Sofia della china pericolosa su cui scivolava e che lasciasse dormire i morti in pace per non disturbare i vivi.

È evidente che Emanuele non pensava più a lei ed anche nella lontana ipotesi che gli fosse rimasto qualche focherello nei lombi, non era uomo da avventurarsi a una dichiarazione così fuori di tempo e di luogo; ma il mondo, quel benedetto mondo che vuol sempre aggiungere il pepe al sale e la senape al pepe!

Orsù, il piano mi si spiegava davanti molto chiaro, avevo una missione da compiere.

Restava da scegliersi il momento, l’opportunità, la prima parola.

Avrei fatto così: invece di lavorare assiduamente com’è mio costume, trascinerei intorno il gomitolo e lascerei cadere le mani in grembo. Sofia non mancherebbe di chiedermi: Che hai questa sera? — ed io allora: Ah! Sofia, tu mi domandi che ho? ecc.

Oppure — bisogna prevedere tutto — dato il caso che Sofia non volesse accorgersi delle mie distrazioni, [p. 95 modifica]dovevo prendere il toro per le corna e incominciare: Sofia, la lunga amicizia che ci lega, la mia esperienza, la tua giovinezza, il nostro affetto, la sua maldicenza... parlo del mondo.

O non era meglio scrivere?

Sì, no, scriverò, parlerò. Scoccarono intanto le otto ed io, rimandando al domani la decisione, cacciai la calza nel panierino e mossi dalla mia alla villa di Sofia.

La campagna era deserta, ravvolta in una leggiera nebbiolina. Attraversati i pochi sentieri che ci dividevano, entrai da Sofia, ma la cameriera mi avvertì che la signora non si trovava in salotto.

E dov’era dunque?

In giardino — proprio con quel fresco e quella nebbia — che calori!

Sorrisi e dissi alla cameriera che andavo a raggiungerla.

Eterni dei!

Li trovai tutti e due seduti sotto un’acacia caven, e quel ch’è peggio, abbracciati... modestamente, si intende, e inondati di lagrime.

— Che cosa fate qui?

Davvero, io dissi queste precise parole, piantandomi davanti a loro coll’intenzione di sbigottirli; ma non ne feci nulla.

Sofia fu la prima a rispondere, e mi dichiarò in mezzo alle lagrime che adorava Emanuele, il suo primo, il suo unico amore.

Fortuna che si trattava di un morto se poi fosse stato vivo! [p. 96 modifica]

La mia curiosità era di sapere come mai dalla freddezza dei giorni prima erano giunti a trovarsi di notte, colla nebbia, in fondo al giardino.

Non c’è che amore capace di simili farse.

Si erano incontrati al cader del sole, in quell’ora «che volge il desio.» Emanuele aveva fatto osservare che dieci anni prima, in quel giorno, in quell’ora essi giuravano di amarsi eternamente.

Vollero rivedere i sentieri, vollero toccare gli alberi, vollero salutare i fiori. Le memorie del passato si affollavano sotto i loro passi; in ogni boschetto trovavano l’eco di un sospiro o di un bacio.

Se ci fosse stata la luna oh! come l’avrebbero interrogata sospirando, ma siccome non c’era, sospirarono egualmente e per compenso si stringevano il braccio.

Che so io! La morale è che non vi sarebbe punto morale in questa avventura; anzi sospetto che doveva riuscire immoralissima se due giorni dopo una lettera da Teheran non avesse annunciata la morte del cognato, vittima del suo interesse per i bachi.

Questo morto, diciamolo, veniva a proposito per surrogare quell’altro morto che non lo era più — e intanto che scrivo l’occupazione di Emanuele è di provare a Sofia ch’egli è ben vivo.

Si sono sposati jeri.