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Divina gioventù. | 59 |
favola di fantasmi erranti sulla collina — altri dicevano di malfattori nascosti.
L’una e l'altra supposizione erano più che sufficenti per rendere deserto quel luogo; di sera, poi, anche un contadino coraggioso non si sarebbe arrischiato a passarvi.
Fin qui la leggenda — ora la storia.
Ma è poi storia?
Vi confesso, cara amica, che sono tormentato dai dubbi. Quando penso alla mia singolare avventura, l'immaginazione mi giuoca il brutto tiro di farmela credere un sogno; eppure l’altro giorno...
Basta, udite.
Ero andato, con Oreste, alla sagra di un paesello fra i monti. Ci eravamo divertiti assai, e, sopratutto, avevamo bevuto un aleatico, vi giuro, che valeva quanto il bacio di una bella donna — non offendetevi, per carità; pensate che voi, di baci, non me ne avete mai dati.
Ritornammo a casa a sera inoltrata.
Vi ricordate di aver passeggiato a sedici, diciott’anni, sotto il lume della luna, coi piedi nell’erba e la testa al di sopra delle nuvole, mentre le stelle ridevano sul vostro capo, mentre correvano le lucciole fra i cespugli di timo?
(Confesso che leggendo questo paragrafo della lettera di Ciro Garzes, vagai per dieci buoni minuti nel paese celeste delle rimembranze e proprio mi parve di sentire l’odore penetrante del timo — come in quei tempi beati — ed esclamai anch’io sospirando: «Divina gioventù!» Oh non lo dite al mio amico).