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Divina gioventù. 71


Non vi era nella strana camera nessun mobile, tolto alcuni cuscini gettati qua e là, proprio all’usanza turca.

Soltanto un divano o un sofà o un’ottomana, non saprei insomma, qualche cosa di simile; un lettuccio elegante di raso celeste coperto per metà da una pelle di tigre faceva fronte alla finestra e sovr’esso giaceva abbandonata come una sultana nel suo harem Lei... avete capito? — la bella signora dallo sciallo chinese e dai bottoni d’oro sulle scarpe. Ma pensate che si tratta di vent’anni addietro!

Non posso dirvi come fosse vestita, non me lo domandate nemmeno. Avete mai sognato — le donne devono farne spesso di questi sogni — un tessuto aereo come i vapori che si alzano all’alba dai colli imbalsamati? roseo, lucente, diafano come una foglia di madrevite quando la rugiada l’imperla? Avete mai confuso in un ardente desiderio di bellezza le stelle e le rose, il primo raggio del mattino e l’ultimo bagliore del crepuscolo?

Non trovo altre parole — immaginate — e se riuscite a farvi un’idea di quella apparizione, potrete capire l’effetto che fece su di noi.

Bellissima — l’avete veduta — coi neri capelli ondeggianti, disciolti, con un braccio appoggiato sulla pelle di tigre; a’ suoi piedi un liuto, dei fiori e l’olezzo del sandalo che ardeva avvolgendola in una leggera nube come una divinità antica.

Piano piano, alzando l’indice con precauzione, Oreste mi mostrò un uomo — lui seduto sulla stuoia, col capo sprofondato nel medesimo cuscino che sorreggeva il capo della bella. Immobili entrambi.