Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/VI. Esposizione critica della Divina Commedia/Il Paradiso

VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il Paradiso

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VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il Purgatorio VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Riepilogo
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Il Paradiso.


Il paradiso è l’apoteosi dello spirito, la trasfigurazione di Cristo, il trasumanare, come dice il poeta, o, in forma positiva, il divino. La bellezza è la rappresentazione del divino, la materia trasfigurata ed indiata; sicché il divino puro trascende l’immaginazione, ed è di lá dalla poesia. Esso non può essere obbietto che di brevi lavori lirici, i quali contengano non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma; ma la vaga aspirazione dell’anima «a non so che divino»: ed anche allora l’obbietto del desiderio, quantunque in una ideale indeterminazione, riceve la sua bellezza dalle immagini, come nelle due celesti poesie di Schiller, l’Aspirazione e il Pellegrino.

                               Mira il ciel com’è bello e mira il Sole,
Che a sé par che n’inviti e ne console.
     

La presenza di Dante ancora mortale nel paradiso porgegli modo di rappresentare il divino umanamente: ché, essendo egli [p. 388 modifica]uomo, la sua contemplazione non esce dalle condizioni umane, forma innanzi alla fantasia, scienza innanzi all’intelletto. I Beati, adunque, parlano ed ammaestrano ed appariscono umanamente.

                                    Cosi parlar conviensi al vostro ingegno;
Perocché solo da sensato apprende
Ciò, che fa poscia d’intelletto degno.
     Per questo la Scrittura condiscende
A vostra facultate, e piedi e mano
Attribuisce a Dio, ed altro intende.

     Tu hai l’udir mortai, si come ’l viso,
Rispose a me; però qui non si canta
Per quel che Beatrice non ha riso.
     

E perché fruiscono la visione di Dio con piú o meno di chiarezza, secondo i lor meriti, il poeta passa per diversi gradi di contemplazione. La luce è quella che ritrae piú dello spirito, il quale suol essere da’ poeti manifestato con immagini tolte da quella; né altrimenti Dio stesso s’ofíerse giá alla fantasia popolare, che come emanazione di luce vivificante. L’inferno è buio di notte; il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal Sole e dalle stelle, e queste immediatamente da Dio; sicché le anime purganti, come gli uomini, contemplano il Sole, ed in esso l’immagine piú vivace di Dio; dove gli abitatori delle sfere celesti godono l’intuizione di Dio per la luce che move da lui senza mezzo.

                                    Lume ch’a lui veder ne condiziona.      

Il paradiso è la piú spirituale manifestazione di Dio: e però di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt’i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione s’informano anch’esse di luce; gli spiriti si scaldano a’ raggi d’amore; la letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel viso; e la veritá è, come in uno specchio, dipinta nel cospetto eterno. [p. 389 modifica]

                                         Luce intellettual piena d’amore,
Amor di vero ben pien di letizia,
Letizia che trascende ogni dolzore.
     

Alto subbietto di poesia lirica; ma di difficile e quasi disperata esecuzione, ove abbiasi a distendere in trentatré canti in forma narrativa; ché, essendo tutte le differenze sparite in questa tanto semplice unitá, non è altra distinzione possibile che di piú e di meno; e non pertanto la forma dee ricevere tali gradazioni, che rispondano a’ diversi ordini di virtú, ovvero all’ascendente manifestazione di Dio. La quale difficoltá è fatta maggiore dalla severitá del concetto, studiandosi il poeta di rappresentarlo, quanto è possibile, nella sua purezza spirituale: onde la forma, come limitata, rimane sempre di qua dell’infinito divino, né la fantasia può tener dietro all’intelletto. Di che nasce quella qualitá musicale di questa poesia, che da alcuni critici con soverchio amor di sistema si è voluta attribuire a tutta l’arte moderna.

La forma qui dee ondeggiare nel vago dell’infinito e del misterioso, simile all’onda melodiosa che ti sveglia nel core ineffabili moti: il che quanto renda malagevole a determinarla e distinguerla non è a pensare. Bene il poeta adopera l’estremo della sua fantasia: egli ha avuto piena coscienza dell’altezza del subbietto e si è sentito pari all’impresa. Dapprima le immagini gli si offrono vivaci, spontanee, peregrine; poi, quasi stanco, dá talora nell’arido e nell’acuto; indi lo vedi rilevarsi di un tratto, poggiando piú e piú a inarrivabile altezza, sereno, estatico, innamorato: diresti che la difficoltá lo alletti, la novitá lo infiammi, l’infinito lo esalti. E primamente non dee recar maraviglia che il poeta nel malagevole assunto di dover rappresentare tante fiate lo stesso concetto sotto una medesima forma talora si esprima aridamente ed abbandonatamente, e tal altra s’aiuti con la sottigliezza dell’ingegno, sostituendo alla evidenza immediata dell’immagine la freddezza di lontani e cercati rapporti. [p. 390 modifica]

                                    E tal nella sembianza sua divenne.
Qual diverrebbe Giove, s’egli e Marte
Fossero augelli, e cambiassersi penne,

     Poscia tra esse un lume si schiari
Si, che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
Il verno avrebbe un mese d’un sol di.
     

Né mi par da lodare che nella sfera di Giove la luce prenda figura di lettere composte a parola, e da ultimo si conformi a modo di aquila. Ma egli non ha seguitato per questa torta via; né di tali puntelli, a cui si appigliano gli animi angusti, era punto mestieri alla sua feconda fantasia. L’acutezza non è pure contraria al buon gusto, ma eziandio alla intrinseca natura del concetto dantesco; né forme sf lievi ed eteree possono ricevere troppo minuta determinazione senza essere rimpicciolite, lasciando stare che, come segno visibile dell’infinito, debbono esse uscire possibilmente dall’angustia del limite. Quindi nel generale la forma è qui negativa, come negativo è il concetto, ed il vocabolo dal quale è significato il Cristianesimo è stato a ragione chiamato la religione del sublime, come quella che pone un abisso tra il creato ed il creatore, richiedendo la fede, né riconoscendo nell’uomo quella facolta che oggi dicesi dell’assoluto, intuito o ragione che essa si sia.

                                    Perch’io l’ingegno e l’arte e l’uso chiami,
Si noi direi, che mai s’immaginasse:
Ma creder puossi, e di veder si brami.
     E se le fantasie nostre son basse
A tanta altezza, non è maraviglia;
Ché sovra ’l Sol non fu occhio ch’andasse.
     

Laonde se le anime nell’inferno e nel purgatorio hanno umana apparenza, qui sono occulte, come in un santuario, nel profondo della vivissima luce.

                                    Si come ’l Sol, che si cela egli stessi
Per troppa luce, quando il caldo ha rose
Le temperanze de’ vapori spessi;
     
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                                         Per piú letizia si mi si nascose
Dentro al suo raggio la figura santa;
E cosí chiusa chiusa mi rispose.
     

La pura luce e le tenebre partoriscono lo stesso effetto; ché, rubando gli obbietti allo sguardo, gl’ingrandiscono o abbelliscono dinanzi alla fantasia. Cosi, quando comparisce la Vergine, il poeta non tenta giá di descriverla, ben comprendendo ch’ella scaderebbe dall’altezza della sua divinitá, ove prendesse figura quanto si voglia bella; ma in quella vece egli dipinge con ricchi colori la festa degli angioli, che le fanno corona, e ritrae il riverente loro affetto nella mistica ebbrezza delle parole e degli atti: nella qual vista non riposa la fantasia, ma si leva piú su, alla figura principale, obbietto di tanto culto e di tanto amore, che le ondeggia dinanzi, come l’ideale piú alto a cui ella possa aspirare.

                                         Per entro ’l cielo scese una facella,
Formata in cerchio a guisa di corona,
E cinsela, e girossi intorno ad ella.
     Qualunque melodia piú dolce suona
Quaggiú, e piú a sé l’anima tira,
Parrebbe nube che squarciata tuona,
     Comparata al suonar di quella lira,
Onde si coronava il bel zaffiro,
Del quale il ciel piú chiaro s’inzaffira.
     Io sono amore angelico, che giro
L’alta letizia, che spira del ventre
Che fu albergo del nostro desiro;
     E girerommi. Donna del ciel, mentre
Che seguirai tuo Figlio, e farai dia
Piú la spera suprema, perché lf entre.
     Cosi la circulata melodia
Si sigillava; e tutti gli altri lumi
Facean sonar lo nome di Maria.

     E come fantolin, che invêr la mamma
Tende le braccia, poi che ’l latte prese.
Per l’animo che infin di fuor s’infiamma;
     
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                                    Ciascun di quei candori in su si stese
Con la sua cima, si che l’alto affetto,
Ch’egli aveano a Maria, mi fu palese.
     Indi rimaser li nel mio cospetto,
Regina coeli cantando si dolce.
Che mai da me non si parti il diletto.
     

Ancora Cristo, che nel purgatorio è rappresentato sotto la forma del grifone, qui è collocato nel suo trono invisibile, illuminante e non illuminato, coperto dalla stessa luce che spande intorno.

                                    Come a raggio di Sol, che puro mei
Per fratta nube, giá prato di fiori
Vider, coperti d’ombra, gli occhi miei;
     Vid’io cosí piú turbe di splendori
Fulgurati di su da raggi ardenti,
Sanza veder principio di fulgori.
     

Con lo stesso intendimento l’autore aiuta la fantasia a montar su verso l’infinito, mostrando la potente impressione ch’ei ne riceve. Come la melodia musicale, che si sente nell’anima senza che la si possa intendere né figurare; cosí l’infinito si manifesta meglio nel suo effetto che nell’immagine: e, quando l’immaginazione è cosí desta, l’uomo apprende confusamente la stessa immagine, per quella reciprocanza che è tra l’anima e la natura, le quali si riflettono e si rispondono come un’eco armoniosa. Si è detto che dal cuore vengono i grandi pensieri; ma altresí le grandi immagini: il cuore commosso è il migliore interpetre della natura, siccome la contemplazione della natura è la maestra del cuore: la fantasia, l’intendimento e l’affetto non sono che diversi suoni della musica interiore.

                                    .    .    .    raggiandomi d’un riso
Tal, che nel fuoco faria l’uom felice.
     Ché dentro agli occhi suoi ardeva un riso
Tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
Della mia grazia e del mio paradiso.
     
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                                         Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo
Cominciò gloria tutto ’l Paradiso,
Si che m’inebriava il dolce canto.
     Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso
fieli’ universo per che mia ebbrezza
Entrava per l’udire e per lo viso.
     O gioia! o ineffabile allegrezza!
O vita intera d’amore e di pace!
O senza brama sicura ricchezza!
     

In. questa disuguaglianza del concetto e della forma l’immagine è disgiunta da quello, né può essere propriamente altro che una comparazione; onde s’intende perché qui sia tanta copia di paragoni, le gemme piú elette e piú preziose della terza cantica. L’occhio acuto del poeta coglie la natura nelle sue apparenze piú lievi, piú fuggevoli, piú delicate, le quali egli fa sue, togliendole al circolo loro assegnato in terra e traendole seco, nel suo volo, ad informare le sue concezioni. La natura non vi è come sostanziale, ma come simbolo ed apparenza: onde il profondo senso del paragone dantesco, che non è ornamento soprapposto ed estrinseco, ma il terrestre di rincontro al celeste, la realtá non come manifestazione, ma come ombra della veritá, «ombrifero prefazio del vero.»

                                         Quali per vetri trasparenti e tersi,
O ver per acque nitide e tranquille,
Non si profonde che i fondi sien persi,
     Tornan de’ nostri visi le postille
Debili si, che perla in bianca fronte
Non vien men forte alle nostre pupille;
     Tali vid’io piú facce a parlar pronte.

     Cosí parlommi; e poi cominciò; Ave,
Maria, cantando; e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa, grave.
     .E quelle anime liete
Si fèro spere sopra fissi poli,
Fiammando forte a guisa di comete.
     
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                                         E come cerchi in tempra d’oriuoli
Si giran sí, che ’l primo a chi pon mente
Quïeto pare, e l’ultimo che voli;
     Cosi quelle carole, differente-
mente danzando, dalla sua ricchezza
Mi si facean stimar veloci e lente.
     

Cosi, per cagion d’esempio, giunto nel cielo empireo, la virtú visiva, soperchiata dalla luce, si raccende alle parole di Beatrice; ma non penetra oltre all’apparenza: della quale è fatta descrizione in tre perfettissime terzine, di quella spontaneitá e limpidezza, che ha sempre il poeta ne’ momenti di schietta ispirazione.

                                    E vidi lume in forma di riviera
Fulvido di fulgori, intra duo rive
Dipinte di mirabil primavera.
     Di tal fiumana uscian faville vive,
E d’ogni parte si mescean ne’ fiori.
Quasi rubini ch’oro circoscrive.
     Poi, come inebriate dagli odori,
Riprofondavan sé nel miro gurge;
E s’una entrava, un’altra n’uscia fuori.
     

Lo stile di Dante non è sempre uguale: talora nella ruvidezza della parola e nell’acutezza del pensiero senti piú lo sforzo della volontá, che la forza del genio; ma quando è infiammato dal caldo dell’estro e il suo mondo ideale gli si agita ed atteggia dinanzi, egli scrive quello che vede, e con tanta naturalezza e facilitá, che i suoi versi ti paion composti ier l’altro: effetto maraviglioso della vera poesia, che serba in tutt’i tempi la freschezza di una eterna primavera. Qui l’evidenza è accompagnata dalla vaghezza delle immagini, avendo il poeta circonfuse le celesti sostanze di quanto è sulla terra piú ridente e smagliante. Avvalorata la vista nella riviera di luce, sotto la figura si manifesta il figurato, ed in que’ fiori inebbrianti, in quell’oro, in que’ topazi e rubini, in quelle vive faville il poeta discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma forza è pure ch’egli si arresti dinanzi all’infinito dell’idea, rimasta [la] fantasia fioca e corta al concetto. [p. 395 modifica]

                                         Perché appressando sé al suo disire,
Nostro intelletto si profonda tanto,
Che la memoria retro non può ire.

     .    .    .    .    .    Ogni minor natura
È corto recettacolo a quel Bene
Ch’è senza fine, e sé con sé misura.
     Dunque nostra veduta, che conviene
Essere alcun de’ raggi della mente,
Di che tutte le cose son ripiene,
     Non può di sua natura esser possente
Tanto, che ’1 suo principio non discerna
Molto di lá, da quel’ch’egli è, parvente.
     Però nella giustizia sempiterna
La vista, che riceve il vostro mondo,
Com’occhio per lo mare, entro s’interna;
     Che, benché dalla proda veggia il fondo,
In pelago non vede; e nondimeno
Egli è; ma ’l cela lui Tesser profondo.
     

Non di rado incontra che la penna gli cade di mano, ed alla contemplazione succede una muta adorazione. Il che non è in lui lassitudine, ma rapimento, quasi la fantasia, calda ancora, miri pur fisa e desiosa in quel sole dell’essere, senza speranza di profondarvisi, come ben si pare alla bellezza de’ paragoni e delle immagini, onde infiora il suo pensiero.

                                         Indi, ad udire ed a veder giocondo.
Giunse lo spirto al suo principio cose,
Ch’io non intesi; si parlò profondo.
     Né per elezïon mi si nascose,
Ma per necessitá; ché ’l suo concetto
Al segno de’ mortai si soprappose.
     E quando l’arco dell’ardente affetto
Fu si sfogato, che ’l parlar discese
Invêr lo segno del nostro intelletto,
     La prima cosa, che per me s’intese,
Benedetto sie Tu, fu, trino ed uno,
Che nel mio seme se’ tanto cortese.
     
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                                         Ché, come Sole il viso che piú trema,
Cosi lo rimembrar del dolce riso
La mente mia da sé medesma scema.

     Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
Che ’l parlar nostro, ch’a tal vista cede;
E cede la memoria a tanto oltraggio.
     Qual è colui che sonníando vede,
E dopo ’l sogno la passione impressa
Rimane, e l’altro alla mente non riede,
     Cotal son io, ché quasi tutta cessa
Mia visione, ed ancor mi distilla
Nel cuor lo dolce che nacque da essa.
     Cosi la neve al Sol si disigilla.
Cosi al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
     

La scienza greca, partita nelle diverse filosofie da opposti principii, riesce nella stessa conclusione pratica o morale: che l’ideale della saggezza, e quindi della felicitá, sia posto nella uguaglianza dell’animo; e l’apatia stoica non è che l’ultima e fatale deduzione di questo sistema: il qual tipo ha la sua incarnazione nella serena semplicitá della forma greca. Questa pagana tranquillitá è innalzata dal Cristianesimo all’infinito della beatitudine, che non è solo acquetamento del desiderio, ma foco d’amore, estro e furore sacro, ebbrezza di voluttá, che non cape in umano intelletto. Presso il popolo, che è il primo inconsapevole artista, i tre mondi cristiani presero determinazione e figura; e molte grottesche immagini usciron fuori de’ dannati e delle anime purganti. Ma nobilissime furono le figure de’ Santi, rappresentati come sospesi di terra, le vantisi su tra il riso degli angioli, cinti il capo di un’aureola di luce, e gli occhi al cielo. Il paradiso di Dante è conformato a questo concetto. La vita del Santo è la contemplazione, un perpetuo rapimento verso il primo amore, che a sé lo invita e tira. Ma il Dio di Dante non è né l’Olimpo nella maestá della sua forza, né l’Essere solitario tra’ tuoni e le folgori nel corruccio della sua giustizia, ma il Dio cristiano, Dio di bontá e di amore: onde procede che qui il sublime è [p. 397 modifica]temperato col bello, l’estasi congiunta con la pace interiore, perenne desiderio e perenne appagamento.

                                         Qual lodoletta, che in aere si spazia
Prima cantando, e poi tace contenta
Dell’ultima dolcezza che la sazia;
     Tal mi sembrò l’imago della imprenta
Dell’eterno piacere, al cui disio
Ciascuna cosa, quale eli’ è, diventa.
     

Il sublime non ci fa sentire atterriti e come annichilati; ma di sé ci asseta, e c’innamora e*ci bea. Nell’inferno domina il terrore del sublime nell’uomo e nella natura; qui mai non ti avvieni nel sublime nudo, né quantitativo, né qualitativo, senza pur trarne fuori la contemplazione dello stesso Dio: il divino vi è bello, amoroso, umanato; né meglio potea rappresentarsi questa mistica congiunzione dell’umano e del divino, riconciliazione del sublime e del bello. La forza vivificatrice del genio ha unificato questo doppio sentimento nell’apparenza e negli atti de’ personaggi. La luce, mentre cerchia e fascia del suo fulgore l’essenza misteriosa, alletta lo sguardo con la bellissima vista: è un mare infinito, in cui ti è dolce annegare. Oltreché, vincendo la corporale impenetrabilitá ed entrando i suoi raggi gli uni negli altri, essa esprime con molta evidenza l’unione delle anime in Dio, l’individualitá sparita ed innalzata nel mare dell’essere.

                                         Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita,
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
     Per entro sé l’eterna margherita
Ne ricevette, com’acqua recepe
Raggio di luce, permanendo unita.
     S’io era corpo (e qui non si concepe
Com’una dimensione altra patio,
Ch’esser convien se corpo in corpo repe),
     Accender ne dovria piú il disio
Di veder quella essenzia, in che si vede
Come nostra natura e Dio s’unito.
     
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Il poeta, signore, anzi tiranno della lingua, trova ardite parole a significare questa compenetrazione degl’individui, questa medesimezza amorosa degli esseri nell’essere: inciela, imparadisa, india, intuassi, immei, inlei, s’infutura, s’illuia, ecc., delle quali voci alcune, dopo lungo obblio, ritornano a vita. La redenzione dell’anima è la sua progressiva emancipazione dall’egoismo della coscienza; la sua individualitá non le basta, ella si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealitá nella vita universale.

Abbiamo mostrato di quanto momento sono i gruppi nel purgatorio; ivi s’inizia quella comunione ed amicizia delle anime, che ha il suo compimento nel celeste sodalizio. I loro moti sono danze; le loro voci sono canti; ma in quel turbine di movimenti, in quell’accordo di voci tu non discerni niente d’individuo o di particolare: è una musica, nella quale i varii suoni si perdono e si confondono in una sola melòde. Né vi è propriamente differenza di aspetto; ma, se di cosí dire mi è lecito, una faccia sola: onde la concezione in questi termini dee esser povera d’azione, di carattere e di affetto individuale. Ma il poeta ha distinto da’ Beati gli angioli, plenitudine volante tra quelli e Dio. Gli angioli, ai quali noi vogliamo attribuire il sembiante schietto della fanciullezza, esprimono la parte spontanea e irriflessa dello spirito, l’ebbrezza della ispirazione, il candore dell’animo: la virtú è in loro innocenza, il pensiero intuizione. Questo concetto si rivela in alcuni mirabili tratti, ne’ quali li ha rappresentati il poeta: con festevole andare e venire nel modo abbandonato e sciolto della prima etá, tripudianti e folleggianti senza serietá di pensiero e di scopo, arte e giuoco, secondo le parole dello scrittore.

                                         Ed in quel mezzo con le penne sparte
Vidi piú di mille angeli festanti,
Ciascun distinto e di fulgore e d’arte.
     Qual è quell’angel, che con tanto gioco
Guarda negli occhi la nostra Regina,
Innamorato si che par di fuoco?
     
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                                         In forma dunque di candida rosa
Mi si mostrava la milizia santa,
Che nel suo sangue Cristo fece sposa.
     Ma l’altra, che volando vede e canta
La gloria di Colui che la innamora,
E la bontá che la fece cotanta,
     Sf come schiera d’api, che s’infiora
Una fiata, ed altra si ritorna
Lá dove il suo lavoro s’insapora,
     Nel gran fior discendeva, che s’adorna
Di tante foglie; e quindi risaliva
Lá dove lo suo amor Sempre soggiorna.
     Le facce tutte avean di fiamma viva,
E l’ale d’oro; e l’altro tanto bianco.
Che nulla neve a quel termine arriva.
     Quando scendean nel fior, di banco in banco
Porgevan della pace e dell’ardore,
Ch’egli acquistavan ventilando il fianco.
     

Nondimeno la presenza di Dante è cagione che i Beati ricordino talora la lor vita passata e degnino del loro sguardo la terra, ora laudando i fatti de’ loro compagni, come è il panegirico di S. Domenico e di S. Francesco, piú spesso sferzando i vizi, quando pe’ generali e quando con cruente applicazioni: di che basterá produrre in esempio le sdegnose ed eloquenti parole di S. Pietro, che fanno trascolorare il paradiso.

                                         O cupidigia, che i mortali affonde
Si sotto te, che nessuno ha podere
Di ritrar gli occhi fuor delle tue onde!
     Ben fiorisce negli uomini ’l volere;
Ma la pioggia continua converte
In bozzacchioni le susine vere.
     E fede ed innocenza son reperte
Solo ne’ pargoletti; poi ciascuna
Pria fugge, che le guance sien coperte.
     

Nobilissimo è il racconto che fa Giustiniano de’ casi dell’antica Roma, in istil grave e magnifico, proporzionato all’alto [p. 400 modifica]subbiette; e tra’ piú belli della Commedia sono da annoverare i tre canti, ne’ quali il poeta ragiona con uno de’ suoi antenati. È una scena di famiglia; l’antica semplicitá de’ costumi, messa in maggior rilievo dal contrasto con la corruzione di quel tempo, è descritta per via di particolari, de’ quali alcuni rimangono ne’ termini della personalitá storica, altri si levano all’ideale dell’etá dell’oro e della domestica felicitá, temperati con tanta veritá insieme, che tu vi trovi l’ideale espressione della pittura italiana e la vivace realtá della scuola fiamminga.

La predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanto pietosa, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta, sospiroso indarno della sua bella patria.

                                         Tu lascerai ogni cosa diletta
Piú caramente; e questo è quello strale,
Che l’arco dell’esilio pria saetta.
     Tu proverai si come sa di sale
Lo pane altrui, e com’è duro calle
Lo scendere e ’1 salir per l’altrui scale.
     

Quanta malinconia! e quanto affetto! L’amarezza dell’esilio non è ne’ patimenti materiali, e Dio riserba dolori piú acuti agli animi generosi. Non vedere piú mai quanto sulla terra ci è caro, ed implorare il pane dall’insolente pietá degli estranei, questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi del piú misero e del piú grande. Ma il virile suo animo si piega, non si fiacca; e tosto lo vedi rilevare la fronte balda e sicura. Nessuno ha sentito tanto altamente della dignitá della sua arte, della quale ei ragiona come magnanimo, senza ira né parte, con calma severitá. Lo scopo morale non è alcun che di sopraggiunto e di appiccato alla sua poesia, ma parte intima di quella, essendo la visione indiritta ad emendamento di Dante, e quindi dell’uomo; né facendo bisogno al poeta di sentenze e di precetti, ma bastando la nuda rappresentazione al conseguimento del fine.

I giovani lettori di Dante fermano con compiacenza lo sguardo sopra questi luoghi del poema sacro, desiderosi che fossero men [p. 401 modifica]rari, e seguendo mal volentieri il poeta nelle sue fantasie sopraumane. Molta parte di poesia è nell’individuale e nel subiettivo, come si può sentire ne’ brevi tratti, ne’ quali Dante dá affetti e caratteri particolari a’ suoi personaggi.

                                         Oppresso di stupore alla mia Guida
Mi volsi, come parvol che ricorre
Sempre colá dove piú si confida.
     E quella, come madre che soccorre
Subito al figlio pallido ed anelo
Con la sua voce, che ’1 suol ben disporre.

     Come l’augello, intra l’amate fronde,
Posato al nido de’ suoi dolci nati
La notte che le cose ci nasconde,
     Che, per veder gli aspetti desiati,
E per trovar lo cibo onde gli pasca,
In che i gravi labor gli sono grati.
     Previene ’l tempo in su l’aperta frasca,
E con ardente affetto il Sole aspetta,
Fiso guardando, pur che l’alba nasca;
     Cosi la Donna mia si stava eretta
Ed attenta, rivolta invêr la plaga
Sotto la quale il Sol mostra men fretta.

                    .    .    .    .    .    .    .    e vidi un Sene
Vestito com’le genti glorïose.
     Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio,
Quale a tenero padre si conviene.
     

Ma nel paradiso, concepito nel modo che abbiamo mostrato, non può aver luogo alcuna determinata gradazione dell’animo; e gli stessi canti, che avrebbero potuto porgere occasione di esplicare e svolgere gli affetti, come sopra ogni umano uso, rimangono nel vago e nel generale del sentimento. Il che, se può bastare alla musica, non può contentare la poesia, massime ove non sia unicamente lirica, ma di forma narrativa: onde non resta altra via al poeta che di mostrarsi tanto largo nella parte [p. 402 modifica]subdidattica, quanto è stato parco nel rimanente. La scienza non è opposta al paradiso, ma parte sostanziale di esso, non essendo altro che una delle facce di Dio, il «Vero, in che si queta ogn’intelletto.»

La beatitudine è nella contemplazione di Dio; e Dio è parola di veritá, il sostanziale emancipato dal fenomeno, la ragione pura dalle illusioni e dagli affetti terreni. Il pensiero, che spesso nelle due prime cantiche è nascosto sotto il velo dell’allegoria, qui si rivela nella sua nuda veritá, e raggia di sua propria luce. Nelle parole de’ Beati è una parte negativa, nella quale si contrappone l’essere all’apparenza, riprendendosi forte la presunzione de’ mortali cosí corriva a sentenziare e leggera a credere.

                                         E questo ti fia sempre piombo a’ piedi.
Per farti muover lento, com’uom lasso,
Ed al sí ed al no, che tu non vedi:
     Ché quegli è tra gli stolti bene abbasso.
Che senza distinzione afferma o niega,
Cosi nell’un come nell’altro passo;
     Perch’egli incontra che piú volte piega
L’opinion corrente in falsa parte,
E poi l’affetto l’intelletto lega.
     Vie piú che indarno da riva si parte.
Perché non torna tal qual ei si muove.
Chi pesca per lo vero, e non ha l’arte.

     Non sien le genti ancor troppo sicure
A giudicar, si come quei che stima
Le biade in campo pria che sien mature:
     Ch’io ho veduto tutto ’l verno prima
Il prun mostrarsi rigido e feroce.
Poscia portar la rosa in su la cima;
     E legno vidi giá dritto e veloce
Correr lo mar per tutto suo cammino
Perire alfine all’entrar della foce.
     Non creda monna Berta e ser Martino,
Per vedere un furare, altro offerére.
Vedergli dentro al consiglio divino;
     Ché quel può surgere, e quel può cadere.
     
[p. 403 modifica]

Il poeta non confuta, non argomenta, ma si tiene su’ generali, e biasima e flagella, talora con solenne gravitá, talora con l’efficacia della satira, come nel canto ventesimonono nella digressione di Beatrice, che è una filippica egregia per forza comica e per bile poetica.

                                         Sí che laggiú non dormendo si sogna.
Credendo e non credendo dicer vero;
Ma nell’uno è piú colpa e piú vergogna.
     Voi non andate giú per un sentiero
Filosofando; tanto vi trasporta
L’amor dell’apparenza, e ’l suo pensiero.
     

Questa parte, avvivata dal sarcasmo e dall’ironia, non è senza molta attrattiva, rallegrando e rinfrancando l’attenzione; ma essa vi sta per incidente e quasi a dar risalto col contrapposto della vana scienza umana alla trattazione dommatica, nella quale largamente si distende il poeta.

Si è molto conteso, in ispecialitá a’ nostri tempi, delle attenenze che sono tra la scienza e la poesia ed il confine che le distingue. Il poeta non pensa, ma contempla, non discorre, ma dipinge, non investiga, ma sente: la poesia è l’incarnazione del pensiero piú o meno perfetta, profondato nella forma con quella stessa spontaneitá, con la quale vive nella natura; laddove la scienza è il pensiero rivelantesi e contemplante se stesso nella riflessione della coscienza.

Le belle arti per la natura propria del loro strumento non possono che difficilmente travalicare i termini lor posti: sola la poesia può trascorrere di lá dalla sua natura infino al pensiero puro, come quella che ha il suo strumento comune con la scienza e con l’eloquenza di una universalitá proporzionata alla grandezza della creazione, la quale essa può esprimere in tutt’i suoi momenti. Per questo privilegio, che ha la poesia fra le sue sorelle, il poeta può alla rappresentazione aggiungere la parte didattica, facendosi egli stesso l’interpetre ed il filosofo delle sue invenzioni, come fa Dante nell’Inferno e nel Purgatorio. Ma la scienza, come si è veduto, è nel Paradiso un momento essenziale [p. 404 modifica]del concetto; e spettacolo degnissimo di maraviglia e di studio è il lavoro di un ingegno tanto poetico in tanta ariditá di materia. E innanzi tutto osserviamo che la scienza dantesca è in se stessa una poesia giá data al poeta prima ancora che vi lavori su la sua fantasia. Ci ha per la scienza uno stadio poetico, nel quale non si è potuta ancor francare da’ miti: di che, per tacere dell’Oriente, fa testimonianza Pitagora ed in parte Platone. Ai tempi di Dante la scienza disposata alla teologia aveva presa quella forma concreta ed individuale, che è propria della poesia. Un Dio personale, che, immobile motore, produce, amando, l’idea esemplare dell’universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte piú e meno in un’altra, infino alle ultime contingenze; gli astri, sede de’ Beati, influenti sulle umane sorti, e governati da Intelligenze, da cui spira il moto e la virtú de’ loro giri; il cielo empireo, centro di tutt’i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l’universo splendore della Divinitá legato con amore nel suo magno volume; l’ordine e l’accordo di tutto il creato, dalle infime incarnazioni infino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell’uomo per il primo peccato ed il suo riscatto per la incarnazione e la passione del Verbo; la veritá rivelata, oscura all’intelletto, visibile al cuore, avvalorato dalla fede, confortato dalla speranza ed infiammato dalla caritá; in tutto questo il pensiero è talmente disceso dalla sua astrazione e per tal modo incorporato, che il poeta può contemplarlo con quella stessa sicurezza di occhio, onde si affisa nella natura. La esposizione di Dante è perciò meno un ragionamento che una descrizione vivace della veritá informata, con quella evidenza e proprietá di particolari, che risplende nelle dipinture poetiche degli uomini e delle cose: di che può essere esempio dove egli tocca con tanta facilitá del processo creativo.

                                         Ciò che non muore, e ciò che può morire,
Non è se non splendor di quella idea.
Che partorisce, amando, il nostro Sire:
     Ché quella viva luce, che sí mea
Dal suo lucente, che non si disuna
Da lui, né dall’amor, che in lor s’intrea.
     
[p. 405 modifica]
                                         Per sua bontate il suo raggiare aduna,
Quasi specchiato, in nove sussistenze,
Eternalmente rimanendosi una.
     Quindi discende all’ultime potenze
Giú d’atto in atto, tanto divenendo,
Che piú non fa che brevi contingenze:
     E queste contingenze essere intendo
Le cose generate, che produce.
Con seme e senza seme, il ciel movendo.
     La cera di costoro, e chi la duce.
Non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
Ideale poi piú e men traluce:
     Ond’egli avvien ch’un medesimo legno.
Secondo spezie, meglio e peggio frutta;
E voi nascete con diverso ingegno.
     Se fosse appunto la cera dedutta,
E fosse il cielo in sua virtú suprema,
La luce del suggel parrebbe tutta:
     Ma la natura la dá sempre scema,
Similemente operando all’artista,
C’ha l’abito dell’arte e man che trema.
     

Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall’alto del paradiso, cioè dall’assoluto e dal necessario, da cui dechina via via infino alle estreme conseguenze, forma contemplativa e dommatica, anziché discorsiva e dimostrativa. Il qual metodo si affá piú alla poesia, presentando all’immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione, e generando nello spettatore quella impressione di maraviglia e di raccoglimento che nasce dal sublime.

                                         Guardando nel suo Figlio con l’amore,
Che l’uno e l’altro eternalmente spira,
Lo primo ed ineffabile Valore,
     Quanto per mente o per occhio si gira
Con tanto ordine fe’, ch’esser non puote
Senza gustar di lui chi ciò rimira.
     

Ma le larghe proporzioni che il poeta ha date a questa parte, ed il modo didattico di trattarla non gli consentono ch’ei [p. 406 modifica]signoreggi al tutto il pensiero. La scienza, come tale, rimane sempre astratta dall’immagine, prendendo da questa lume ed ornamento senza che ne scapiti punto la sua purezza. La forma in questo caso non è unita sostanzialmente all’idea, né le resta altro valore che di metafora e di comparazione, l’una di rincontro all’altra senza confondersi. La quale è certo maniera meno perfetta di poesia, ma poesia, industriandosi il poeta di sopperire al difetto con rivestire il pensiero di vaghezza e leggiadria, si ch’ei lo renda, non potendo bello, almeno di ornata e piacevole apparenza, come fan fede alcuni poemi didattici di squisito ed egregio lavoro.

Il paradiso dantesco è lucente di metafore, di similitudini, di esempii e di ogni sorta di traslati, che chiariscono ed illustrano le piú astruse ed astratte concezioni della scienza. Sembra quasi che il poeta non sappia pensare se non colla sua immaginazione, o che piuttosto il pensare e l’immaginare non sia in lui che un atto solo: tanta è la sua virtú di tutto abbellire ed illeggiadrire. E per darne pure alcuno esempio, tra’ moltissimi che si potrebbero arrecare in mezzo, ricorderò le tre stupende terzine, nelle quali Cacciaguida tratta della prescienza accordata col libero arbitrio, e la spiegazione che fa Beatrice del moto degli astri, due descrizioni pittoresche, chiarissime e leggiadrissime, nelle quali, come ben dice il poeta, la veritá ha il dolce aspetto della bellezza.

                                         La contingenza, che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
     Necessitá però quindi non prende,
Se non come dal viso, in che si specchia,
Nave che per corrente giú discende.
     Da indi, sf come viene ad orecchia
Dolce armonia da organo, mi viene
A vista ’l tempo che ti s’apparecchia.

     Lo moto e la virtú de’ santi giri.
Come dal fabbro l’arte del martello,
Dai beati motor convien che spiri.
     
[p. 407 modifica]
                                         E ’l ciel, cui tanti lumi fanno bello.
Dalla mente profonda che lui volve
Prende l’image, e fassene suggello.
     E come l’alma dentro a vostra polve.
Per differenti membra, e conformate
A diverse potenzie, si risolve;
     Cosi l’intelligenzia sua bontate
Multiplicata per le stelle spiega,
Girando sé sovra sua uni tate.
     Virtú diversa fa diversa lega
Col prezioso corpo ch’ell’avviva,
Nel qual, si qome vita in voi, si lega.
     Per la natura lieta onde deriva,
La virtú mista per lo corpo luce,
Come letizia per pupilla viva.
     

Le quistioni discorse nel paradiso non sono ozioso trastullo di curiositá, ma legate intimamente con le ultime sorti dell’uomo; sicché persona non può trattenere lo sguardo sopra questi paurosi problemi senza che il cuore se ne agiti e si commova. Quindi è che qualsiasi sistema religioso e scientifico è fecondo di poesia; perché, quando pure si sottragga ad ogni obbiettivitá, per l’attenenza nondimeno che ha con l’umano destinato, può essere fonte di lirica ispirazione, come hanno mostrato Byron, Leopardi ed in parte Goethe, triade dolorosa, che rivelerá agli avvenire i patimenti e le ansietá di tutta intera una generazione. Il Cristianesimo ha la sua storia o epopea, da cui è nato il Paradiso perduto e la Messiade, e la sua lirica, da cui è sorto Lamartine e Manzoni: la Divina Commedia è il pensiero cristiano vivente nella sua poetica unitá, nella quale i suoi elementi hanno ciascuno il lor proprio luogo. Quando il pensiero è svelato a se stesso, e nella piena consapevolezza di sé rifiuta il soccorso de’ miti, non rimane alla poesia altro che l’ebbrezza del sentimento: di che s’intende perché nella dissoluzione delle forme sopravvive la lirica, i cui accenti fuggitivi e malinconici vanno a mescersi ed a perdersi nella incolorata melodia musicale. Il solo sentimento che può destare la scienza nel paradiso è l’affetto verso Dio con nuovo fervore di letizia e di caritá; né il poeta ha trasandato di [p. 408 modifica]avvivare per questo altro modo il suo subbietto, quantunque assai parcamente. La contemplazione della veritá eterna rapisce i Santi nell’estasi della beatitudine: talché alle ultime loro parole succedono gli osanna ed i cantici, ed il ragionamento s’innalza al suo lirico significato nel celeste concento.

                                         La benedetta immagine, che l’ali
Movea sospinte da tanti consigli,
Roteando cantava, e dicea: Quali
     Son le mie note a te che non le intendi.
Tal è il giudicio eterno a voi mortali.

     Si com’io tacqui, un dolcissimo canto
Risonò per lo cielo; e la mia Donna
Dicea con gli altri: Santo, santo, santo.

     Finito questo, l’alta corte santa
Risonò per le spere un Dio lodiamo,
Nella melòde che lassú si canta.
     

Ma questi pregi sono alcuna volta oscurati dalla natura troppo speciale delle quistioni, nelle quali si avviluppa il poeta, e non di rado dalla ruvida corteccia esteriore delle forme scolastiche, definizioni, sillogismi, distinzioni, citazioni e simili. Al che se si aggiunge la monotonia del dialogo, che par quasi una serie di domande e risposte tra maestro e discente, s’intenderá perché il paradiso torni in generale di difficile intendimento e di poco grata lettura. Dante compose questa cantica uscito di corto dalla universitá di Parigi, e pieno ancora il capo di tesi e di sillogismi. D’altra parte ei si reputa a lode di aver condotta la poesia in questo pelago della scienza e, contento a pochi ed intendenti lettori, esorta gli altri a rimanersi di seguitarlo; di che il Tasso, tanto ammiratore del divino poeta, non può a meno di biasimarlo nella sua lezione su di un sonetto del Casa.

                                         LO voi che siete in piccioletta barca,
Desiderosi d’ascoltar, seguiti
Dietro al mio legno che cantando varca,
     
[p. 409 modifica]
                                         Tornate a riveder li vostri liti;
Non vi mettete in pelago, ché forse,
Perdendo me, rimarreste smarriti.
     L’acqua ch’io prendo giammai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l’Orse.
     Voi altri pochi, che drizzaste ’l collo
Per tempo al pan degli angeli, del quale
Vivesi qui, ma non si vien satollo,
     Metter potete ben per l’alto sale
Vostro naviglio, servando mio solco
Dinanzi all’acqua, che ritorna eguale.

     Non è pareggio da piccola barca
Quel che fendendo va l’ardita prora,
Né da nocchier ch’a se medesmo parca.
     

Che se Dante con tutta la divinitá del suo ingegno non è potuto riuscire a sormontare del tutto la difficoltá intrinseca della materia, valga questo a temperare alcuni poeti odierni, che amano troppo di filosofare in versi, senza aver le ali del Goethe e del Leopardi.

Nel paradiso è compiuta la redenzione di Dante, che di stella in stella, di virtú in virtú giunge all’ultima salute. Questo volo dell’anima a Dio, obbietto della solitaria contemplazione orientale, del misticismo alessandrino e delle pie meditazioni ed amorose estasi de’ Santi, è rappresentato poeticamente nell’amore di Dante, «che all’alto volo gli vestí le piume». L’amore mosse Dio alla creazione ed alla redenzione, e l’amore move la fattura al suo Fattore: onde nasce il concetto serio che l’amore ha presso Dante e il Petrarca, considerato come scala alla divinitá. Beatrice è qui vergine al tutto di sua mortalitá, di cui alcun vestigio apparisce nell’inferno e nel purgatorio: talché un pittore potrebbe bene ritrarla come è figurata nelle parole di Virgilio, o quando, «realmente nell’atto ancor proterva», si volge sdegnosa all’amante; ma qui qualsivoglia immagine determinata falserebbe il concetto spirituale, che ha in lei voluto esprimere il poeta. Ella dunque non può esser descritta che per modo [p. 410 modifica]indiretto e negativo, principalmente dall’effetto che produce la sua vista sull’animo del suo amato e sugli obbietti circostanti.

                                         Quivi la Donna mia vid’io si lieta,
Come nel lume di quel ciel si mise.
Che piú lucente se ne fe’ il pianeta.
     E se la stella si cambiò e rise.
Qual mi fec’io, che pur di mia natura
Trasmutabile son per tutte guise!
     Come in peschiera ch’è tranquilla e pura
Traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
Per modo che lo stimin lor pastura;
     Si vid’io ben piú di mille splendori
Trarsi vêr noi; e in ciascun s’udia:
Ecco chi crescerá li nostri amori.
     

Quanto piú si sale, piú la sua bellezza si accende, e piú viva letizia le ride nel volto. Ella è il faro, in cui mirando il poeta si avanza a salute: il quale, secondo che monta piú su, acquista maggiore intelletto d’amore; sicché ei può sostenere e contemplare il novo riso di Beatrice e la nova bellezza del paradiso.

                                         E come, per sentir piú dilettanza
Bene operando, l’uom di giorno in giorno
S’accorge che la sua virtute avanza;
     Sí m’accors’io che il mio girare intorno
Col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
Veggendo quel miraeoi piú adorno.

     Ché la bellezza mia, che per le scale
Dell’eterno palazzo pili s’accende,
(Com’hai veduto) quanto piú si sale.
     Se non si temperasse, tanto splende.
Che T tuo mortai potere al suo fulgore
Sarebbe fronda che tuono scoscende.

     Tu hai vedute cose, che possente
Se’ fatto a sostener lo riso mio.
     
[p. 411 modifica]

L’amore è operoso e rende migliore: onde il riso di Beatrice è quello che infonde nova virtú nel poeta. Cosi il suo corpo, privo di ogni impedimento, sale verso le sfere come rivo, «se d’alto monte scende giuso ad imo»; il suo sguardo acquista valore dí figgersi nel Sole dall’atto somigliante di Beatrice.

                                         Quando Beatrice in sul sinistro fianco
Vidi rivolta, e riguardar nel Sole:
Aquila sí non gli s’affisse unquanco.
     E si come secondo raggio suole
Uscir del primo, e risalire in suso,
Pur come peregrin che tornar vuole;
     Cosí dell’atto suo, per gli occhi infuso
Nell’immagine mia, lo mio si fece;
E fissi gli occhi al Sole oltre a nostr’uso.
     

Parimente l’amore, sciolto dalla servitú de’ sensi, è innalzato ad un ideale, che tiene molto dell’affetto materno; e Dante, che uel purgatorio senti il tremore della fiamma antica, qui ode Beatrice con riverenza di figliuolo. Quando ella si allontana, ei non sente dolore, non manda lamento; ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di gratitudine misto di riverenza; siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l’amore dell’uomo come ombra va a dileguarsi nell’amore di Dio, o per dirla piú propriamente, ella lo ama in Dio.

                                         Cosí orai; e quella sí lontana,
Come parea, sorrise e riguardommi;
Poi si tornò all’eterna fontana.
     

Succede a Beatrice la Vergine, la Donna gentile, che la spedí in soccorso del suo amato. La preghiera che il poeta le indirizza per bocca del suo fedel Bernardo ha ispirato il Petrarca ed a’ nostri giorni Goethe e Manzoni; e bello sarebbe a porre in riscontro quattro lavori intorno allo stesso argomento, differenti di scopo e di concetto. Presso Dante ella è una creazione ondeggiante tra il divino e l’umano; da una parte collocata sopra [p. 412 modifica]ogni forma ed ogni parola, manifesta solo nella luce e nella letizia che intorno a lei raggia: d’altra parte ella è pure umana creatura, speranza e conforto de’ mortali, immagine amorosa e benigna, che, posta come mediatrice possente tra l’uomo e Dio, sembra quasi che scemi l’immenso intervallo che li divide.

                                         Qui se’ a noi meridiana face
Di caritade; e giuso, intra i mortali,
Se’ di speranza fontana vivace.
     

Le parole di S. Bernardo esprimono questo doppio sentimento: ammirazione e riverenza profonda dinanzi a tanta altezza, congiunta con la dolcezza e quasi la familiaritá dell’affetto. Gli occhi della Vergine sono qualificati da due epiteti parlanti, che riepilogano, ingrandendo, quel misto di reverendo e d’amabile, che da lei move:

                                    Gli occhi da Dio diletti e venerati.      

L’oratore dapprima si esprime con uno splendore e con una magnificenza di stile, quale si richiede al genere laudativo; indi con la tenerezza e l’efficacia della preghiera, la quale ha termine con uno di quei tratti obbiettivi, che perpetuano il pensiero nell’immagine.

                                    Vedi Beatrice con quanti beati
Per li miei prieghi ti chiudon le mani.
     

Per l’intercessione della Vergine il poeta giunge alfine il suo aspetto col Valore infinito.

La descrizione di Dio, ché anche Dio egli ha osato descrivere, fa stupire per la vivace perspicuitá di profondi concetti, essendo la proprietá de’ vocaboli e le sue peregrine comparazioni come una face, che illumina l’abisso della essenza divina. Dio è semplice ed immutabile; ma perché Dante si muta, ovvero perché cresce l’acume ed il vigor del suo sguardo, il sembiante divino gli [p. 413 modifica]apparisce con sempre maggior distinzione, primamente come comprensione ideale dell’universo; poi la pura luce si determina in differenza di colore e di splendore in una sola contenenza, adombrando cosí la trinitá delle persone nella unitá assoluta; ed ultimamente il colore prende sembianza dell’umana effigie. In questa congiunzione del divino e dell’umano si quieta l’ardore del desiderio, e si raggiunge lo scopo di tutto il poema: il progressivo emanciparsi dello spirito dalla carne fino alla sua perfetta redenzione in Dio.

                                         Ma giá volgeva il mio disiro e ’l velle.
Si come ruota che igualmente è mossa,
     L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle.
     

La fine del poema è la fine della stessa poesia, la quale, dopo di esser passata per tutte le possibili forme nell’universo della mente dantesca, va a sparire a poco a poco nell’incomprensibile e nell’ineffabile.

                                         All’alta fantasia qui mancò possa.      

Il paradiso sarebbe stato piú poetico, ove l’autore avesse voluto dargli un aspetto piú umano: date a’ suoi canti un significato, ed avremo gl’inni del Manzoni e le armonie del Lamartine; date a’ suoi personaggi la doppia bellezza della faccia e del cuore umano, ed avremo le creazioni di Milton, di Klopstock e di Moore. Ben si potea: ché la stessa Scrittura ritrae in forma e in affetto umano, non che altri, lo stesso Dio. Ma il poeta sta pur fermo nella severitá del suo concetto, alzando la poesia all’ultima sua idealitá e rimanendo in campi inaccessibili, non tentati prima né poi da niuna poetica fantasia. Onde il suo paradiso attraversa solitario i secoli, e ben possiamo, senza esagerazione, chiamarlo il piú ardito lavoro dell’ingegno umano.