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esposizione critica della divina commedia 397


rato col bello, l’estasi congiunta con la pace interiore, perenne desiderio e perenne appagamento.

                                         Qual lodoletta, che in aere si spazia
Prima cantando, e poi tace contenta
Dell’ultima dolcezza che la sazia;
     Tal mi sembrò l’imago della imprenta
Dell’eterno piacere, al cui disio
Ciascuna cosa, quale eli’ è, diventa.
     

Il sublime non ci fa sentire atterriti e come annichilati; ma di sé ci asseta, e c’innamora e*ci bea. Nell’inferno domina il terrore del sublime nell’uomo e nella natura; qui mai non ti avvieni nel sublime nudo, né quantitativo, né qualitativo, senza pur trarne fuori la contemplazione dello stesso Dio: il divino vi è bello, amoroso, umanato; né meglio potea rappresentarsi questa mistica congiunzione dell’umano e del divino, riconciliazione del sublime e del bello. La forza vivificatrice del genio ha unificato questo doppio sentimento nell’apparenza e negli atti de’ personaggi. La luce, mentre cerchia e fascia del suo fulgore l’essenza misteriosa, alletta lo sguardo con la bellissima vista: è un mare infinito, in cui ti è dolce annegare. Oltreché, vincendo la corporale impenetrabilitá ed entrando i suoi raggi gli uni negli altri, essa esprime con molta evidenza l’unione delle anime in Dio, l’individualitá sparita ed innalzata nel mare dell’essere.

                                         Pareva a me che nube ne coprisse
Lucida, spessa, solida e pulita,
Quasi adamante che lo Sol ferisse.
     Per entro sé l’eterna margherita
Ne ricevette, com’acqua recepe
Raggio di luce, permanendo unita.
     S’io era corpo (e qui non si concepe
Com’una dimensione altra patio,
Ch’esser convien se corpo in corpo repe),
     Accender ne dovria piú il disio
Di veder quella essenzia, in che si vede
Come nostra natura e Dio s’unito.