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394 | appendice |
E come cerchi in tempra d’oriuoli Si giran sí, che ’l primo a chi pon mente Quïeto pare, e l’ultimo che voli; Cosi quelle carole, differente- mente danzando, dalla sua ricchezza Mi si facean stimar veloci e lente. |
Cosi, per cagion d’esempio, giunto nel cielo empireo, la virtú visiva, soperchiata dalla luce, si raccende alle parole di Beatrice; ma non penetra oltre all’apparenza: della quale è fatta descrizione in tre perfettissime terzine, di quella spontaneitá e limpidezza, che ha sempre il poeta ne’ momenti di schietta ispirazione.
E vidi lume in forma di riviera Fulvido di fulgori, intra duo rive Dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, E d’ogni parte si mescean ne’ fiori. Quasi rubini ch’oro circoscrive. Poi, come inebriate dagli odori, Riprofondavan sé nel miro gurge; E s’una entrava, un’altra n’uscia fuori. |
Lo stile di Dante non è sempre uguale: talora nella ruvidezza della parola e nell’acutezza del pensiero senti piú lo sforzo della volontá, che la forza del genio; ma quando è infiammato dal caldo dell’estro e il suo mondo ideale gli si agita ed atteggia dinanzi, egli scrive quello che vede, e con tanta naturalezza e facilitá, che i suoi versi ti paion composti ier l’altro: effetto maraviglioso della vera poesia, che serba in tutt’i tempi la freschezza di una eterna primavera. Qui l’evidenza è accompagnata dalla vaghezza delle immagini, avendo il poeta circonfuse le celesti sostanze di quanto è sulla terra piú ridente e smagliante. Avvalorata la vista nella riviera di luce, sotto la figura si manifesta il figurato, ed in que’ fiori inebbrianti, in quell’oro, in que’ topazi e rubini, in quelle vive faville il poeta discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma forza è pure ch’egli si arresti dinanzi all’infinito dell’idea, rimasta [la] fantasia fioca e corta al concetto.