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esposizione critica della divina commedia 409


                                         Tornate a riveder li vostri liti;
Non vi mettete in pelago, ché forse,
Perdendo me, rimarreste smarriti.
     L’acqua ch’io prendo giammai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l’Orse.
     Voi altri pochi, che drizzaste ’l collo
Per tempo al pan degli angeli, del quale
Vivesi qui, ma non si vien satollo,
     Metter potete ben per l’alto sale
Vostro naviglio, servando mio solco
Dinanzi all’acqua, che ritorna eguale.

     Non è pareggio da piccola barca
Quel che fendendo va l’ardita prora,
Né da nocchier ch’a se medesmo parca.
     

Che se Dante con tutta la divinitá del suo ingegno non è potuto riuscire a sormontare del tutto la difficoltá intrinseca della materia, valga questo a temperare alcuni poeti odierni, che amano troppo di filosofare in versi, senza aver le ali del Goethe e del Leopardi.

Nel paradiso è compiuta la redenzione di Dante, che di stella in stella, di virtú in virtú giunge all’ultima salute. Questo volo dell’anima a Dio, obbietto della solitaria contemplazione orientale, del misticismo alessandrino e delle pie meditazioni ed amorose estasi de’ Santi, è rappresentato poeticamente nell’amore di Dante, «che all’alto volo gli vestí le piume». L’amore mosse Dio alla creazione ed alla redenzione, e l’amore move la fattura al suo Fattore: onde nasce il concetto serio che l’amore ha presso Dante e il Petrarca, considerato come scala alla divinitá. Beatrice è qui vergine al tutto di sua mortalitá, di cui alcun vestigio apparisce nell’inferno e nel purgatorio: talché un pittore potrebbe bene ritrarla come è figurata nelle parole di Virgilio, o quando, «realmente nell’atto ancor proterva», si volge sdegnosa all’amante; ma qui qualsivoglia immagine determinata falserebbe il concetto spirituale, che ha in lei voluto esprimere il poeta. Ella dunque non può esser descritta che per modo indi-