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esposizione critica della divina commedia 4i3


apparisce con sempre maggior distinzione, primamente come comprensione ideale dell’universo; poi la pura luce si determina in differenza di colore e di splendore in una sola contenenza, adombrando cosí la trinitá delle persone nella unitá assoluta; ed ultimamente il colore prende sembianza dell’umana effigie. In questa congiunzione del divino e dell’umano si quieta l’ardore del desiderio, e si raggiunge lo scopo di tutto il poema: il progressivo emanciparsi dello spirito dalla carne fino alla sua perfetta redenzione in Dio.

                                         Ma giá volgeva il mio disiro e ’l velle.
Si come ruota che igualmente è mossa,
     L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle.
     

La fine del poema è la fine della stessa poesia, la quale, dopo di esser passata per tutte le possibili forme nell’universo della mente dantesca, va a sparire a poco a poco nell’incomprensibile e nell’ineffabile.

                                         All’alta fantasia qui mancò possa.      

Il paradiso sarebbe stato piú poetico, ove l’autore avesse voluto dargli un aspetto piú umano: date a’ suoi canti un significato, ed avremo gl’inni del Manzoni e le armonie del Lamartine; date a’ suoi personaggi la doppia bellezza della faccia e del cuore umano, ed avremo le creazioni di Milton, di Klopstock e di Moore. Ben si potea: ché la stessa Scrittura ritrae in forma e in affetto umano, non che altri, lo stesso Dio. Ma il poeta sta pur fermo nella severitá del suo concetto, alzando la poesia all’ultima sua idealitá e rimanendo in campi inaccessibili, non tentati prima né poi da niuna poetica fantasia. Onde il suo paradiso attraversa solitario i secoli, e ben possiamo, senza esagerazione, chiamarlo il piú ardito lavoro dell’ingegno umano.