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del concetto; e spettacolo degnissimo di maraviglia e di studio è il lavoro di un ingegno tanto poetico in tanta ariditá di materia. E innanzi tutto osserviamo che la scienza dantesca è in se stessa una poesia giá data al poeta prima ancora che vi lavori su la sua fantasia. Ci ha per la scienza uno stadio poetico, nel quale non si è potuta ancor francare da’ miti: di che, per tacere dell’Oriente, fa testimonianza Pitagora ed in parte Platone. Ai tempi di Dante la scienza disposata alla teologia aveva presa quella forma concreta ed individuale, che è propria della poesia. Un Dio personale, che, immobile motore, produce, amando, l’idea esemplare dell’universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte piú e meno in un’altra, infino alle ultime contingenze; gli astri, sede de’ Beati, influenti sulle umane sorti, e governati da Intelligenze, da cui spira il moto e la virtú de’ loro giri; il cielo empireo, centro di tutt’i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l’universo splendore della Divinitá legato con amore nel suo magno volume; l’ordine e l’accordo di tutto il creato, dalle infime incarnazioni infino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell’uomo per il primo peccato ed il suo riscatto per la incarnazione e la passione del Verbo; la veritá rivelata, oscura all’intelletto, visibile al cuore, avvalorato dalla fede, confortato dalla speranza ed infiammato dalla caritá; in tutto questo il pensiero è talmente disceso dalla sua astrazione e per tal modo incorporato, che il poeta può contemplarlo con quella stessa sicurezza di occhio, onde si affisa nella natura. La esposizione di Dante è perciò meno un ragionamento che una descrizione vivace della veritá informata, con quella evidenza e proprietá di particolari, che risplende nelle dipinture poetiche degli uomini e delle cose: di che può essere esempio dove egli tocca con tanta facilitá del processo creativo.

                                         Ciò che non muore, e ciò che può morire,
Non è se non splendor di quella idea.
Che partorisce, amando, il nostro Sire:
     Ché quella viva luce, che sí mea
Dal suo lucente, che non si disuna
Da lui, né dall’amor, che in lor s’intrea.