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esposizione critica della divina commedia 393


                                         Perché appressando sé al suo disire,
Nostro intelletto si profonda tanto,
Che la memoria retro non può ire.

     .    .    .    .    .    Ogni minor natura
È corto recettacolo a quel Bene
Ch’è senza fine, e sé con sé misura.
     Dunque nostra veduta, che conviene
Essere alcun de’ raggi della mente,
Di che tutte le cose son ripiene,
     Non può di sua natura esser possente
Tanto, che ’1 suo principio non discerna
Molto di lá, da quel’ch’egli è, parvente.
     Però nella giustizia sempiterna
La vista, che riceve il vostro mondo,
Com’occhio per lo mare, entro s’interna;
     Che, benché dalla proda veggia il fondo,
In pelago non vede; e nondimeno
Egli è; ma ’l cela lui Tesser profondo.
     

Non di rado incontra che la penna gli cade di mano, ed alla contemplazione succede una muta adorazione. Il che non è in lui lassitudine, ma rapimento, quasi la fantasia, calda ancora, miri pur fisa e desiosa in quel sole dell’essere, senza speranza di profondarvisi, come ben si pare alla bellezza de’ paragoni e delle immagini, onde infiora il suo pensiero.

                                         Indi, ad udire ed a veder giocondo.
Giunse lo spirto al suo principio cose,
Ch’io non intesi; si parlò profondo.
     Né per elezïon mi si nascose,
Ma per necessitá; ché ’l suo concetto
Al segno de’ mortai si soprappose.
     E quando l’arco dell’ardente affetto
Fu si sfogato, che ’l parlar discese
Invêr lo segno del nostro intelletto,
     La prima cosa, che per me s’intese,
Benedetto sie Tu, fu, trino ed uno,
Che nel mio seme se’ tanto cortese.