Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/VI. Esposizione critica della Divina Commedia/Il Purgatorio

VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il Purgatorio

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VI. Esposizione critica della Divina Commedia - L'Inferno VI. Esposizione critica della Divina Commedia - Il Paradiso
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Il Purgatorio.


Il purgatorio sta tra l’inferno e il paradiso, essendo il pentimento la via per la quale dal male si passa al bene: stato di mezzo, in cui l’inferno ricomparisce come una rimembranza, il paradiso traluce come una aspirazione. La ricordanza de’ godimenti terreni è accompagnata dalla coscienza della loro vanitá: onde il pentimento e l’espiazione. Le anime, ergendo il desiderio al vero Bene, soffrono, pregano e sperano, insino a che, mondate e rifatte, bevono in Lete l’oblio del passato e nel fiume Eunoè la fermezza del proposito, pure e disposte a salire alle stelle. Rimembranza, pentimento, aspirazione sono i tre momenti del concetto, che anima ed informa la seconda cantica.

Il passato è nudo della sua vita reale: la vampa delle passioni, i dolori, le ire, le disperazioni, che rendono sf poetico e popolare l’inferno, non possono, né debbono avervi piú luogo. Nell’inferno il poeta ha potuto dare alla passione una piena [p. 372 modifica]obbiettivitá, perché essa vi ha un valore assoluto, essendo dinanzi all’occhio dell’impenitente il sommo bene. Nel purgatorio il concetto è mutato: la passione non è piú un sostanziale, ma un momento; è il corpo sparente dinanzi alla veritá dello spirito: vanitas vanitatum. Ella perciò non accende piú il senso, ma è presente solo alla immaginativa, come un salutare ricordo dell’abisso, nel quale l’anima era caduta. Il che spiega la nuova forma che le ha dato l’autore, rappresentandola in esempli storici, che si offrono alla fantasia del poeta e delle anime purganti.

                                    Dell’empiezza di lei, che mutò forma
Nell’uccel che a cantar piú si diletta,
Nell’immagine mia apparve l’orma.

     Noi ripetiam Pigmalïone allotta,
Cui traditore e ladro e patricida
Fece la voglia sua dell’oro ghiotta,
     E la miseria dell’avaro Mida,
Che segui alla sua dimanda ingorda,
Per la qual sempre convien che si rida.
     

Ma questa forma non è di una sufficiente obbiettivitá; onde il poeta per aggiungere quella evidenza sensibile, che può patire il subbietto, dá a’ fantasmi dell’immaginazione figura esteriore, rappresentando intagliati nelle pareti e sul pavimento alcuni fatti delle umane vicissitudini, nel punto in cui apparisce il nulla delle terrene grandezze, dopo la catastrofe. È il sublime cristiano, tanto eloquente in Bossuet; il quale nasce dall’improvviso contrasto tra la grandezza passata che si presenta alla fantasia e lo stato presente che si offre dinanzi agli occhi: Seges est, ubi Troja fuit.

                                    Vedeva Troia in cenere e in caverne.
O Ilïon, come te basso e vile
Mostrava ’l segno, che lí si discerne!
     

Quanto a’ personaggi, usciti al tutto di ogni illusione, non ricordano le cose terrene che per giudicarle sia in sé, sia in altrui. [p. 373 modifica]Espressione di questo stato è la forma didattica, ravvivata dall’indignazione o dal pentimento: sono nobili e peregrine sentenze sul valore ed il significato della vita, espresse quando con grave semplicitá, quando per via di apostrofi con calore e con forza.

                                    Non v’accorgete voi che noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla,
Che vola alla giustizia senza schermi?
     Di che l’animo vostro in alto galla?
Voi siete quasi entomata in difetto
Sí come verme, in cui formazion falla?

     Non è il mondan romore altro ch’un fiato
Di vento, ch’or vien quinci ed or vien quindi,
E muta nome, perché muta lato.

     Chiamavi ’l cielo, e intorno vi si gira.
Mostrandovi le sue bellezze eterne,
E l’occhio vostro pure a terra mira;
     Onde vi batte Chi tutto discerne.
     

Sembra una conversazione di uomini savi, morti alle antiche passioni ed assennati per lunga esperienza delle cose umane, delle quali ragionino con animo riposato. Nel che non so se è piú da ammirare il poeta per altezza di concetti o per possanza di fantasia. Drizzando la mente all’ultimo termine delle cose ed alla finale destinazione dell’uomo, egli esce dal circolo delle quistioni particolari e si solleva spesso alle prime domande, che in sé comprendono le altre, l’origine del male, il valore morale delle azioni, l’accordo tra la necessitá e la libertá, lumeggiando e colorendo il pensiero con paragoni ed immagini nuove, fresche e spontanee.

                                    Esce di mano a Lui, che la vagheggia
Prima che sia, a guisa di fanciulla.
Che piangendo e ridendo pargoleggia,
     L’anima semplicetta, che sa nulla,
Salvo che, mossa da lieto fattore,
Volentier torna a ciò che la trastulla.
     
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                                    Di picciol bene in pria sente sapore:
Quivi s’inganna; e dietro ad esso corre,
Se guida o fren non torce lo suo amore,

     Poi come ’l fuoco movesi in altura,
Per la sua forma, ch’è nata a salire
Lá dove piú in sua materia dura;
     Cosí l’animo preso entra in disire,
Ch’è moto spiritale e mai non posa,
Fin che la cosa amata il fa gioire.

     Lo Motor primo a lui si volge lieto
Sovra tanta arte di natura, e spira
Spirito nuovo di virtú repleto,
     Che ciò che truova attivo quivi tira
In sua sustanzia; e fassi un’alma sola,
Che vive e sente, e sé in sé rigira.
     E perché meno ammiri la parola,
Guarda ’l calor del Sol che si fa vino.
Giunto all’umor che dalla vite cola.
     

L’anima colpevole non può gustare il cibo celeste,

                               .    .    .    .    .    .    .    .    senza alcuno scotto
Di pentimento, che lacrime spanda.
     

Il purgatorio, luogo dell’espiazione, è perciò figurato dal poeta come una montagna ripida e superba, in sul cominciare faticosa ed aspra; ma quanto l’uomo piú soffre, tanto acquista piú di vigore, finché, emendato affatto, il salire ha l’agevolezza dello scendere e la leggerezza del volo.

                                    .    .    .    .    .    .    Questa montagna è tale.
Che sempre al cominciar di sotto è grave;
E quanto piú va su, e men fa male.
     Però quand’ella ti parrá soave
Tanto, che ’1 suso andar ti sia leggero,
Com’a seconda in giuso andar per nave,
     Allor sarai al fin d’esto sentiero.
     
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Questa forma generale dell’umana espiazione riceve un’espressione particolare nelle varie penitenze, le quali non sono immagini sensibili delle passioni, come spesso nell’inferno, ma quasi sempre il contrario di esse, simili piuttosto alle virtú, da cui quelle allontanano. Cosi i golosi si purgano per digiuno; i superbi stanno rannicchiati a terra sotto gravi pesi, ecc. Tanto nel luogo, quanto nelle penitenze il concetto si manifesta con grande chiarezza, ma senza molta varietá e determinazione. Il pensiero soverchia la forma, e l’autore si contenta per lo piú di esporre in maniera didattica il significato di quello che vede: narra e ragiona piú che non descriva. Ciò che è simbolo nella qualitá del luogo e delle pene diviene sentimento nelle parole de’ personaggi. Il pentimento è un fatto interiore, il quale, rappresentato nel momento della conversione, quando l’anima nel primo entrare in se stessa si sente combattuta da contrari affetti, può pervenire a quella perfetta esplicazione subbiettiva, che ammiriamo nell’Innominato de’ Promessi sposi. Ma qui lo spirito non è in quello stato di opposizione e di contraddizione che rende si drammatico l’affetto. La situazione è assai semplice: i personaggi si esprimono in brevi parole, con tranquillitá d’animo, e, certi della loro beatitudine, poco fermano lo sguardo sulla loro vita passata. Ciò che domina in loro è la serenitá e la calma, bellezza tutta cristiana: ché la fede in un Dio di misericordia e di amore rende bello il volto del cristiano morente, e fa tralucere sulla materia agonizzante l’immortalitá dello spirito.

                               .    .    .    .    .    .    .    .    io mi rendei
Piangendo a Quei che volentier perdona.
     Orribil furon li peccati miei;
Ma la bontá infinita ha si gran braccia,
Che prende ciò che si rivolve a lei.
     

Ma bene si è levato il poeta a tutto ciò che il pentimento ha di piú patetico ne’ canti trentesimo e trentesimoprimo, ove non è giá una calma ricordanza., ma posta in atto una vera scena drammatica, nella quale è lo scioglimento del nodo dell’azione. E noto l’amore che Dante portò alla figliuola di Folco Portinari; [p. 376 modifica]amò fanciullo con amore di uomo. Beatrice morta divenne l’ideale della sua poesia, la bellezza della virtú, la parola della veritá; né altro essa è nella Divina Commedia. Ella comparisce nel primo aprirsi della scena con un misto di tenero, di soave, di celeste, che è amore, ma amore giá trasfigurato e santificato. Il poeta ci desta cosí di lei una grande aspettazione; la quale, rinfrescata a quando a quando durante il misterioso viaggio, giunge alla vivacitá dell’impazienza, quando è annunziata la sua venuta. L’amante non può contemplarla, cioè a dire non può giungere a beatitudine, che non abbia innanzi cancellato anch’egli i suoi falli nel fuoco purgante. Un muro di fiamme lo divide da lei; ed egli, dapprima restio, vi si gitta entro, vinto dall’amoroso desiderio.

                               .    .    .    .    .    .    .    .    .    Or vedi, figlio,
Tra Beatrice e te è questo muro.

     Lo dolce padre mio, per confortarmi,
Pur di Beatrice ragionando andava,
Dicendo: Gli occhi suoi giá veder parmi.

     Vedi il Sol, che in la fronte ti riluce;
Vedi l’erbetta, i fiori e gli arboscelli,
Che quella terra sol da sé produce.
     Mentre che vegnon lieti gli occhi belli,
Che lagrimando a te venir mi fenno,
Seder ti puoi, e puoi andar tra elli.
     

Il comparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio; e noi con lo stesso dolore di Dante ci separiamo da un compagno, al quale ci eravamo giá tanto affezionati. Mai l’umana saggezza non comparve sotto forme piú amabili: carattere nobilissimo, nel quale il decoro e la gravitá son temperati da paterno affetto. Il suo pensiero è di una severa dignitá; ma la sua parola è cortese ed amica; e sembra in vista un uomo onorando, la cui fronte serena e il sorriso benevolo raggentilisca anche il rimprovero.

Dal pianto di Dante per la partita di Virgilio è tratto un felicissimo passaggio al cominciamento del dialogo. [p. 377 modifica]

                                    Dante, perché Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non piangere ancora;
Ché pianger ti convien per altra spada.

     Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui l’uomo è felice?
     

Nelle eloquenti parole di Beatrice grandeggia di tutta la sua dignitá lo spiritualismo cristiano, nobili e gravi nella sua risposta agli angioli; stringenti ed instanti, allorché si volge al poeta; ma di modo che in quella gravitá è pure alcun che di affettuoso; e questa veemenza non è senza decoro. La vergogna, il dolore e la confessione di Dante vi è descritta con le piú delicate gradazioni e con la piú grande veritá. E, per arrecare in mezzo alcuno esempio, la sua vergogna è rappresentata con un doppio naturale movimento degli occhi, l’uno nascente dal sentimento interiore, l’altro dalla visione di esso sentimento sul suo volto: egli non osa rimirare, non che altri, se stesso.

                                    Gli occhi mi cadder giú nel chiaro fonte;
Ma veggendomi in esso, io trassi all’erba:
Tanta vergogna mi gravò la fronte.
     

Dove si può notare qual prò egli abbia saputo trarre dal rivo, presso al quale stava, giovandosi della circostanza del luogo con quella stessa felicitá, che ammiriamo nel patetico giuramento di Pier delle Vigne.

Gli angioli, che fanno corona a Beatrice, non vi stanno indarno; anzi vi adempiono l’officio del coro antico, e la celeste salmodia che esprime pietá e compatimento stempera l’angoscia del poeta nel pianto. E certo non vi ha cosa che abbia tanta virtú di trarre la lacrima dagli occhi aridi di un infelice quanto le affettuose dimostrazioni, onde altri lo compatisce e conforta.

La natura di questo lavoro non mi consente ch’io entri in altri particolari, e giá ho detto anche troppo: aggiungerò solo che questi due canti, ne’ quali il poeta mostra un grande ingegno [p. 378 modifica]drammatico per la ricchezza ed evidenza delle immagini, per la nobiltá del concetto, per la squisita gradazione degli affetti e per la naturalezza e veritá de’ trapassi, possono stare accanto a’ piú belli della Divina Commedia.

Ma il dolore non è il sentimento principale del purgatorio: esso è raddolcito dalla speranza, ed il cuore si acqueta nell’aspetto della virtú a cui sospira. La virtú quindi non vi ha la forma positiva del paradiso, ma risplende solo alla fantasia accesa dal desiderio e dall’amore. Le anime la veggono intagliata nel luogo della loro purgazione, figure mirabili di delicatezza, di affetto, d’evidenza; e, ragionando e cantando di quella, si confortano a bene operare e placano col diletto della immaginazione il tormento del senso.

                                    Poi vidi genti accese in foco d’ira,
Con pietre un giovinetto ancider, forte
Gridando a sé pur: Martira, martira:
     E lui vedea chinarsi, per la morte
Che l’aggravava giá, in vêr la terra;
Ma degli occhi facea sempre al ciel porte,
     Orando all’alto Sire in tanta guerra,
Che perdonasse a’ suoi persecutori.
Con quell’aspetto che pietá disserra.

     E per ventura udii: Dolce Maria,
Dinanzi a noi chiamar, cosí nel pianto,
Come fa donna che in partorir sia;
     E seguitar: Povera fosti tanto,
Quanto veder si può per quell’ospizio,
Ove sponesti ’l tuo portato santo.
     Seguentemente intesi: O buon Fabrizio,
Con povertá volesti anzi virtute,
Che gran ricchezza posseder con vizio.
     

I personaggi tengono molto dell’umano: in loro non è né l’ambascia de’ dannati, né Testasi de’ santi; ma la tranquilla gioia dell’uomo virtuoso, che, vivendo ancora nella miseria terrena, sulle ali della fede e della speranza alza l’animo al [p. 379 modifica]paradiso. Cosi nell’aspetto di Catone noi vediamo impressa l’immagine veneranda del saggio antico, ma irradiata di celeste luce. Le ombre sono contente nel fuoco; gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d’inquietudine e di ansietá; ed il poeta adopera le immagini piú tenere e soavi a ritrarre questa pace interiore.

                                    Era giá l’ora che volge ’l disio
A’ naviganti e intenerisce il cuore,
Lo di c’han detto a’ dolci amici addio;
     E che lo nuovo peregrin d’amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia ’l giorno pianger che si muore:
     Quand’io incominciai a render vano
L’udire, ed a mirar una dell’alme
Surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
     Ella giunse e levò ambe le palme,
Ficcando gli occhi verso l’oriente,
Come dicesse a Dio: D’altro non calme.
     Te lucis ante sí devotamente
Le uscí di bocca, e con sí dolci note.
Che fece me a me uscir di mente.
     

Tutto spira caritá ed affetto; e poiché nei particolari è la vita della poesia, come avverti uno de’ nostri piú giudiziosi critici, Gian Vincenzo Gravina, l’autore rende visibile il sentimento nell’azione. Il purgatorio è sparso di tratti affettuosi. Le anime nell’incontrarsi fannosi festa insieme, congaudendo, per dirla con l’energia dantesca.

                                    Lí veggio d’ogni parte farsi presta
Ciascun’ombra, e baciarsi una con una
Senza ristar, contente a breve festa.
     Cosi per entro loro schiera bruna
S’ammusa l’una con l’altra formica,
Forse a spiar lor via e lor fortuna.
     

La ricordanza dell’amicizia è rappresentata in Dante e Casella con immagini e con modi di dire di una gentilezza petrarchesca. [p. 380 modifica]

                                    Cosi al viso mio s’affissar quelle
Anime fortunate tutte quante,
Quasi obbliando d’ire a farsi belle.
     Io vidi una di lor traggersi avante,
Per abbracciarmi con si grande affetto,
Che mosse me a far lo somigliante.
     Oh ombre vane, fuor che nell’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
     

Nell’incontro di Stazio e di Virgilio il riconoscimento è condotto con molta arte e la riverenza di Stazio espressa con molta veritá in uno di quei movimenti súbiti ed inconsapevoli, che contraddicono all’intelletto; né trasanderò la stupenda creazione del Sordello, il quale dalla maestá e dal riposo della sua prima attitudine prorompe con tanta naturalezza in un impeto di sublime affetto. Con manifesta compiacenza l’autore ha introdotti nel purgatorio di assai poeti ed artisti, Casella, Sordello, Buonagiunta da Lucca, Stazio, Oderisi, Guido Guinicelli, Arnaldo Daniello, e con esso loro s’intrattiene in nobili e cari ragionamenti, talora intorno all’arte. Ma nelle figure individuali è debole personalitá e povera esplicazione di affetto e di carattere; vi ha bellezza, ma insieme l’immobilitá della calma. Al che suppliscono in parte alcune digressioni politiche scintillanti di bellezze ed uniche tra noi per veemenza e calore di affetto, benché altre sieno un cotal poco aride e troppo spicciolate nel minuto della realtá; la quale, scompagnata dall’ideale, ha la vita labile dell’accidente. Ma la parte politica, mentre per un lato cresce varietá e vivacitá al disegno, non vale punto a turbare nel generale quello stato di calma aspirazione alle cose celesti, in cui sono le anime. Di che è manifestazione il canto, contrapposto a’ feroci lamenti de’ dannati; e giá fin nel principio il canto amoroso di Casella è quasi preludio alle sacre melodie, onde risuona la montagna.

                                    Ed io: Se nuova legge non ti toglie
Memoria, od uso all’amoroso canto,
Che mi solea quetar tutte mie voglie,
     
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                                    Di ciò ti piaccia consolare alquanto
L’anima mia, che con la sua persona.
Venendo qui, è affannata tanto.
     Amor che nella mente mi ragiona,
Cominciò egli allor si dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
     

Piú che negl’individui, questo elemento lirico si manifesta ne’ gruppi, parte precipua del purgatorio: il comune affetto s’immedesima in un solo concento. Nell’inferno non vi sono cori, perché non vi è l’unitá dell’amore. L’odio è solitario: l’amore è simpatia ed armonia; ond’è che il canto e la musica, effusione del cuore gonfio e traboccante, conseguono il loro massimo effetto nella misurata varietá delle voci e degli strumenti. Né altra è qui la situazione: le anime escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di caritá.

                                    Una parola in tutte era ed un modo,
Sí che parea tra esse ogni concordia.
     

Materia del canto sono per lo piú salmi ed inni sacri, espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore. Essi sono mirabilmente acconci alle diverse situazioni. Cosi, entrando nel purgatorio come nella terra promessa, le anime cantano In exitu Israël de Ægypto; nel primo salire intuonano il Miserere; e con la stessa convenienza vi è introdotto il Salve, Regina, il Gloria in excelsis Deo, l’Agnus Dei ecc. Ma dee spiacere che il poeta, contento a citare la prima parola o il primo versetto latino delle poesie bibliche o della Chiesa, non ne abbia recate alcune per disteso in volgare, come ha fatto del Pater noster, o composte egli delle nuove, com’è nel paradiso la nobilissima preghiera di S. Bernardo e come a’ nostri di con tanta lode ha fatto il Manzoni. Epperò i suoi canti sono una vaga melodia musicale nuda della sua esplicazione, esprimenti piú il generale e l’indeterminato, che il proprio ed il successivo del sentimento; e, quando pensiamo ai salmi di David, cosí consonanti con lo stato delle anime penitenti, sentiamo tutto ciò che [p. 382 modifica]è a desiderare nel purgatorio. Le fuggitive apparizioni degli angioli sono quasi l’immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In essi non è alcuna subbiettivitá: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell’estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza ed attitudine.

                                    E vidi uscir dall’alto, e scender giue
Due angeli con due spade affocate,
Tronche e private delle punte sue.
     Verdi, come fogliette pur mo nate,
Erano in veste, che da verdi penne
Percosse traean dietro e ventilate.
     L’un poco sovra noi a star si venne,
E l’altro scese all’opposita sponda:
Sí che la gente in mezzo si contenne.
     Ben discerneva in lor la testa bionda;
Ma nelle facce l’occhio si smarria,
Come virtú, che a troppo si confonda.

     A noi venia la creatura bella,
Bianco vestita, e nella faccia quale
Par tremolando mattutina stella.
     

In quelle dolci note, in queste immagini celesti l’anima s’infutura, gustando, come dice il poeta, le primizie del piacere eterno. Di che prende qualitá il luogo, rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che è quanto dire dal paradiso dantesco. Uscendo dal buio infernale, il poeta descrive la prima impressione che gli fa la luce con l’animo rapito di uomo, che, stato lungamente in tenebre, è d’improvviso dilettato dalla faccia del sole.

                                    Dolce color d’orïental zaffiro,
Che s’accoglieva nel sereno aspetto
Dell’aer puro infino al primo giro,
     Agli occhi miei ricominciò diletto.
Tosto ch’io fuori uscii dall’aura morta,
Che m’avea contristato gli occhi e ’l petto.
     
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                                    Lo bel pianeta, che ad amar conforta,
Faceva tutto rider l’oriente
Velando i Pesci, ch’erano in sua scorta.
     Io mi volsi a man destra, e posi mente
All’altro polo, e vidi quattro stelle
Non viste mai, fuor ch’alia prima gente.
     

E dall’ombra che rende il suo corpo mortale trae facile opportunitá al dialogo, cagione di maraviglia e di curiositá a’ nudi spiriti, la quale egli descrive in guise sempre nuove e sempre belle, con vena inesausta di fantasia.

                                    Come le pecorelle escon del chiuso
Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
Timidette atterrando l’occhio e ’l muso;
     E ciò che fa la prima, e l’altre fanno.
Addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
Semplici e quete, e lo perché non sanno;
     Si vid’io muovere, a venir, la testa
Di quella mandra fortunata allotta,
Pudica in faccia e nell’andare onesta.
     Come color dinanzi vider rotta
La luce in terra dal mio destro canto,
Si che l’ombr’era da me alla grotta,
     Ristarò, e trasser sé indietro alquanto;
E tutti gli altri, che venieno appresso.
Non sapendo ’l perché, fero altrettanto.

     Quando s’accorser ch’io non dava loco
Per lo mio corpo al trapassar de’ raggi,
Mutâr lor canto in un O lungo e roco.
     

Parimente il purgatorio, quantunque soggiorno di penitenza, pure come via a beatitudine, è sparso qua e colá di luoghi amenissimi, mostrandosi la natura in quella stessa opposizione che sono i personaggi. La natura è l’accordo musicale e la voce esteriore di quel di dentro: amorosa consonanza dello spirito e del corpo, in che è posta l’ultima ragione dell’arte. Cosi, per passarmi di altri esempi, nel canto settimo è maravigliosa armonia [p. 384 modifica]tra le ombre sedute, quete e cantanti Salve, Regina, e la vista allegra del seno erboso e fiorito, in mezzo al quale riposano.

                                    Tra erto e piano era un sentiero sghembo,
Che ne condusse in fianco della lacca
Lá, dove piú ch’a mezzo muore il lembo.
     Oro ed argento fino e cocco e biacca,
Indico legno lucido e sereno,
Fresco smeraldo allora che si fiacca.
     Dall’erba e dalli fior, dentro a quel seno
Posti, ciascun saria di color vinto.
Come dal suo maggiore è vinto il meno.
     Non aveva pur natura ivi dipinto.
Ma di soavitá di mille odori,
Vi faceva un incognito indistinto.
     Salve, Regina, in sul verde e in su’ fiori
Quivi seder, cantando, anime vidi,
Che per la valle non parean di fuori.
     

Le anime, piangendo, cantano; e la montagna alpestre è lieta di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha il suo termine, quando l’anima si leva con libera volontá a miglior soglia; monda del tristo passato, con pura letizia. Nell’inferno si scende, nel purgatorio si sale; e come ivi l’ultimo abisso è segno della compiuta malvagitá, cosí la cima del purgatorio è immagine terrena del paradiso. La descrizione del paradiso terrestre ci ricorda i giardini incantati di Alcina e di Armida, delizia e lascivia dell’immaginazione; se non che è qui una severitá di forma, che risponde alla serietá del concetto. Tutto è qui, che alletti lo sguardo e lusinghi la fantasia: riso di cielo, canto di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolare di fronde e mormorare di acque, tutto descritto con soavitá e melodia, ma insieme con tale austera temperanza, che non dá luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi; né il diletto che noi proviamo turba il riposo dell’animo. Il poeta passa dormente da uno stato in un altro, cioè senza opera sua, per virtú della grazia divina. I suoi sogni sono rappresentazioni dello stesso passaggio, che si offre [p. 385 modifica]confusamente alla sua coscienza, con quel mescolamento di realtá e d’immaginazione, che suole aver luogo in questi casi.

                                    Nell’ora, che comincia i tristi lai
La rondinella presso alla mattina,
Forse a memoria de’ suoi primi guai;
     E che la mente nostra, pellegrina
Piú dalla carne, e men da’ pensier presa,
Alle sue visi’on quasi è divina;
     In sogno mi parea veder sospesa
Un’aquila nel ciel con penne d’oro.
Con l’ale aperte, ed a calare intesa:
     Ed esser mi parea lá, dove fóro
Abbandonati i suoi da Ganimede,
Quando fu ratto al sommo concistoro.
     Fra me pensava: Forse questa fiede
Pur qui per uso; e forse d’altro loco
Disdegna di portarne suso in piede.
     Poi mi parea che, piú rotata un poco,
Terribil come folgor discendesse
E me rapisse suso infino al foco.
     Ivi pareva ch’ella ed io ardesse:
E si l’incendio immaginato cosse,
Che convenne che ’l sonno si rompesse.
     

Ce ne ha di molto belli; e bellissimo per concetto e per virtú creativa è l’ultimo sogno, nel quale gli appare Lia, simbolo della vita attiva, tutta intesa a farsi bella con l’opera, mentre la sorella Rachele, figura della vita meditativa, è ratta in contemplazione.

                                    Sí ruminando e si mirando in quelle.
Mi prese ’l sonno; il sonno che sovente,
Anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.
     Nell’ora, credo, che dall’orïente
Prima raggiò nel monte Citerea,
Che di fuoco d’amor par sempre ardente,
     Giovane e bella in sogno mi parea
Donna vedere andar per una landa,
Cogliendo fiori; e cantando dicea:
     
[p. 386 modifica]
                                    Sappia qualunque il mio nome dimanda
Ch’io mi son Lia, e vo movendo intorno
Le belle mani a farmi una ghirlanda.
     Per piacermi allo specchio qui m’adorno;
Ma mia suora Rachel mai non si smaga
Dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
     Ell’è de’ suoi begli occhi veder vaga,
Com’io dell’adornarmi con le mani;
Lei lo vedere e me l’ovrare appaga.
     

L’anima, pervenuta nel paradiso terrestre, è rifatta bella, tornata nell’antico stato d’innocenza, sciolta da ogni memoria del passato, e di efficace volontá, libera da ogni impedimento. Il che è rappresentato estrinsecamente in Matilde, che tuffa i redenti nel fiume Lete ed Eunoè. Matilde è l’anima nell’opera di sua redenzione, la stessa Lia venuta a realtá, in sembianza ancora umana celeste creatura, con l’ingenua gioconditá di fanciulla, con la leggerezza di Silfide, col pudico sguardo di vergine, il volto radiante della luce di paradiso. E giá l’anima pregusta le gioie belle e care del cielo, al quale si leva; ed il poeta le presenta simbolicamente, in aspetto ancora terreno, l’obbietto del suo desio. Le forme allegoriche non vogliono essere squallide e scolorate, come caratteri di algebra o lettere di alfabeto, morte e vuote figure in se stesse, né sconce e disformi alla dignitá del subbietto, come quegl’idoli deformi e prosaici di rozzi popoli, ne’ quali essi effigiavano i loro Iddíi. La figura dee avere per sé un suo proprio valore poetico: di che non mi pare siasi qui dato pensiero il poeta, invaghitosi per avventura piú del tipo orientale che della libera e schietta bellezza greca, traendone solo Beatrice descritta con una ricchezza di colorito che giá imparadisa le nostre menti, ed alcuni particolari vaghissimi.

Giunto all’albero della vita, cioè della scienza del bene e del male, il poeta in sullo sciogliersi dalle cose terrestri s’innalza al significato generale dell’umanitá, della quale ci narra la storia dal peccato di origine infino a’ tempi suoi: concetto nobilissimo, degno dell’ingegno dantesco, comprensivo e profondo ad un tempo, ma poco felicemente rappresentato nella sua forma allegorica. [p. 387 modifica]

Il Purgatorio è comunemente meno pregiato del l’Inferno, comeché da questo avviso si discostino alcuni moderni critici; e, tra gli altri, il Balbo è ito sí lungi che non ha dubitato di preporre alla prima la seconda cantica, guidato per avventura meno dal vero, che da amore di contraddizione e di parte. Porre a ragguaglio l’Inferno col Purgatorio e dolersi che nell’uno manchino que’ pregi e quelle qualitá che si lodano nell’altro è, a parer mio, tanto vana e pueril cosa, quanto il paragone che tenne tanto tempo sospesi i nostri critici tra l’Orlando e la Gerusalemme: perocché, quantunque le due cantiche sieno fattura della stessa mente, pure è tra esse intrinseoa differenza di concetto e quindi di forma; e in questo mi è avviso stia il miracolo dell’ingegno dantesco, essendo le tre cantiche tre mondi, tre poemi, tre poesie diverse. Il Purgatorio non può essere altro da quello che è, o vogli considerarlo come parte del tutto o come totalitá per se stessa: tal concetto, tal forma.