III. Versi

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II IV
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III

VERSI.

Parliamo di versi e non di poesia; perchè oggi in Italia non si trova altro. Ci sono, per esempio, dei poeti, anche dopo D’Annunzio; ma in questa stagione, a cui noi guardiamo, non hanno molta parte. Tacciono; o è come se non ci fossero. [p. 287 modifica]

Dov’è Salvatore Di Giacomo? Dicono che egli abbia seguitato a creare poesia anche in questi anni; dopo l’edizione compiuta di Ricciardi scrive delle canzoni per un trust tedesco di dischi grammofonici, mi pare; dodici l’anno: bellissime, dicono. Ma noi non ne sappiamo nulla. Qualche cosa che è venuta fuori sui giornali di Napoli e di Roma non era molto bella, e non aveva niente di nuovo. Quel che ci appare di lui è una operosità letteraria, che non interessa direttamente la poesia: lavora per il teatro, promette una ristampa delle sue novelle, scrive dei saggi di erudizione varia, massime napoletana e settecentesca.

Lasciamo stare le novelle, a cui egli stesso vuol dare solo l’importanza di un documento; e, per quel che ricordiamo, il documento sarà prezioso, non solo per la vivacità pittoresca profonda di certe pagine e per il rilievo più compiuto che renderà alla fisonomia giovanile dell’artista in formazione; ma anche per il ricordo di un momento letterario abbastanza curioso in Napoli, tutto pieno di letture e di cultura francese, da Maupassant a France; ne son derivate certe qualità del giornalismo napoletano che meritano almeno un po’ di osservazione, se si pensa che hanno avuto qualche efficacia perfino su D’Annunzio, e che di lì viene, per non parlar di nessun altro, Bergeret.

In quanto all’erudizione, tutti sanno che valore, abbia per Di Giacomo; è un poco una mania, un passatempo forse necessario all’artista, che si riposa in quelle minuzie e pare che si diverta, aspettando le visite della poesia.

Così si è occupato e si occupa delle canzoni d’una volta, della storia dei teatri e dei musici e degli attori napoletani, di Casanova e della sua [p. 288 modifica]fuga e dei suoi soggiorni in Napoli, di tante altre cose rare e svariate, con una grande serietà, un po’ ingenua per la mancanza quasi completa di spirito critico e di metodo erudito, un po’ arruffata e pur piacevole nei suoi episodi; che sono, accanto ai documenti e alle discussioni storiche, dei quadretti di genere deliziosi, delle ricostruzioni di vestiti e di luoghi, di conversazioni e di lettere, piene di fantasia impreveduta e di sapore autentico; questo è scritto con quella prosa singolare, alquanto incerta, confusa di colori e ritocchi moltiplicati, talora semplice e talor pretenziosa, non priva di errori e di stonature, che prendono a quando a quando un valore così profondo di passione e di evidenza. È il poeta che si fa sentire attraverso l’erudito; e una parola gli basta a dar la realtà alle sue fantasie e la musica ai suoi sospiri.

Poichè Di Giacomo, sarebbe inutile e pur fa piacere ripeterlo, è un poeta vero. Di cui è difficile misurare la grandezza e definire il carattere appunto per questo, che il dono della poesia è puro in lui, è musica schietta.

La materia dei suoi versi pare semplice, quasi mediocre: sono bozzetti di genere, scene drammatiche e canzoni per musica: ciò non esce dalle tradizioni consuete della poesia dialettale, e pare che non abbia, nell’intendimento dell’artista, altra pretesa che un certo realismo, pittoresco e commovente, nei sonetti, e il solito sentimento e la solita melodia napoletana nelle canzoni. La nota più squisita è data da un gusto di evocazioni del passato, da un po’ di nostalgia settecentesca; e nelle cose ultime c’è anche qualche novità di analisi personale. Non è molto tuttavia per noi che siamo avvezzi alle preziosità di cultura e alle [p. 289 modifica]sottigliezze di psicologia e di suggestione nella poesia moderna, fra Beaudelaire e D’Annunzio. Di Giacomo dovrebbe esser classificato, a questi paragoni, come un buon poeta di provincia, sentimentale e modesto.

Invece egli è qualche cosa di unico. Poche parole cadute dalle sue labbra bastano a creare l’impressione della vita, piena e trasparente; e l’aria circola e lo spazio è aperto e gli uomini e le cose si vedono e si sentono fra sillaba e sillaba di una strofetta breve. La scena che egli dipinge è quella e non si confonde con nessun’altra in tutto il mondo: il paese, l’ora, la passione di quell’uomo e di quella donna esistono per un incanto semplice e intero, che non si può scordare. Si direbbe che in mezzo a un numero infinito di parole egli abbia scelto con una sicurezza istintiva quelle sole che convenivano; e le lascia cadere una accanto all’altra, e tutto è compiuto. «Maggio. ’Na tavernella....». Non c’è bisogno di più.

E tutti i luoghi comuni della luna e della marina e della primavera, della gelosia e dell’amore, tutte le banalità e le moralità più trite di ciò che sempre passa e sempre ritorna, acquistano una freschezza improvvisa e deliziosa, un interesse non conosciuto mai.

Ogni accento può esser nuovo in lui; perchè il suo lirismo è qualche cosa di immediato, senza analisi, è una dolcezza strana che scoppia dalle sillabe e fa qualche volta di ogni parola un’invenzione e una sorpresa. Che ci turba; come quelle cosette lievi possono aver tanta forza, come in quell’acqua chiara e superficiale può esser a un tratto tanto cielo e dolcezza e cupo, quasi senza che egli lo sappia? [p. 290 modifica]

I suoi principii e le sue pause, le rime e i ritornelli, le strappate e le allegrezze così come gli abbandoni e i prolungamenti del verso, hanno un valore musicale, che qualche volta è tenue e qualche altra volta è profondo; ma è sempre schietto. E questo è il dono che fa di lui l’uguale in certi momenti dei più grandi poeti; un classico, nel senso più esatto del vocabolo. Ci sono delle strofe, dei gruppi di versi che si staccano dal suo volume e restano sospesi nella nostra memoria, come cosa che non appartiene a nessuno; cosa pura e che vive per sè; passione e canto in poche parole indifferenti. Non ne sapremmo rappresentare l’impressione se non ricordando quei frammenti di melica greca, in cui è solo un principio, un accento; tanto semplice che ci fa dubitare di un’illusione, e ci costringe a dirlo e a ridirlo, per essere sicuri della forza che è dentro e che mai non si vuota.

Si pensa qualche volta che se il tempo e il caso potessero d’un tratto devastare e annullare nell’opera del Di Giacomo tutta la parte mediocre e di passaggio, quella in cui la sua ispirazione si riposa o si prepara soltanto, fra le allegorie e le banalità e il pittoresco e il sentimentale, sì che ne restassero qua e là pochi accenti soli, sospiri e grilli e baci, (il principio di un bozzetto, l’interruzione di una serenata, la ripresa di una tarantella; un verso, «addurava de rose a ciente passe....», un singhiozzo, un raggio di luna....), ci verrebbe la voglia di prendere queste cose e di metterle accanto a certi frammenti di Saffo.

Di Giacomo ha i capelli d’argento; ma il viso e la voce è giovane. Oggi lavora per il teatro e per il cinematografo. Che cosa farà domani? ci deve essere ancora tanta poesia nel suo cuore! [p. 291 modifica]

E ora sarebber da ricordare, per la somiglianza dell’istrumento, altri poeti cosidetti dialettali; voci che ci parvero ieri profonde e gentili.

Anche questa, del dialetto, come espressione di una certa poesia più immediata, è stata un pochino una moda, e, come moda, è finita.

Parecchi hanno cessato o rallentato lo scrivere; e dei nuovi se ne conoscon pochi. Ce n’è a Napoli, dove Piedigrotta li alimenta e li rinnova ogni anno: alcuni giovani hanno squisitezze e acutezze notevoli; la canzone, dopo Di Giacomo, ha acquistato una dignità artistica e psicologica che non aveva in passato; ma in somma quelle che ci arrivano, d’anno in anno, e che ci piacciono spesso, sono canzoni: non poeti.

C’è, della generazione precedente, Russo, che è ricco d’ingegno e di spirito; la sua opera tuttavia non pare che sia uscita dal tipo del realismo di genere; ed è, in un certo senso, compiuta. Fra i più nuovi, c’era Murolo che aveva delicatezza; s’è messo a far del teatro.

Fuori di Napoli invece questa poesia dialettale si è fermata; o è rimasta confinata, come a Roma, nel cerchio dei giornali e delle curiosità locali.

Nome e nobiltà di poeta conserva veramente Pascarella; la cui fisonomia è scolpita in un medaglione di Carducci; noi lo guardiamo, nel suo bel rilievo, come cosa lontana. Di Pascarella si attendono i poemi del risorgimento, che dovrebbero essere una novità: ma sono forse, per quanto si sente dire, l’epilogo di un errore glorioso, che pur ha avuto qualche momento bello, nei sonetti di Villa Glori (che non valgono la Scoperta e gli altri primi).

A Roma c’è anche, giovine e vivace, Trilussa: non interessa più come qualche anno indietro, [p. 292 modifica]ma è sempre notabile per la felicità, arguta di quei bozzetti, una delle poche cose spiritose e piacevoli che abbia la nostra letteratura, che non supera di solito l’umorismo di Oronzo. Trilussa ha anche una bravura e un sapore di verseggiatura, che sfugge di solito nel gioco dei motti, a cui il pubblico bada; ma è qualità d’artista.

Al buon tempo delle letture, insieme con lui si soleva ricordare Barbarani, sentimentale e gentile; non privo di una certa freschezza; ma non pare che produca altro.

In ogni modo siamo ben lontani da Di Giacomo. Uno solo, dei nostri, è degno di essere ricordato accanto a lui, come poeta; e come lui, per quanto assai più giovine e vicino, resta un po’ sulla soglia di questa letteratura d’oggi; sospeso, incerto di tornare. Per adesso, scrive degli articoli di giornale, delle impressioni di viaggio, delle fiabe e delle cosine per bimbi; senza neanche l’interesse che ha l’erudizione o il teatro di Di Giacomo. Il poeta oggi è assente. Il nostro bel Guido Gozzano è rimasto nei Colloqui. Aveva annunziato dal 1912 un poema sulle farfalle; di cui si ebbe qualche primizia, che era una reminiscenza pascoliana. Poi non si è avuto altro. Il poeta si riposa. E noi non sappiamo se tornerà, o se ci lascerà solo la sua immagine prima «sempre ventenne».

Intanto è un piacere ricordare quella cara poesia di un giorno, che tutti abbiamo amato un poco, anche senza saperne troppo bene il perchè.

È inutile rettificare un’illusione che il tempo già comincia a correggere naturalmente. Ma il fatto sta che quel che i più di noi presero per carattere e qualità essenziale della poesia di Gozzano, era soltanto un’illusione, un gioco creato [p. 293 modifica]da lui nella nostra ingenuità. Quanti bei discorsi facemmo sul mondo poetico di Guido, piccolo mondo, mondo in grigio, di provincia non molto lontana e di passato non ancora antico, con le buone cose di pessimo gusto, i dagherrotipi e le stampe del milleottocentoquaranta, le cose di soffitta e di cucina, le erbe e gli odori modesti, e la prosaicità e lo scoloramento volontario, l’aspirazione al realismo umile e al sentimentalismo e alla mediocrità di un cuore stanco di esser troppo raffinato, troppo artista, troppo moderno. Quella poesia in sordina, quella povertà ostentata, quella rinunzia alla letteratura, quel non so che di piccino e arido, e nostalgico e languido a un tempo, ci parvero una rivelazione e insieme una malattia: prendemmo sul serio, come una invenzione di Gozzano, la poesia borghese, la poesia provinciale; discutemmo i suoi metri zoppicanti e i suoi gusti puerili, la sua ironia e la sua quasi ingenuità, come il problema primo ed essenziale del suo canto.

E in questo c’era una parte di equivoco; a cui egli d’altronde si prestava con una pronta ambiguità, ritrovandosi nell’illusione dei suoi lettori come in uno specchio, e, accomodando e accarezzando in sè il riflesso ingannevole del suo gioco; c’è tutta una seconda parte nel breve gruppo dei versi del Gozzano che si potrebbe dire ritoccata alla maniera di Guido. Perchè la sua è sopra tutto l’opera di un virtuoso, abile e sottile negli effetti verbali.

Come un pittore può ottenere un colorito ricchissimo anche solo con un po’ di bistro e di terra scura, così Gozzano riesce a essere un nuovo e saporito verseggiatore con delle parole comuni, degli accenti cascanti e delle rime approssimative. Ha [p. 294 modifica]la civetteria degli accordi che paion falsi, delle bravure che sembrano goffaggini di novizio; si diverte a fare il piemontese, l’avvocato, il provinciale.

Invece è un artista, uno di quelli per cui le parole esistono, prima di ogni altra cosa.

Egli è l’uomo che assapora il piacere di un vocabolo staccato, il valore di un nome proprio («Capenna Capenna Capenna»), quasi come un amico di Flaubert: e adopera le parole come una pasta piena e fluente, che riempie tutto lo stampo del verso («azzurri d’un azzurro di stoviglia»!), e si incastra con delizia nella rima (....brucavano ai «cespugli» di menta il latte «ricco»). Pensate che è lui che ha fatto rimare Nietzsche con camicie! E il suo brutto verso torinese, se sfugge un poco al controllo della fattura maliziosa, se è fatto in fretta, si abbandona per istinto a una dolcezza puramente verbale e cantante, parnassiana (ricordate certi versi di Paolo e Virginia, «nella verzura dell’eremitaggio....»).

E questa sensibilità di virtuoso che gli ha permesso di creare e di adoperare con effetto così nuovo la sua maniera: in cui del resto sarebbero da considerare molte altre sfumature ed episodi, dagli influssi letterari — Pascoli, e anche un po’ di D’Annunzio — attenuati e quasi perduti in quel che si vede, ma sicuri nel principio; fino ai casi personali e al carattere di Totò Merumeni, con quelle sue tali amicizie, e gusti, e abitudini, e complessione.

È c’è poi in lui, oltre la musica, un gusto di sensazioni fresche — «come la prugna al gelo mattutino» — e anche un realismo sano e leggero di novellatore, che ci interessa e ci piace in quelle sue storie, così precise nell’ambigua [p. 295 modifica]trascuratezza del fare. Son gli idilli di nonna Speranza e della signorina Felicita, il dialogo d’amore tra le crisalidi delle farfalle, la strada montanina in mezzo alle ginestre, cose un po’ manierate, un po’ prolisse; ma inventate e limpide e belle, in cui troveremo sempre un poeta.

Il quale ci ha dato i versi di Guido Gozzano, ma ci avrebbe potuto dare altro, e più. Non importa se ora tace, o se forse non ci darà nulla: la poesia può avere in un uomo dei capricci e delle intermittenze; e può a anche esaurirsi d’un tratto, senza ragioni visibili.

Era poesia; e ce ne accorgiamo oggi con più desiderio e rimpianto, quando nella nostra letteratura troviamo soltanto gli imitatori. Se bisognasse una riprova di ciò, che il cosidetto mondo poetico, la psicologia e le pose di Gozzano, erano cosa estranea alla sua personalità d’artista, basterebbe dare un’occhiata ai versi di questi altri. È accaduto per lui come per Pascoli; s’è trovata presto una formula della loro maniera, che permette di rifarla quasi alla perfezione.

Ognuno conosce la ricetta per far del Gozzano: argomenti provinciali e infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami, e del colore di rosa tea: ambiguità dell’amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odore; e poi i versi che son prosa, le monotonie che diventan varietà e la cascaggine che diventa forza; l’enfasi dell’accento e della rima messa su tutti i punti più banali, quell’aria di dar come nuove e commoventi tutte le cose trite e mediocri. Potremmo ricordare parecchi giovani che son riusciti bene in questo trucco.

Ma il guaio è che l’hanno preso sul serio. [p. 296 modifica]Mentre il «gozzanismo» di Gozzano era più che altro un gioco verbale, di cui l’artista si compiaceva nella sua delicatezza — non importa se poi anche lui s’è lasciato prendere un poco a quel gioco — e di cui si valeva, come di ogni altra qualità dell’anima o del canto, a render l’espressione più precisa della sua persona, il gozzanismo degli imitatori è diventato un principio poetico, una ragione sufficiente per mettersi a far dei versi, i quali non hanno altro scopo che ottenere quella risonanza e osservar quella formula. Questi giovani scrittori — come molti critici, del resto — hanno creduto in buona fede che bastasse scriver dei versi come prosa e delle sciocchezze come cosa seria per far della poesia; qualcuno ci ha aggiunto un po’ d’imitazione francese, da ieri (Jammes, Guérin, ecc.), ed ecco compiuta la nostra scuola di «poeti provinciali».

Non facciamo dei nomi che sarebbero inutili; il valore di queste cose, che del resto stanno per passare di moda, molto facilmente, è affatto generico, e non supera la curiosità della ricetta.

Quelli che hanno parlato a questo proposito di lirismo nuovo, più intimo, che si ricerca e si esprime quasi nella mancanza di passione e di impeto, nella nudità e nella mediocrità, hanno detto una cosa assai vaga; che può essere vera, così in astratto, come definizione psicologica di tutto un orientamento della poesia moderna (francese!), che pur risale di molto indietro: diciamo qualità psicologica, piuttosto che lirica, perchè nasce dalla saturazione letteraria di certi spiriti. Ma nel fatto particolare, la novità si riduce a qualche cosa di molto più meschino; si riduce al piacere di imitare l’ultimo venuto, alla curiosità di ripeter l’ultima canzone; ed è soltanto un caso che [p. 297 modifica]questo ultimo sia Gozzano; avrebbe potuto esser Pascoli o D’Annunzio e sarebbe stato lo stesso.

E si può notare che di questi poeti giovani ce n’è che non eran più alle prime armi; avevan fatto prima dei versi di tutt’altro genere, e poi son passati con facile indifferenza al Gozzano, mutando anima come si muterebbe soprabito. Non è il fatto di Civinini, mi pare, e di quell’altro che ha più ingegno di tutti, Marino Moretti?

Appunto perchè ha ingegno, il suo caso è più significativo; e rivela la inconsistenza retorica di questo che è stato preso per un episodio di poesia nuova.

Moretti ha fatto dei versi «col lapis» e delle «poesie di tutti i giorni», come l’anno prima aveva scritto dei versi dannunziani; con una abilità incontestabile. Egli è riuscito, meglio di ogni altro, a dare una espressione e quasi un corpo a quella semplicissima sensazione letteraria da cui muoveva; ma era solo una sensazione, non un’anima o una personalità, era l’effetto nascente alla lettura, del contrasto fra certe cose e un certo tono della voce. Egli ha riprodotto e moltiplicato questo effetto con una varietà ammirabile, ma così monotona e così vuota in fondo! Non c’è, dal primo all’ultimo dei suoi versi, un segno solo di mutamento o di progresso interiore: infanzia e beghine, giardini e farmacia passano e non sono altro che un’identica cantilena.

E badiamo che Moretti ha delle qualità non comuni per realizzare le sue impressioni in parole fluide e sicure; e possiede anche un certo sentimento felice della rima. Ma tutto questo è adoperato invano, a non dir nulla. La differenza da lui agli altri è soltanto questa: che mentre, dopo aver letto, si resta perfettamente vuoti, come se [p. 298 modifica]tutte quelle poesie fossero scritte colla stessa acqua chiara, di lui si ricorda il nome, con una impressione di facilità, di scrittore rapido, abile a fare un po’ quel che voglia.

È l’impressione che fanno anche le sue novelle; che se si dovessero prender sul serio sarebbero un problema curioso; come si può unire la sensibilità dei versi alla facilità di questi bozzetti, di tipo così comune, che non si sanno distinguere dalla solita roba mezzo realistica e mezzo sentimentale che si trova oggi nella quinta colonna di tutti i giornali, con un nome sotto di uomo o di donna, che non fa differenza! (Pensate a un Carducci che invece di scriver la prosa delle Confessioni, scrivesse dei «bozzetti militari»; a un Verlaine che invece delle Histoires comme ça o delle Mémoires d’un veuf ci desse una prosa alla Coppée, di Tonte une jeunsse). Del resto quelle novelle, senza carattere e senza ironia, son tutt’altro che spregevoli; la mediocrità delle intenzioni artistiche lascia libera la mano dello scrittore, che è naturalmente felice; non cose nuove, nè paesi, nè anime scrutate e penetrate; ma una certa vivacità di impressioni; una piacevolezza di figure fermate prontamente e di casi raccontati bene, una fattura svelta e chiara, che interessa e non pesa. Questo corrisponde all’abilità del far i versi, e finisce di spiegare la fortuna libraria del Moretti, che per l’altra parte è dovuta alla rapidità della produzione, che s’impone al pubblico; e a quella facile perfezione nel fabbricare l’articolo di moda, che permette ai nostri critici di distinguerne la formula con più comoda banalità — è molto più facile, per esempio, da questo punto di vista, descrivere il mondo poetico di Gozzano in Moretti, che non direttamente nell’inventore! — [p. 299 modifica]Il che non basterebbe, se non ci fosse anche l’ingegno, e una reale disposizione al lavoro letterario.

Siamo andati a finire un po’ lontano dalla poesia. E il peggio è che non c’è speranza di ritornarvi. Troveremo ancora della poesia (in un certo senso che io non ho voglia di discutere, per quanto sia convinto che questa identificazione estetica della prosa coi versi è soltanto una confusione di quella ignoranza dottorale, che come diceva Montaigne, non precede la scienza, ma la segue), fra i cosidetti prosatori. Ma di cercarla nei versi, potremmo abbandonare l’impresa. Non c’è bisogno di analisi. Basta interrogare la nostra memoria: qual’è, in questi ultimi anni, messo da parte Gozzano e Di Giacomo e D’Annunzio e i morti, messi da parte costoro che insomma, per una ragione o per un’altra, non possono entrare in una rassegna reale della poesia italiana d’oggi, qual’è il libro di versi che abbiamo avuto il coraggio di portarci a casa e di leggere; qual’è il nome che abbiamo potuto distinguere nella copertina della rivista o in fondo alla colonna del giornale, come un annunzio di novità lieta, o almeno come una promessa e un invito a fermarci; qual’è il poeta, che saremmo arditi di nominare al nostro amico francese, che ci ha mostrato, insieme con le nuove ballate di Paul Fort e col dramma di Claudel e con l’ultima georgica di Jammes, (e magari con gli ultimi poemi di Verhaeren e con le stanze della De Noailles) il fascicolo di Vers et Prose, o dei Marges, o la Phalange, e il volumetto di Vildrac, e quest’altro di un giovane, che ieri non esisteva ancora?

Niente e poi niente. Lasciamo stare i vecchi che meritano tanto rispetto e i giovani che [p. 300 modifica]dovrebbero suscitare tanta speranza: mettiamo da canto le convenienze, e la stima, e l’amicizia, e tante belle cose. Versi che si facciano leggere in Italia non ce ne sono.

Li poesia per noi, se vogliamo parlare con coscienza, son le edizioni complete di Zanichelli, ben chiuse in una busta di cartone, come il regalo che bisogna accettare a forza per qualche debito di antica riconoscenza, il regalo infelice nel suo astuccio, da cui non lo caveremo più mai; sono i volumi di carta a mano, coi titoli grossi e neri sulla copertina bianca, che spiccan nella vetrina con un’aria di inutilità così perfetta — ogni tanto ne sfogliamo qualcuno, e alziamo un lembo di pagina col dito cauto, come gente che ha perduto oramai anche la speranza di farsi ingannare — ; sono i libretti e i fascicoli, che capitano qualche volta sulla scrivania, non si sa come, e che si lasciano scivolar nel cestino guardando da un’altra parte, con un piccolo brivido di rimorso per via della dedica; sono i mattoni rossi dei futuristi, che non buttiamo via per non parer gente arretrata, ma che non ci arrischiamo di rimuovere per paura di sollevar quel dito di polvere che c’è sopra; sono tutti quei nomi rimasti fra le pagine della Nuova Antologia o nelle collezioni dei fogli letterari come fiori ben secchi che nessuno turberà più nel riposo perpetuo e cartaceo: si sfogliano talora le pagine in fretta, per cercare un articolo, e i versi ci passano sotto gli occhi come spazio vuoto, assolutamente ozioso, senza neanche il ricordo di quel mezzo minuto che forse spendemmo a scorrerli nella stampa fresca.

È quasi inutile precisar con dei nomi particolari queste impressioni comuni e definitive.

Potremo ricordare quelli che rispettiamo senza [p. 301 modifica]discuterli più: Marradi, Mazzoni. Sono poeti? Ci son pochi che abbian voglia di riaprire il volume per rispondere alla domanda.

Sappiamo che c’è sopra loro una bellissima recensione di Carducci; che non permetterà di dimenticarli. Abbiamo anche in mente che Marradi per la pienezza del verseggiare, e Mazzoni per la finezza castigata e precisa dell’espressione, dovesser valere meglio di molti di noi. Ma insomma il volume oggi è chiuso. (Ci ritorneremo con interesse di storici: come lettori e cronisti l’abbiamo lasciato).

Così son chiusi i volumi di Gnoli. Il quale si chiama anche col nome di Giulio Orsini, e con altri nomi: è tanto tempo che scrive, cominciò prima del ’70, che i nostri padri, a Roma, non c’erano ancora arrivati. È un eccellente letterato, e aveva anche disposizioni singolari alla poesia, che tentò in molti modi. Ci sarà, nei manuali, un paragrafo per lui, staccato dai su ricordati, a cui noi dobbiamo unirlo nel rapido saluto.

Questi son lontani; ma hanno almeno un nome e una figura. E gli altri? Vecchi e giovani, noti e ignoti, professori e ribelli.... par di sentire un fruscio di gialle foglie secche, ammucchiate e confuse da uno strascico di vento.

Si può pescare qualche cosa nel mucchio. Ci son dei nomi che hanno un significato.

Troviamo Chiesa, per esempio. Ci fece dubitar molte volte, con quella sua durezza e rancura di espressione, d’esser davanti a un poeta, non ancora liberato dalle catene della sua materia. Era un dubbio sproporzionato. Fr. Chiesa è un buon letterato, che scrive dei sonetti e delle odi con una coscienza applicata e laboriosa; ma non raggiunge altro, di tanto in tanto, che quella felicità che [p. 302 modifica]nasce una una fatica ben riuscita. Il valore della fatica non è grande. L’ispirazione dei suoi poemi è tutta descrittiva ed esornativa: è il poeta «grande artiere» del Carducci, preso alla lettera, che sbalza i suoi fregi non nell’oro, ma in un ferro greggio, alquanto greve e scuro. Il pregio è nella martellatura: le parole messe a posto come pietre; dure, ma con poca luce. Rime buone, versi aggroppati fortemente: ma i periodi ritmici mancano; manca ogni movimento o principio lirico. Anche le liriche personali hanno la stessa intensità di espressione nei particolari — sensazioni generiche di vedere, sognare e via via, pur realizzate con una minuzia che può ricordare il Pascoli: un Pascoli, se è possibile, rigido — ; e la stessa freddezza di pezzi slegati, senza interesse, lo stesso peso di un travaglio, che pare a primo sguardo profondo e potente soltanto perchè è imperfetto e difficile. La prosa come di solito illumina i versi: si posson leggere di lui dei racconti smaglianti e pesanti. La elaborazione letteraria nel Chiesa non arriva a essere una delizia, come in certi classicisti; resta una fatica seria e nobile, ma il più delle volte senza scopo.

Come in esso la lambiccatura, così in un altro una certa mollezza ed effusione larga di accenti commossi creava qualche sospetto di poesia. Ma tutti sanno che il sospetto è forse meno fondato in Bertacchi che in Chiesa. Bertacchi è un eccellente poeta milanese, che ha per tutte le occasioni dei buoni discorsi sentimentali e patriottici, e delle buone poesie sane ed eloquenti; ha della pietà, della serietà, s’interessa alle miserie sociali e al progresso, ama le Alpi e i prati, ha una voce calda e simpatica, il verso facile, il periodo armonioso. Non è un professore come gli altri; dice [p. 303 modifica]quelle stesse cose un po’ accademiche, commemorazioni o descrizioni, con un calore e una dolcezza che gli altri non hanno, senza sfoggio, senza interessi meschini.

Di quella generazione che oggi è matura — e il cui poeta vero è Panzini — questi sono i migliori.

Si sentì dire, non so mai quanto tempo è passato, che c’erano altri scrittori di versi, a cui non mancava fama e seguito e stima: Colautti, Cesareo.... Ma noi abbiamo ancora tutto Rapisardi da rileggere, prima di arrivare a loro. Ci eravamo scordati di un altro, che è pure di quella generazione, e stimato fra i più nobili: Adolfo De Bosis.

Lo sappiamo e lo diciamo tutti, che è uno scrittore nobilissimo; ma com’è che ce ne scordiamo sempre? Com’è che abbiamo provato un senso così intimo di sollievo quando l’abbiamo visto finalmente collocato e accomodato, con la giustizia e l’onore che si merita, in un saggio equo e fino e garbatissimo di Croce, che ci risparmia oramai ogni obbligo di portare un giudizio nuovo sul lavoro gentile e sulle intenzioni elette dei suoi versi?

C’è anche, che in provincia le normaliste la leggono ancora, Ada Negri. Non discutiamo il suo passato. In questi anni è stata la fornitrice di poesia del Marzocco: la vergine rossa ha subìto un poco anche lei l’effetto degli anni che hanno fatto dell’audace cenacolo fiorentino, di gloriosa memoria, un buon salotto di conversazioni letterarie. La maestrina è diventata una signora intellettuale, umanitaria e femminista; ha coltivato il suo spirito, ha messo nei versi un certo odore di modernità, dell’analisi psicologica e della cultura letteraria. [p. 304 modifica]

Così ha finito per perdere anche quell’impeto giovanile e quella sorta di melodia zingaresca che dava talora un accento strano alle sue cose banali; come certe parole di donna, che son così comuni e pure ci turbano. Il più delle sue cose ultime sono imitazioni e reminiscenze letterarie: ma imitazioni disparate, e che rivelano il posticcio di questa letteratura, che rifà il Pascoli (non il migliore: quello del Negro di St. Pierre e delle altre terzine), tutt’insieme col D’Annunzio e perfino col Gozzano. Di personale non c’è altro che qualche momento dell’antica foga, piuttosto desiderata che ritrovata; foga accesa e un po’ torbida, che dà l’illusione di travolger tanti sensi freschi e profondi, e in fine non lascia nulla; si esaurisce tutta nella cadenza obbligata del verso, nelle zeppe e nel ripieno sonoro. E le liriche son tutte di motivi astratti, generici, sviluppate su una metafora o su un’allegoria, un giardino, un viale, un pozzo, una casa abbandonata: che se hanno un contenuto particolare, allora cascano nella poesia di occasione; quella che fa tanta fatica a fare i versi sopra un argomento determinato!

Tuttavia Ada Negri non è finita in queste cose. Ricordiamo di lei delle impressioni di hôtels svizzeri e di anime femminili, mandate a giornali, in una prosa nervosa, viva a tratti, che val molto meglio dei versi. Son passeggiate, interviste, spiragli sopra un mondo che ha qualche cosa di nuovo, non ancor rivelato; mondo degli alberghi di legno sui prati verdi e delle donne che son per passare la crisi, che hanno i capelli grigi ma gli occhi giovani e chiari; una giovinezza nel grigio, una inquietudine incerta, un bisogno acuto di crearsi una ragione propria di vivere; di viver [p. 305 modifica]solo, femminile; e sono i thè femminili, la natura svizzera, i fiori, i ricami, la protezione degli animali e delle donne perdute, l’educazionismo, l’umanitarismo, il montessorismo, tanti zitellonismi che nascondono qualche cosa di strano e profondo. La Negri ne ha colto certe impressioni intense. Si perdono un poco per la debolezza dell’artista, che non ha coscienza chiara di ciò che è nuovo; e si ferma, nell’espressione di quella sorta di crisi, ai punti più falsi, più deboli; cerca di dare il miglior rilievo alle pose di puritanismo, di eroismo femminile, fa delle tirate di sentimento, del moralismo, magari della pedagogia. Ma non importa: pochi ritratti e sensazioni e tristezze hanno un interesse di poesia; che non è certo, se si tolga quella singolare Vivanti, nelle altre donne che scrivono.

Resterebbero i versi dei giovani. Dei quali basterebbe fare una divisione per categorie; versi alla maniera di Guido; classicisti; liricisti; futuristi; e se volete, ritardatari (gli imitatori che son rimasti a Pascoli, a D’Annunzio, perfino a Carducci!). Basta dire il nome della categoria perchè ognuno sappia, con una sicurezza inesorabile, che cosa si può aspettare; argomenti, frasario, ambizioni; tutto è fissato e preciso; soggiungere il titolo del poema e il nome dell’autore, è una superfluità così oziosa!

Non proveremo neanche a descrivere meglio codeste categorie. Tanto varrebbe fare una rassegna di tutti gli elementi e curiosità e tendenze della nostra cultura. Rintracciare uno per uno i modelli ideali, le parentele, le figliazioni, e spesso anche, attraverso le letture di seconda mano, le contaminazioni e gli equivoci delle nostre cosidette scuole e novità poetiche, sarà compito degli [p. 306 modifica]eruditi futuri; i quali potranno anche consolarsi con l’illusione che tutta codesta roba oscura e ingrata abbia un valore di tentativo e di preparazione, quasi spianando la strada a qualche vero poeta, di cui essi studieranno qui gli antecedenti prossimi; press’a poco come si dice, poniamo, che i versificatori dell’Arcadia e del ’700 ci interessano in quanto hanno elaborato i metri e i modi lirici alla poesia nuova del Parini del Foscolo e via via.

Ma oggi il poeta deve ancor venire; ed è inutile fare la cornice al quadro che non c’è.

L’analisi minuta è un passatempo per le conversazioni dei caffè letterari, a cui può interessar di riconoscere che il tale si rammenta tutt’insieme di Witmann e di Benelli e di D’Annunzio, che quell’altro deve aver letto Laforgue, e che il terzo deriva da quei versilibristi che cominciarono a fiorire in Roma un dieci anni addietro e anche più.

Ci sarebbe da seguitare un pezzo su questa strada; facendo perfino un po’ di geografia letteraria, e distinguendo, per esempio, Roma da Firenze, e la riviera ligure da Milano; ogni luogo ha la sua atmosfera e le sue singolarità. Che tutte insieme poi non significano nulla; non si può neanche assumere, come criterio vero e sicuro, la distinzione fra tradizionalisti e novatori; poichè molto spesso la rottura apparente dei ritmi e degli schemi metrici si accompagna con una rigidezza inesorabile di linguaggio fissato negli stampi espressivi più tradizionali.

E fermiamoci presto, per non andare a finire in una delle solite tragedie spirituali in cui il vecchio combatte col nuovo. Il pubblico, per fortuna, non si accorge di nulla. Aspetta pazientemente che questa poesia nuova, di cui gli parlano, [p. 307 modifica]venga fuori. Torneremo più tardi su qualche episodio, come curiosi del costume.

Ripetiamo, intanto, qualche nome, che una volta o l’altra suonò meglio al nostro orecchio: Siciliani, Lipparini, Bontempelli....

Se ci volessimo servir dei versi per dir bene degli autori, l’impresa sarebbe facile: anche in semplici esercitazioni metriche si può sentire, e ammirare con più diletto forse che in altre cose, l’ingegno e il gusto e le litterae di uno scrittore.

Ma dei versi per sè soli, che dire?

A Lipparini soltanto è capitato di scrivere una cosa buona — secondo la natura e il potere suo quasi perfetta — in uno di quei momenti felici che la pazienza e il talento possono sempre trovare, anche in un artista di second’ordine: i Canti di Melitta. Del resto egli è più freddo e castigato degli altri. Siciliani ha una certa forza severa, senza sapore letterario vero e proprio; con delle asprezze e delle stonature che meravigliano in un amico dei classici: dei quali tuttavia il beneficio si sente nella semplificazione dello stile, che gli ha permesso di scrivere un romanzo robusto.

Una certa personalità tenue, ma pur varia e abbastanza piacevole, mostrava meglio di tutti, nei suoi principii, Massimo Bontempelli: scriveva delle Ecloghe e delle Odi, poesia naturale di uno studente di filologia e di un professore giovine, errando coi suoi libri e con la sua letteratura modesta e alquanto ironica di ginnasio in ginnasio; non aveva doni di passione profonda o di squisitezza (B. è uno di quelli, come tanti fra noi, che tendono al classicismo attraverso una educazione letteraria imperfetta), ma un sentore lieve degli uni e degli altri. Cose forse che passano come si [p. 308 modifica] spegne negli occhi la luce dei vent’anni. Anche le sue novelle del resto, che interessavano dapprima per un contrasto facile, ma ben risentito, fra le umanità della cultura e le ironie spicciole della vita, hanno seguito la stessa sorte, acquistando di garbo e perdendo di sapore.

Adesso Massimo Bontempelli è forse più banale degli altri; e versi non ne scrive più, credo. Press’a poco come Pastonchi: le cui esercitazioni poetiche avevano un valore notevole dieci anni fa, quando venivano da un giovane; in cui l’abilità e la facile eleganza potevano annunziare l’ingegno; mentre quella disciplina accademica e quella tale severità di tecnica esclusiva erano di certo, data la stagione e il contorno, un’audacia e un principio signorile. Oggi non c’è più nessuno che prenda Pastonchi per un poeta; è un buon dicitore, dalla voce rotonda e dall’orecchio esercitato; capace di far delle canzoni come delle recitazioni. Del resto anche lui si adatta a fabbricar novelle, come Bontempelli si è lasciato relegare in certe cronache musicali retrospettive, per il Corriere.

Per riassumere, questa è tutta poesia che si potrebbe dir transitoria, provvisoria: vi si può apprezzare, di solito, un momento di giovinezza studiosa, che si prepara e spera cose migliori; e poi, il più delle volte vi rinunzia: quanti Iuvenilia a cui non segue mai il volume delle Rime Nuove!

E valgon meglio quelli che abbandonano addirittura ogni pensiero di versi, che non quelli che si ostinano in un artificio, il quale, secondo la sentenza antica, così come conviene alla puerizia, è ridicolo e inetto in un uomo. Pensate dunque: Fausto Salvadori, Alfredo Baccelli, Cosimo Giorgeri Contri [p. 309 modifica] e tutti gli altri, che seguitano a far dei versi da più di venti anni!1

Lasciando star costoro, intorno a noi questo scorcio di stagione letteraria è tutto pieno di speranze e promesse giovanili sfiorite e imbozzacchite con una rapidità sempre crescente: quanti volumi di versi, che furon presi sul serio per tutto lo spazio di un inverno o di una primavera, e che hanno servito ai lor autori solo per prendere un po’ di spinta e spiccare il salto verso il giornalismo, o magari i libretti d’opera!

E adesso bisogna fare uno sforzo per ritrovare nella memoria il titolo e l’impressione esatta del volume. Uno ne scrisse Térésah, con dell’ingegno, mi pare, e una certa sovrabbondanza giovanile e femminile insieme; e molte reminiscenze, [p. 310 modifica]sopra tutto. Altri ne ha scritti A. S. Novaro; seguitando il Pascoli, con molta gentilezza qualche volta, come in certe cantilene infantili.

E poi c’è la Guglielminetti, che ha scritto pure dei versi, levando qualche rumore; e a dire il vero nei primi pareva di sentir qualche cosa; non soltanto quella tale femminilità, che ha fatto colpo mentre era del più vecchio esibizionismo; ma proprio un tintinnio di rime, come campanelli di Titania.

Doveva essere un’illusione; perchè dopo son venuti soltanto dei distici (secondo il sistema di Gozzano) della più ingrata e opaca fattura: episodi di una sensualità banale, raccontati con l’egoismo angusto e ingenuo che è di tante donne: hanno ottenuto un effetto di prima lettura per il contrasto fra la sincerità abbastanza brutale delle cose con l’impaccio un po’ goffo della espressione; pareva semplicità e squallor di passione, ed era soltanto la povertà di una brutta provinciale in tunica egizia.

Un altro nome che ha cambiato suono; come una campana che diventa chioccia, Cavacchioli. Aveva cominciato con un volume di versi, pieno di impertinenze, di spiritosaggini scapigliate e sciupate; ma con delle delicatezze qua e là, delle rime trovate, delle piccole novità piacevoli. Adesso fabbrica dei melodrammi, degli articoli da giornale, e paga di tanto in tanto il suo debito alla fratellanza futurista con una filza di versi, in cui di suo non c’è proprio più nulla; carovane di frasi in ischiavitù, descrizioni pesanti e truculente che potrebbero recar la firma di un qualunque Luciano Folgore o Dinamo Correnti.

C’è ancora, fra i giovani, Saba che mostrò una certa personalità sentimentale, non precisa [p. 311 modifica]nè espressa con voce propria, pure abbastanza viva; ma insomma neanche lui è uscito dalla poesia generica. Un respiro ritmico intenso e veramente notevole hanno alcune cose di Rébora; come una martellatura potente sopra una materia pigra; perchè tutto il resto, lingua immagini sensi, ricade nella solita banalità lambiccata e informe dell’uso.

In ultimo è rimasto Palazzeschi. Del quale almeno possiamo sperare che non avendo ancor fatto quasi nulla, domani faccia qualche cosa. Disposizioni poetiche non gli mancano; e non è ancora legato a nessuna maniera, non ha un passato che gli s’imponga; s’è sciolta la mano con tutte quelle cosette per spasso, in cui ha sfogato insieme una voglia molto borghese di far dello spirito, delle mistificazioni e dei paradossi, e una certa felicità tenue ma sincera, d’invenzione lirica.

Palazzeschi non ha l’intensità e la ricercatezza espressiva di altri suoi compagni; e questo è il segno di una razza più fina.

Ciò che in altri è generico, diventa, fino a un certo punto personale e musicale in lui. Pensiamo a quella tendenza verso una liberazione da tutti i modi tradizionali, a quel tale liricismo e soggettivismo tecnico, che si respira un po’ da per tutto nella nostra atmosfera, come una esigenza morale e dottrinaria prima ancora che artistica; a guardar bene, vi si trova, dell’influenza francese, anche dalla musica e dalle altre arti, dello snobismo, una forte impressione di certe formule messe in giro dagli scolari del Croce e del Vossler sul linguaggio, sull’identità, fra prosa e verso, sull’intuizione lirica ecc.; e infine forse anche qualche cosa di serio. In ogni modo, tutto questo non supera l’ambizione generica, così nella maggior [p. 312 modifica]parte dei futuristi ufficiali, come negli altri vari liricisti — Cardarelli e simili — ; è una nota di costume, su cui è inutile fermarsi (pii.

Ma in Palazzeschi è un principio poetico, che si sente tanto più naturalmente, quanto minore è in lui la cultura e la elaborazione letteraria. È inutile cercare i suoi maestri; si direbbe che egli abbia preso il suo spunto dall’aria che respirava o da qualche lettura superficiale e frammentaria; un po’ di D’Annunzio (della Pioggia nel pineto....) e poi di Gozzano e Moretti, forse; o meglio ancora, certe poesie di terz’ordine, tentativi di versi liberi che dureremmo fatica a identificare. Gli è bastato assai poco per sentire l’incanto di una poesia, per così dire elementare, anteriore alla fattura e all’elaborazione, fissata nel momento più vago, quando è ancora solo un desiderio di immaginazioni leggiere e sopra tutto un respiro crescente della frase che s’alza verso il canto e ancora non ne ha trovata la misura.

Egli è andato per questa via, non molto lontano; senza passione e senza musica profonda. Questo, fra parentesi, ha permesso ai lettori di gustare più facilmente la sua novità, limitata alle disposizioni più semplici.

Nei primi versi si sentiva predominante una sorta di musica, come un respiro che cresceva e cresceva, fino a una battuta alessandrina prolungata e raddoppiata, e poi scendeva e si sedava a poco a poco, in battiti sempre più brevi, più piani.

Poi è sopraggiunto un raffinamento più sottile, come se il poeta si accorgesse, e però si stancasse, di quella certa monotonia che era nel primo procedimento; e abbiamo avuto cose più rare, suoni leggeri, musiche purgate di ogni risonanza melodica e di ogni ripetizione, giochi di immagini [p. 313 modifica]senza corpo, limpide e strane, alla Tristan Klingsor (si dice così per intendersi alla lesta; non che ci sia rapporto vero fra i due). E infine, la reazione completa; una poesia come invenzione pura, al di fuori di ogni musica e di ogni espressione, che riesce poi nell’effetto un gioco quasi meccanico della fantasia. Si direbbe nelle ultime cose che Palazzeschi, a forza di semplificare e purificar la sua poesia, abbia finito per distruggerla; quella che scrive è prosa, con appena un po’ di colore umoristico o grottesco. Non crediamo che sia finito qui; nè lui, nè la sua strada.

Note

  1. Nominiamo a parte, non per dispregio ma con rispetto discreto, Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi. Anche lui scrive dei versi da più di vent’anni; senza aver superato quella facilità di commozione letteraria, che lo invitava giovine sulla traccia dei grandi. Carducci e Pascoli e i francesi; ha una certa verdezza, una certa gagliardia apuana, ma niente di nuovo neanche nelle aspirazioni. È sullo steso piano di Pastonchi, con meno felicità tecnica. Ma quantunque valgano i suoi versi, non bisogna scordare che egli ha vissuto per quelli; non ha fatto altro: non è nè un giornalista nè un professore nè un impiegato: è uno che scrive dei versi. E c’è in questa sua devozione e sacrificio della vita alla poesia, qualche cosa di un po’ trapassato, ma rispettabile e generoso; come quell’amore che cantavano i trovatori, così puro e tuttavia convenzionale, per una madonna che ci pare dipinta. Il nostro amore moderno ha forse dei pudori più selvatici e più sdegnosi; non canta; neanche alla poesia. Del resto, questo è un altro problema di moralità letteraria. E non importa servirsene per limitare la simpatia verso il buon Ceccardi.