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le lettere 293

da lui nella nostra ingenuità. Quanti bei discorsi facemmo sul mondo poetico di Guido, piccolo mondo, mondo in grigio, di provincia non molto lontana e di passato non ancora antico, con le buone cose di pessimo gusto, i dagherrotipi e le stampe del milleottocentoquaranta, le cose di soffitta e di cucina, le erbe e gli odori modesti, e la prosaicità e lo scoloramento volontario, l’aspirazione al realismo umile e al sentimentalismo e alla mediocrità di un cuore stanco di esser troppo raffinato, troppo artista, troppo moderno. Quella poesia in sordina, quella povertà ostentata, quella rinunzia alla letteratura, quel non so che di piccino e arido, e nostalgico e languido a un tempo, ci parvero una rivelazione e insieme una malattia: prendemmo sul serio, come una invenzione di Gozzano, la poesia borghese, la poesia provinciale; discutemmo i suoi metri zoppicanti e i suoi gusti puerili, la sua ironia e la sua quasi ingenuità, come il problema primo ed essenziale del suo canto.

E in questo c’era una parte di equivoco; a cui egli d’altronde si prestava con una pronta ambiguità, ritrovandosi nell’illusione dei suoi lettori come in uno specchio, e, accomodando e accarezzando in sè il riflesso ingannevole del suo gioco; c’è tutta una seconda parte nel breve gruppo dei versi del Gozzano che si potrebbe dire ritoccata alla maniera di Guido. Perchè la sua è sopra tutto l’opera di un virtuoso, abile e sottile negli effetti verbali.

Come un pittore può ottenere un colorito ricchissimo anche solo con un po’ di bistro e di terra scura, così Gozzano riesce a essere un nuovo e saporito verseggiatore con delle parole comuni, degli accenti cascanti e delle rime approssimative. Ha