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le lettere | 289 |
sottigliezze di psicologia e di suggestione nella poesia moderna, fra Beaudelaire e D’Annunzio. Di Giacomo dovrebbe esser classificato, a questi paragoni, come un buon poeta di provincia, sentimentale e modesto.
Invece egli è qualche cosa di unico. Poche parole cadute dalle sue labbra bastano a creare l’impressione della vita, piena e trasparente; e l’aria circola e lo spazio è aperto e gli uomini e le cose si vedono e si sentono fra sillaba e sillaba di una strofetta breve. La scena che egli dipinge è quella e non si confonde con nessun’altra in tutto il mondo: il paese, l’ora, la passione di quell’uomo e di quella donna esistono per un incanto semplice e intero, che non si può scordare. Si direbbe che in mezzo a un numero infinito di parole egli abbia scelto con una sicurezza istintiva quelle sole che convenivano; e le lascia cadere una accanto all’altra, e tutto è compiuto. «Maggio. ’Na tavernella....». Non c’è bisogno di più.
E tutti i luoghi comuni della luna e della marina e della primavera, della gelosia e dell’amore, tutte le banalità e le moralità più trite di ciò che sempre passa e sempre ritorna, acquistano una freschezza improvvisa e deliziosa, un interesse non conosciuto mai.
Ogni accento può esser nuovo in lui; perchè il suo lirismo è qualche cosa di immediato, senza analisi, è una dolcezza strana che scoppia dalle sillabe e fa qualche volta di ogni parola un’invenzione e una sorpresa. Che ci turba; come quelle cosette lievi possono aver tanta forza, come in quell’acqua chiara e superficiale può esser a un tratto tanto cielo e dolcezza e cupo, quasi senza che egli lo sappia?