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le lettere 299

Il che non basterebbe, se non ci fosse anche l’ingegno, e una reale disposizione al lavoro letterario.

Siamo andati a finire un po’ lontano dalla poesia. E il peggio è che non c’è speranza di ritornarvi. Troveremo ancora della poesia (in un certo senso che io non ho voglia di discutere, per quanto sia convinto che questa identificazione estetica della prosa coi versi è soltanto una confusione di quella ignoranza dottorale, che come diceva Montaigne, non precede la scienza, ma la segue), fra i cosidetti prosatori. Ma di cercarla nei versi, potremmo abbandonare l’impresa. Non c’è bisogno di analisi. Basta interrogare la nostra memoria: qual’è, in questi ultimi anni, messo da parte Gozzano e Di Giacomo e D’Annunzio e i morti, messi da parte costoro che insomma, per una ragione o per un’altra, non possono entrare in una rassegna reale della poesia italiana d’oggi, qual’è il libro di versi che abbiamo avuto il coraggio di portarci a casa e di leggere; qual’è il nome che abbiamo potuto distinguere nella copertina della rivista o in fondo alla colonna del giornale, come un annunzio di novità lieta, o almeno come una promessa e un invito a fermarci; qual’è il poeta, che saremmo arditi di nominare al nostro amico francese, che ci ha mostrato, insieme con le nuove ballate di Paul Fort e col dramma di Claudel e con l’ultima georgica di Jammes, (e magari con gli ultimi poemi di Verhaeren e con le stanze della De Noailles) il fascicolo di Vers et Prose, o dei Marges, o la Phalange, e il volumetto di Vildrac, e quest’altro di un giovane, che ieri non esisteva ancora?

Niente e poi niente. Lasciamo stare i vecchi che meritano tanto rispetto e i giovani che do-