Lettere (Serra)/II
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II.
Veramente costui non appartiene all’Italia di oggi, all’anno che passa. La sua persona, che conserva la giovinezza di un’altra generazione, aveva in mezzo a noi qualche cosa di diverso e di chiuso; e oggi poi lui mutato anche luogo; vive lontano, alternando con indifferenza la solitudine dell’artista che non ha legami di paese o di commercio, e il rumore mondano dell’uomo che si confonde agli altri metèci dell’attualità cosmopolita: in un senso come nell’altro egli pare fatto strano alla sua età e alla sua gente, staccato perfino dalla nostra lingua, che ha cambiato ieri con la francese e potrebbe cambiare domani con un’altra.
Così, sembra un po’ difficile farlo entrare in questo scorcio italiano. La sua influenza, di modello artistico e di maestro spirituale, abbiamo già detto che è, fino a un certo segno, esaurita: da una parte ha perduto ogni personalità, è divenuta una specie di tipo di lingua, di estetismo, di eroismo stilizzato e meccanico che serve a tutto: dall’altra parte poi, in quanto ce ne accorgiamo, comincia a stancarci; e abbiamo sentito il bisogno di liberarcene, di metterla a posto, fra le cose che non cambiano più; sì che egli ha oramai la sua casella fissa tanto come argomento di curiosità nelle interviste e nelle indiscrezioni dei giornali, quanto come campo di esercitazioni critiche obbligate e immutabili, sul tema della sensualità panica, del naturalismo e della inferiorità morale, oppure del genio della stirpe e dell’eroismo latino.
Da questo punto di vista, egli non ha più importanza nella letteratura corrente. Eppure, noi sappiamo tutti che, fra i vivi, il solo che conta è lui.
Che cosa importa il suo distacco dalla cosidetta storia?
Egli se ne va per il mondo come uno dei nostri vecchi maestri prodigiosi, una specie di Cellini venuto al servizio, non del re cristianissimo, ma di una vita avida e inquieta. Egli lavora l’oro e l’argento, il marmo, il legno, il gesso e il cemento, le materie preziose e le più vili, con una indifferenza imperturbata e sfacciata: ed è veramente delizioso, in una età in cui tutti gli snobs e tutte le cocottes non parlano d’altro che di elevazione spirituale e di idealità eroiche, questo spettacolo di un artista che si adopera tranquillamente per il bisogno e per il danaro, per l’occasione e per il capriccio e per il cibo dei suoi veltri, per il gusto di chi lo applaude e per la commissione di chi lo paga; e resta in mezzo al rumore e al bagliore e alla mescolanza non sai se più singolare ovvero odiosa di queste cose, egli solo e fermo, chiuso nell’eleganza della persona asciutta, nella freddezza del viso superbo, che i nostri occhi non sanno scrutare: scivolano su qualche cosa di liscio e lucente, che ci arresta e ci rifiuta, come un nume celato nell’anima vana.
Lasciamo stare i momenti in cui anche D’Annunzio indulge alla volgarità della stagione, e parla di se stesso ai balordi col linguaggio pomposo dei ierofanti. Guardiamo al D’Annunzio nuovo, più comune, pratico, direi quasi commerciale, che l’esilio ha mostrato; e che ci attira sempre come un portento. Nei lavori venali e commerciali egli si piace di rivelare, per il suo diletto e per la sua ambizione, delle qualità d’arte pura e inimitabile, che saranno sempre la disperazione di tutti gli artisti borghesi, dall’animo probo, ornato di intenzioni serie e di mediocrità.
D’Annunzio non può essere mediocre. Può essere monotono, falso e anche detestabile in qualche punto; ma è sempre tale in un modo, che a lui solo è concesso: potremo odiarlo e sfuggirlo; ma tutti quanti nell’atto di prendere una penna in mano per allinear dei segni sopra una carta, non possiamo pronunciare il suo nome senza un sentimento di umiltà e di rispetto. Qualunque sia la grandezza che abbiamo o che sognammo nel cuore, questo pure è certo, che in quanto serviamo come lui a questo artificio di cavar degli effetti dai segni dell’inchiostro, siamo tutti simili, ma minori, immensamente poveri e scarsi in confronto di lui.
Per lui tutto è possibile: anche far coincidere questo momento che sembra di decadenza e di falsità suprema con dei momenti di lirismo e di felicità quasi senza paragone.
In un certo senso, questi ultimi anni e ultime cose hanno consumala la decadenza del mago. Le illusioni e i prestigi che circondavano come una aureola l’opera di lui son cadute quasi di colpo; sì che l’artificio meccanico e monotono della fattura si mostra a nudo, nella fretta del lavoro.
È caduta anche la cornice materiale, che dava alla sua vita tanta preziosità quasi mistica, immobilmente inginocchiata in orazione fra le cose belle della Capponcina; l’hanno cacciato dalla villa, gli hanno venduti i cavalli bianchi e i cani, la roba greca di Signa, i ferri battuti e i cuoi stampati, le immagini sacre e i corali e gli inginocchiatoi. L’esteta esiliato ha piantato tranquillamente la sua tenda in Babilonia, e s’è messo a lavorare, pronto a tutti i comandi e a tutte le ordinazioni; scrive degli articoli letterari e delle canzoni nazionaliste, secondo l’occasione, per il Corriere della Sera, dei libretti per Mascagni e dei balletti per delle mime russe, dei misteri e dei drammi, scrive per l’Italia e per la Francia, per l’oratorio e per il teatro e per il cinematografo, senza differenza e oramai senza maschera; tutti i clichés sono scoperti e i motivi esauriti, sfruttati fino all’ultima monotonia, nell’opera venale.
È, come fu detto, una liquidazione; un uomo che vuota i suoi cassetti.
Il lirismo, che attraverso il grande inganno delle Laudi aveva pure creato cose belle e perenni, pare spento; D’Annunzio non ha più scritto, dopo Il commiato, un verso degno del suo nome; e anche l’altra parte, la pompa panica l’apparato classico italico eroico di quelle stesse Laudi, è finito nel meccanismo arido delle Canzoni d’Oltremare, scritte a getto continuo, quasi per servire di settimana in settimana l’infatuazione del pubblico e la speculazione dei giornali: niente è così grave come quei pezzi di cronaca versificata, in cui le lunghe e sensuali descrizioni hanno un realismo di bravura senza scopo, proprio come l’enfasi delle esaltazioni a freddo; e tutti i luoghi comuni, i fantocci della retorica di moda, le anime e le vanità regionali, l’odor di sangue misero e d’imperio falso sono sfruttati tranquillamente insieme con i detriti delle erudizioni e preparazioni diverse, pezzi di nazionalismo marinaro che risalgono alla e ritagli di medievalismo levantino trovati sulle orme di Barrès: la freddezza dello scrittore compone di ciò un congegno ammirabile di versi martellati e squadrati e commessi come le tessere del legno duro nella tarsia: e tutto è fino, pulito, solido, liscio, terribilmente morto e tedioso, senza una voce di poesia, fuor che un accento forse o un sospetto alla fine, come un sospiro dell’uomo stanco della vana fatica.
E così del resto; quello stile che mescola il classicismo misurato e saporito dei nazionalisti francesi e il linguaggio enorme il respiro senza ritmo di Claudel insieme coi vecchi stampi dattilici e tragici; quei versetti di un’enfasi nuova e di una maniera antica, rappresentano, meglio che lo sforzo, la indifferenza meccanica dell’uomo a cui tutti i metalli e tutte le materie sono buone per il suo conio; e raccoglie e liquida tutta la roba che gli era avanzata, utilizza il misticismo snobistico e il latino decadente nel San Sebastiano, i palagi e le pitture di Ferrara nella Parisina, il levante dei crociati e l’erudizione marinara nella Pisanella, i rifiuti del Forse che sì e d’altre cose nel Ferro, adopera tutto, senza riguardo delle origini e delle pretese ideali diverse, a vestire i soliti clichés di lussuria germinata nel sangue, di estasi candida sospirante dalle libidini, di eroismo e di incesto, in cui pare terminato ogni suo artificio inventivo.
Come non si potrebbe pensare che D’Annunzio è finito, quando lo si vede tirar fuori una vecchia esercitazione stilistica, come la Vita di Cola, che ci riporta a una stagione e a un’ambizione così differente, e ingrossarla di prefazioni e di giunte fino alla misura del volumetto da stampare; e scriver delle commemorazioni e degli articoli d’occasione, e raccattar perfino le scaglie e le minuzie cadute nell’officina, cercar nei cassetti 4 pezzi di carta, le pagine sciolte, le note, gli appunti, gli spunti non sviluppati e non messi in opera, per sciorinarli in pubblico?
Eppure, egli di rado è stato così felice.
Intendiamoci bene; non parliamo adesso della sua felicità espressiva; del miele, dell’oro che cola dalla sua bocca per necessità di natura quando la apre a parlare; e dica pure le più false e tediose cose del mondo. Quella è una qualità, fino a un certo segno, uguale in tutti i momenti; e non sarebbe difficile riconoscerne la presenza anche in codeste cose più cattive, di cui abbiamo descritta la moralità secondo l’impressione comune. Ma è una presenza, se così posso dire, muta; e sopra tutto inutile; come un portento vano; il carattere e l’accento del lavoro è nelle altre parti.
Invece in queste cose scritte un po’ a caso, mandate una dopo l’altra a un giornale che le paghi e le stampi, la qualità vera di D’Annunzio si dimostra con una purità repentina; senza schemi, senza programmi. È D’Annunzio che prende una cosa qualunque e la scrive.
È uno spettacolo bellissimo.
Son cose del suo passato, della sua vita, che ci riportano dinanzi le amanti, i giardini, le cere, i cavalli, le abitudini e le pose consuete; ma tutto questo materiale un po’ falso e stilizzato ha poco valore nella pagina nuova. È un pretesto per scriverla. Quel che importa è soltanto lo scrivere; D’Annunzio che si ferma sopra un punto, un ricordo, una sensazione e la esprime; ne cava una pagina e poi ha finito. Va per il suo cammino: la pagina resta dietro di lui lieve e sciolta come una foglia non legata a nulla; piena e perfetta in se stessa, limpida come una goccia d’acqua pura.
Sono gli articoli di cui è composto il libretto sulla Contemplazione della morte, la prefazione alla Vita di Cola di Rienzi, le Faville del Maglio, la Leda senza Cigno; in genere tutto quello che è uscito settimanalmente sul Corriere della Sera.
È inutile qui analizzare e distinguere; la Contemplazione, come ognuno ricorda, è la cosa artisticamente meno pura, è la scrittura d’occasione prolungata e gonfiata sopra uno dei soliti schemi; e ritrova, per dire i ricordi degli incontri e delle conversazioni col Pascoli, il tono ieratico delle vecchie epifanie di estetismo eroico; così come raccoglie dal San Sebastiano e dalla Parisina un poco dell’ostentazione di interesse mistico e di inquietudini spirituali; fra una falsità e l’altra la parte personale appare minore; si riduce a qualche episodio, a qualche momento di contemplazione in cui la scrittura rapida si riposa quasi senza avvertire; notando i segni dell’ora e dell’attimo, il rumore del ferro sui pini, la luce sulle sabbie e il cielo sull’oceano, una cagna che partorisce. Ma gli episodi son quasi tutta la materia dell’altra prefazione, che si direbbe rilassata, mal cucita intorno a un pezzo sull’arte latina della biografia, tutto pomposo nell’estetica che rimonta al Fuoco, a cui si attaccano i ricordi fiesolani, le cavalcate, la stalla, il canile, e poi un lungo bozzetto sulle letture di Crusca, infine una delle solite professioni di orgoglio e di ardire sovrumano. Se non che in questa debolezza di composizione, che è il segno della fretta, è la grazia delle pagine che se ne vanno sole, vive e liete, con una freschezza melodiosa che vince e fonde ogni rigore di linguaggio squisito, e allontana l’uggia dei misteri vacui.
Son le pagine in cui passano quei motivi lirici staccati dai testi di lingua, il governo dei cavalli e dei cani, la pioggia sui cipressi e sui lauri, l’albore della luna sui muri graffiti: hanno i cominciamenti e il tono consueto, ma proseguono con una certa volubilità che non ha dinanzi a sè nessuno schema, non ha altro scopo che rappresentar quel momento e compir quello spazio; e così fanno con una rapidità che odora come nei lauri percossi dall’acqua improvvisa.
In somma son pagine da aggiungere alle Faville del Maglio, nella serie che comprende assolutamente anche il romanzo della Leda. Il quale non importa se sia introdotto e risolto con l’artificio meccanico dei soliti romanzi dannunziani; questa è la cornice, il principio e la fine; in mezzo stanno cose scritte e sentite come più vive tra le «faville».
Le date ci mostrerebbero veramente un intervallo di parecchi anni. Ma non bisogna badarci molto; probabilmente si tratta di date intenzionali. Queste cose son tutte scritte adesso, di giorno in giorno, fra il 1911 e il 1913. Non pensiamo a fogli veramente e materialmente staccati dal taccuino; D’Annunzio è di quelli a cui ben poco avanza nei cassetti, che non sia adoperato subito.
Ma le cose restano nel cuore e nella memoria; immagini e sensazioni sospese, che non han servito a nulla.
È venuto il giorno, con questi anni febbrili, in cui gli è sembrato di poter cavare del materiale per i tipografi anche da quelle: e si è messo a scriverle, a una a una, senza programma, senza regola, di tempo o di argomento, mescolando i ricordi di collegio e le impressioni d’oggi, Firenze e Venezia e Parigi e le lande, l’idillio dell’amore e delle api, le sensazioni della musica e della pittura, la ragia che cola, la primavera che preme....
Non è possibile fare una rassegna di queste impressioni che hanno la rapidità e insieme la assolutezza del momento; la vita o la memoria le ha portate sulla soglia dell’officina all’artista, che non le ha lasciate fuggire; si è contentato di fermarle sui margini del foglio o su un ritaglio di carta; le ha raccolte, pur riducendole alla misura del suo stile, nelle «contemplazioni»; le ha lasciate più libere popolare e animare tutta la «prefazione»; e a mano a mano ne ha fatto nelle «faville» quasi un giornale, a frammenti e ritocchi, del suo passato e del presente.
Viene in mente Chateaubriand vecchio, che si piegava a scrivere e a far pubblicare, per la forza di un contratto lauto, sopra un foglio quotidiano, le memorie d’oltre tomba: e quella scrittura quasi d’occasione, con tutte le sue correzioni e gli accomodamenti dopo il fatto e le pose e le riflessioni della vanità non ancor stanca, riusciva la più ricca forse e la più schietta delle sue opere, piena di gioventù nuova e di poesia.
D’Annunzio non è vecchio, e non scrive con intenzione le sue memorie. Ma anche in lui c’è, per questo diario, una sorta di rinnovamento.
Non di materia; di animo.
Poiché tutti sanno che l’opera di D’Annunzio fin dal principio non è altro, in un certo senso, che una lunga e minuziosa autobiografia; una esibizione e descrizione della sua persona dei suoi amori dei viaggi delle letture; delle mutazioni e sopra tutto delle presunzioni.
Ma c’era in questo qualche cosa di falso; la rigidezza monotona di un idolo portato in processione da dei sacerdoti fastosi e senza fede; piuttosto che l’interesse di una persona viva, si sentiva la curiosità delle pose e delle fogge; l’interesse dello snobismo, che è stato del resto uno dei principii della fortuna di D’Annunzio.
E poi tutti gli episodi e i particolari esatti, materialmente veri, diventavano la materia indifferente delle costruzioni arbitrarie, delle falsificazioni tragiche estetiche eroiche, di cui il tedio e la meraviglia ci pesa ancora.
Non diremo che in codesti fogli del suo giornale D’Annunzio si sia trasformato; è sempre lui; parla di sè, con la sua bocca d’oro.
Ma egli non si propone nessuno scopo grande; ha una cosa da dire; quella sola. E la, pagina ne acquista un non so che di vero, una individualità, una realtà, che ci prende il cuore come mai non era accaduto.
Invece della vanità e del tedio, sentiamo qualche cosa di nuovo; una freschezza e insieme un tepore di vita.
Un soffio primaverile muove le parole stillate e preziose; come se le perle fine diventassero gocciole di guazza, tremanti in cima in cima ai fili dell’erba lustra. Non le vogliamo scrollare con le mani grosse.
Quella stessa virtù espressiva, che in fondo è il carattere immutato di D’Annunzio;1 la potenza di realizzare tutti gli effetti nella parola, con una rotondità di armonia e una precisione implacabile di rilievo, che ci è riuscita qualche volta odiosa nella sua freddezza, oggi, adoperandosi in modo sciolto e quasi per gioco, ci sembra più schietta; ci sono dei momenti in cui la qualità dell’artista appare liquida, senz’altro interesse che la cosa da dire, come un dono puro e melodioso.
È un D’Annunzio felice, come nei giorni più belli della giovinezza e delle Laudi di Alcione; con certi risentimenti di personalità più nervosa quasi diremmo e più nuova.
La beatitudine lirica diffusa e scorrente nelle sue pagine ha in qualche punto delle rotture: abbiamo notato nelle Faville e più ancora nella Leda dei principii di periodo nuovi, sottratti a quell’armonia che è quasi una schiavitù dello scrittore; abbiamo sentito nella sua voce un accento non soltanto ritmico, ma di attenzione quasi e di commozione; abbiamo visto lui, con una inquietudine e un’ansia davanti a qualche cosa che gli sfugge, con una durezza contro certe miserie che pur lo toccano, lui, come un uomo vero.
La sua precisione nel rendere il volo di un’ape o il riflesso di un faro fuggente sulla strada, la sua dolcezza nel tingere la cresta di una nuvola o la bianchezza di un melo o il lividor della sera in una piazza fredda, aveva qualche cosa di appassionato.
E ci siamo chiesti di che cosa ancora possa esser capace quest’uomo. Chi può tracciare i confini al suo lavoro, chi può dire se egli non sia sul punto di darci il volume dei suoi versi più belli, o la storia della sua vita più vera?
O nulla forse. L’unica cosa certa, che ci rimane di lui in tanto che lo fissiamo prima di allontanarci, è questo freddo viso alcibiadeo.
Non si pensa all’adolescente, che appare sulla soglia del convito, incoronato di violette e brillante di ebbrezza, agli occhi che lo guardano stanchi nel rossore crudo dell’alba; si pensa all’altro che parla in Tucidide, con una voce chiara, indurita dall’esperienza e dall’intelligenza: dice, che è giusto che la sua felicità pesi a quelli che vivono con lui.
Note
- ↑ Immutato. Anche In quanto egli oggi possa usare indifferentemente l’italiano e il francese, e magari l’inglese domani, come lingua letteraria. Indifferentemente e freddamente. Chi abbia solo un poco d’intelligenza del mestiere sa bene che nel problema come D’A. abbia potuto comporre il San Sebastiano e la Pisanella, con parole francesi perfette e staccate come tessere di mosaico, senza periodo vero e senza musica, (tanto che conservano il loro ufficio nella versione), si trova il segreto di tutto un carattere dei lavoro artistico dannunziano.