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294 scritti di renato serra

la civetteria degli accordi che paion falsi, delle bravure che sembrano goffaggini di novizio; si diverte a fare il piemontese, l’avvocato, il provinciale.

Invece è un artista, uno di quelli per cui le parole esistono, prima di ogni altra cosa.

Egli è l’uomo che assapora il piacere di un vocabolo staccato, il valore di un nome proprio («Capenna Capenna Capenna»), quasi come un amico di Flaubert: e adopera le parole come una pasta piena e fluente, che riempie tutto lo stampo del verso («azzurri d’un azzurro di stoviglia»!), e si incastra con delizia nella rima (....brucavano ai «cespugli» di menta il latte «ricco»). Pensate che è lui che ha fatto rimare Nietzsche con camicie! E il suo brutto verso torinese, se sfugge un poco al controllo della fattura maliziosa, se è fatto in fretta, si abbandona per istinto a una dolcezza puramente verbale e cantante, parnassiana (ricordate certi versi di Paolo e Virginia, «nella verzura dell’eremitaggio....»).

E questa sensibilità di virtuoso che gli ha permesso di creare e di adoperare con effetto così nuovo la sua maniera: in cui del resto sarebbero da considerare molte altre sfumature ed episodi, dagli influssi letterari — Pascoli, e anche un po’ di D’Annunzio — attenuati e quasi perduti in quel che si vede, ma sicuri nel principio; fino ai casi personali e al carattere di Totò Merumeni, con quelle sue tali amicizie, e gusti, e abitudini, e complessione.

È c’è poi in lui, oltre la musica, un gusto di sensazioni fresche — «come la prugna al gelo mattutino» — e anche un realismo sano e leggero di novellatore, che ci interessa e ci piace in quelle sue storie, così precise nell’ambigua tra-