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le lettere | 297 |
questo ultimo sia Gozzano; avrebbe potuto esser Pascoli o D’Annunzio e sarebbe stato lo stesso.
E si può notare che di questi poeti giovani ce n’è che non eran più alle prime armi; avevan fatto prima dei versi di tutt’altro genere, e poi son passati con facile indifferenza al Gozzano, mutando anima come si muterebbe soprabito. Non è il fatto di Civinini, mi pare, e di quell’altro che ha più ingegno di tutti, Marino Moretti?
Appunto perchè ha ingegno, il suo caso è più significativo; e rivela la inconsistenza retorica di questo che è stato preso per un episodio di poesia nuova.
Moretti ha fatto dei versi «col lapis» e delle «poesie di tutti i giorni», come l’anno prima aveva scritto dei versi dannunziani; con una abilità incontestabile. Egli è riuscito, meglio di ogni altro, a dare una espressione e quasi un corpo a quella semplicissima sensazione letteraria da cui muoveva; ma era solo una sensazione, non un’anima o una personalità, era l’effetto nascente alla lettura, del contrasto fra certe cose e un certo tono della voce. Egli ha riprodotto e moltiplicato questo effetto con una varietà ammirabile, ma così monotona e così vuota in fondo! Non c’è, dal primo all’ultimo dei suoi versi, un segno solo di mutamento o di progresso interiore: infanzia e beghine, giardini e farmacia passano e non sono altro che un’identica cantilena.
E badiamo che Moretti ha delle qualità non comuni per realizzare le sue impressioni in parole fluide e sicure; e possiede anche un certo sentimento felice della rima. Ma tutto questo è adoperato invano, a non dir nulla. La differenza da lui agli altri è soltanto questa: che mentre, dopo aver letto, si resta perfettamente vuoti, come se