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286 | scritti di renato serra |
e di commozione; abbiamo visto lui, con una inquietudine e un’ansia davanti a qualche cosa che gli sfugge, con una durezza contro certe miserie che pur lo toccano, lui, come un uomo vero.
La sua precisione nel rendere il volo di un’ape o il riflesso di un faro fuggente sulla strada, la sua dolcezza nel tingere la cresta di una nuvola o la bianchezza di un melo o il lividor della sera in una piazza fredda, aveva qualche cosa di appassionato.
E ci siamo chiesti di che cosa ancora possa esser capace quest’uomo. Chi può tracciare i confini al suo lavoro, chi può dire se egli non sia sul punto di darci il volume dei suoi versi più belli, o la storia della sua vita più vera?
O nulla forse. L’unica cosa certa, che ci rimane di lui in tanto che lo fissiamo prima di allontanarci, è questo freddo viso alcibiadeo.
Non si pensa all’adolescente, che appare sulla soglia del convito, incoronato di violette e brillante di ebbrezza, agli occhi che lo guardano stanchi nel rossore crudo dell’alba; si pensa all’altro che parla in Tucidide, con una voce chiara, indurita dall’esperienza e dall’intelligenza: dice, che è giusto che la sua felicità pesi a quelli che vivono con lui.
III
VERSI.
Parliamo di versi e non di poesia; perchè oggi in Italia non si trova altro. Ci sono, per esempio, dei poeti, anche dopo D’Annunzio; ma in questa stagione, a cui noi guardiamo, non hanno molta parte. Tacciono; o è come se non ci fossero.