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le lettere | 311 |
nè espressa con voce propria, pure abbastanza viva; ma insomma neanche lui è uscito dalla poesia generica. Un respiro ritmico intenso e veramente notevole hanno alcune cose di Rébora; come una martellatura potente sopra una materia pigra; perchè tutto il resto, lingua immagini sensi, ricade nella solita banalità lambiccata e informe dell’uso.
In ultimo è rimasto Palazzeschi. Del quale almeno possiamo sperare che non avendo ancor fatto quasi nulla, domani faccia qualche cosa. Disposizioni poetiche non gli mancano; e non è ancora legato a nessuna maniera, non ha un passato che gli s’imponga; s’è sciolta la mano con tutte quelle cosette per spasso, in cui ha sfogato insieme una voglia molto borghese di far dello spirito, delle mistificazioni e dei paradossi, e una certa felicità tenue ma sincera, d’invenzione lirica.
Palazzeschi non ha l’intensità e la ricercatezza espressiva di altri suoi compagni; e questo è il segno di una razza più fina.
Ciò che in altri è generico, diventa, fino a un certo punto personale e musicale in lui. Pensiamo a quella tendenza verso una liberazione da tutti i modi tradizionali, a quel tale liricismo e soggettivismo tecnico, che si respira un po’ da per tutto nella nostra atmosfera, come una esigenza morale e dottrinaria prima ancora che artistica; a guardar bene, vi si trova, dell’influenza francese, anche dalla musica e dalle altre arti, dello snobismo, una forte impressione di certe formule messe in giro dagli scolari del Croce e del Vossler sul linguaggio, sull’identità, fra prosa e verso, sull’intuizione lirica ecc.; e infine forse anche qualche cosa di serio. In ogni modo, tutto questo non supera l’ambizione generica, così nella maggior