Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/A Tristano

A Tristano

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Al Conte Deputato Riccardo A Fabrizio
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A  TRISTANO ...


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A  TRISTANO ...


Tristano,


Ove voi siate io non so, Tristano. Né so, quindi, se questa mia lettera vi giungerà mai.

Ma io ve la scrivo egualmente: tanto, io la scrivo per me — non per voi. Ho bisogno di questo ritornare sul mio passato, ora, ch’io non ho altro se non un buio avvenire dinanzi. Qualche ora di oblìo, su ciò che mi incombe; qualche ora di illusione di risentirmi là, ove fui e donde sono passata ormai da mesi, da anni — da secoli, anzi! — mi farà piacere. Non v’è chi domanda all'alcool, all’oppio, questa dimenticanza dell’attimo triste, questo sogno di vita vissuta? ... Scrivere, ora, mentre agonizzo, è ben più inebriante dell’alcool e ben più ipnotizzante dell’oppio! Scrivere e narrare e rivivere e riprovare [p. 270 modifica]ciò, che già fu ogni gioia ed ogni spasimo, ciò che riempì il cielo della propria esistenza e di sole e di burrasche — è l’ultima ebrezza di chi sta per morire.

Ed io sono così, Tristano: presso alla morte.

Ma dove siete, Tristano?... Ove vi ha condotto il vostro bisogno di pane, ed il vostro bisogno di errore?... In qual grande città domandate, alla più immeritevole fatica, il mezzo di vivere? In qual remoto angolo domandate all’ozio le fantasime del sogno?...

Io non so. Di voi non so più nulla, da molti mesi. Voi mi siete passato dinanzi, come una meteora, e com’essa siete andato ad estinguervi lontano, fuori del raggio della mia vista. Siete l’unica persona che, entrata nella mia vita con tanta violenza, se ne sia di poi discostata, lasciandomi in tanto completa ignoranza della sua sorte.

Se voi leggerete mai questa lettera, obietterete, qui, che non siete stato voi a discostarvi. È vero. È vero: quel grande sentimento complesso, che verso voi mi fece piegare un giorno, arrestandomi [p. 271 modifica]sul cammino ch’io percorreva, dimentica ed esaltata — e quanta disperazione in quell’oblio, e quanta collera in quell’esaltazione! — quel grande sentimento cadde, repente, un giorno, come cadono gli edifizi d’occasione, sbocciati dalla fantasia ed intonacati di stucco, sulle armature di legno. Un mirabile edifizio esso fu, dall’architettura stravagante, incrostato di musaici, abbellito di volute che, dal suolo si avviticchiavano sino ai tetti dorati, quasi squame di un pesce favoloso. Un edificio da esposizione, un edificio da fiera — pomposo ed effimero, già votato al piccone sin dalla festa inaugurale. Così cadde il grande sentimento complesso, che un giorno mi incatenò a voi, Tristano.

Malgrado ciò — malgrado la fugacità della vampa, che un dì s’accese nella fucina inestinguibile dell’essere mio — e voi ne eravate stato l’esca consapevole e tenace — essa è turbinata in troppo strane spire ed ha empito la sua ora di troppo strane luci, perchè io non la ricordi in questo avvolgere d’ombre, come uno dei più maravigliosi [p. 272 modifica]meriggi della mia vita. La stessa complessità mor- bosa del sentimento, che mi cattivò l'anima ed il senso, e mi fece allacciar l'una e l'altro, alla vostra anima ed al senso vostro, ha dato a quel breve ed ardente passato — che è di voi — una tinta, così quasi peregrina, ch'io, ora, in questo, non faticoso, ma lacrimevole riandare della mia vita trascorsa, debbo arrestarmi e coglierlo e trarlo in disparte come un filo raro di seta, in un viluppo di stami volgari.

Oh ! ... voi l'avete sempre saputo — non l'avete susurrato un giorno, là, nella sala tappezzata di quadri, seduto accanto alla donna ignota, che sedeva accanto a voi, ignoto? ... — voi l'avete sempre saputo che io, prima del vostro, aveva avuto altri amori e che, dopo del vostro, altri ne avrei avuti. E pure non avete dubitato , voi bimbo, di conquidere questa donna così esperi- mentata, così quasi sazia di vita ... Non avete dubitato un istante voi, magnifica giovinezza di audacia e di poesia — benché la donna, che aveva forse già qualche sottil filo di neve attorno [p. 273 modifica]all'orecchio, dovesse sembrarvi la lontana, la spaventevolmente lontana ed inafferrabile!...

Ma che singolare cosa fu quella! ... Che singolarissimo conciliare di eventi disparati e di elementi quasi insolubili! . . . Così spiccatamente strani, ch’io debbo, per forza, rilevarli adesso ... Non è, forse, questa l’ora della rievocazione, dell’inebriante rivivere? ...

Una mattinata d’inverno, piovosa, da passare a Firenze, fra due treni. Una noia, un non saper che fare ... l’uggia, aggravata dalla balordaggine domenicale! E così, tanto per ammazzare quelle due ore, una visita nel primo museo, dinanzi a cui il caso di una vettura di piazza mi aveva fatta passare.

Ed eccomi là, sola, a girare per la lunga fila di sale, guardando con occhio, appena curioso ed appena interessato, quelle pareti da cui pendono, a volte mirabili, a volte quasi grotteschi, i tesori dell’arte pittorica. Per le finestre la bigia luce del bigio cielo investiva le tele — ed era [p. 274 modifica]un gelo, una sensazione di umido fin nelle ossa, una tristezza di stagione e di ambiente, un vuoto del cervello e del cuore e delle stanze, così gravi e così pungenti, da disanimare il più accanito feticista dell’arte.

Alungo mi aggirai noiata, ed anche stanca, mentre il pensiero andava con desiderio quasi tormentoso alla comodità, al tepore, alle poltrone, ai fiori della mia casa, alla vita agitata e rumorosa della mia Roma diletta.

Infine, per riprender lena e, forse, per pensar meglio a mio agio, sedetti sopra un grande divano centrale e stringendomi nel mantello, rimasi immobile, fissando senza vederla, una tela qualsiasi.

Né, nella mia preoccupazione noiata, mi avvidi di un uomo che sedeva sullo stesso divano, volgendomi le spalle. Ma, dopo poco, un sommesso brontolìo, un agitarsi, uno strusciare dei piedi impaziente, mi fece volgere il capo.

Al movimento, il portamonete che teneva sulle ginocchia scivolò e cadde — e, nell’urto, si aprì spandendo a terra tutte le monete. [p. 275 modifica]Un minuto dopo le mani vostre versavano, nelle mie inguantate, il danaro raccolto e gli occhi miei si levavano ai vostri — stupefatti — Che cosa accadde?... qual fluido inatteso da me si distaccò per avvolgervi?... Oual mistero leggeste nel mio volto — nello sguardo e nella bocca?.. Oual tremore scorgeste, nelle piccole mani guantate, che si protendevano verso voi, fuori del mantello, in una mossa di mendicante che implora l'obolo? Vi parve, forse, che la mia preghiera — che le mie mani tese a raccoglier le monete — implorasse da voi l’elemosina della vostra raggiante adolescenza? Fui io che caddi soggiogata a voi, o foste voi che cadeste soggiogato a me?...

Io non so — o, pur, credo sapere che io fui ad avvincervi. Voi eravate troppo bello, e troppo bimbo — perchè, oltre la scintilla che guizzò nelle mie fibre e le destò, in un subito eccitamento — qualcosa di più saldo, di più poderoso mi imponesse la vostra dominazione.

Ma come eravate bello, e come eravate bimbo, Tristano! — I miei occhi guardavano con stupore [p. 276 modifica]il vostro viso lungo ed un po’ emaciato ed un po’ pallido, i vostri lunghi capelli dorati, la sottil peluria d’oro che vi orlava la bocca come una cornice preziosa, e scendeva sul mento e si distendeva sulla guancia. Una grande fronte, due grandi occhi, una grande bocca sanguigna, come se avesse addentato entro delle carni palpitanti. E su tutto ciò — che era divinamente fresco e maschio al tempo stesso — un velo di malinconia e di sogno, un ritmo di amarezza e di sconforto — una nuvola d’incenso sopra un ostensorio.

Quanti anni avevate allora, Tristano?.... Venti, non è vero?...

Che deliziosa miseria di età!... che tenue fardello di vita sulle spalle vigorose!...

Subito io lo vidi che eravate un fanciullo. Squisitissimo si — ma un fanciullo ’... e chinai gli occhi e colle mani, ormai raccolte, mi occupai a riordinar la moneta entro il borsellino.

Ma voi parlaste, ed io vi ascoltai. Che cosa diceste in prima?... Qualche amabile frase vuota, certo — e sul tempo, e sulla galleria, e sul [p. 277 modifica]valore dei quadri. E che cosa vi risposi io? Certo, altrettante cose insignificanti.

La voce nostra ebbe, essa, qualche suono più significativo, o rese essa più avviluppante il fascino delle nostre persone?... Io non m’alzai per partire e voi sedeste accanto a me, anziché alle mie spalle. E parlammo ancora, o, meglio, parlaste. Con parole, non chiare certo, ma che si indovinava celare molto dolore, accennaste alle sventure della vostra casa — i genitori morti, nessun fratello, lontani parenti sconosciuti — alla vostra solitudine nel mondo, neppur confortata di ricchezza. Mi diceste il dubbio del vostro avvenire — un troppo arduo sogno d’arte — e del presente tormentato di angustie.... Io vi ascoltava commossa, già presa da quell’incanto di pietà, da quel bisogno di soccorrere, che è stata sempre la parte più vulnerabile dell’essere mio. Voi mi sembravate così delicata cosa!.. Un fiore, appena sbocciato, su cui qualche brutto insetto si accanisse in un lavorìo di distruzione. E già entro me si agitava l’istintiva impazienza di [p. 278 modifica]scacciare il nemico, e di sollevare lo stelo piegato, e di rialzare verso il sole la povera corolla languente. E vi guardava, e fissava la vostra faccia così pallida e bella e tutta d’oro, provando, quasi infrenabile, il bisogno di prenderla fra le mani e di rivolgerla verso il cielo... verso il sole.

Ma il sole non c’era. Pioveva ancora a dirotto, e tutto era bigio: il cielo e la luce, che entrava per le finestre ed avvolgeva, nella sua tristezza, le mirabili tele variopinte. Pure tutto non era bigio nelle anime nostre. Un lieve albore si levava, sfumato di rosa, e gli occhi della nostra anima guardavano quell’albore con maraviglia e con trepidazione.

Che cosa avveniva?... Perchè quel subitaneo rischiarare del nostro orizzonte, mentre nulla, apparentemente, era avvenuto, oltre l’incontro con un estraneo della vigilia e del domani? ... Perchè, nello spirito nostro era una confusa letizia, come per un evento fortunato? Perchè, entro le vene, qualcosa fremeva come per un presentimento? V’è, dunque, più forte dell’intuito spirituale, una [p. 279 modifica]prescienza della carne, che dice in cospetto di un’altra: Noi saremo nostre?...

In quel mattino triste d’inverno, in quelle squallide sale tappezzate di ricchissime tele, a noi parve che l’ora trascorresse infinitamente azzurra e dolce, e lievemente punteggiata di sole. Una grande tenerezza agitava le mie viscere di donna, che non era stata madre: la tenerezza della madre, che è donna, e che si curva tutta pietà e tutta amore verso l’adolescenza, che avrebbe potuto quasi esserle figlia. Voi, forse, lo sentiste nelle mie pacate parole di conforto, e l’improvviso fuoco del maschio si distese entro un viluppo di sentimenti quasi di divozione. Non avevate voi venti anni ... e non aveva io già, presso la tempia, qualche sottile filo bianco?..

Ed anco l’ora passò. Guardai l’orologio: il tempo di tornare all’albergo e di partire. Io ve lo dissi, alzandomi in fretta. Oh il lamento della vostra anima, nelle semplici parole di meraviglia!.. Diceste:

— Partire?... Ma come?... Firenze?... [p. 280 modifica]— No, no — risposi e sorrisi, al pensiero della mia Roma diletta, verso la quale tante dolci e tormentose cose e tanti affanni crudeli mi chiamavano ineluttabilmente — No... Io sto a Roma... Son qui di passaggio....

Una infantile aria di cruccio, una adorabile mossa di broncio nella vostra bella e grande bocca sanguinosa, ed una infinitamente cara ingenuità nella domanda:

— E allora?...

— E allora... — dissi io, un po’ ridente ed un po’ triste — e allora... addio....

Diveniste più pallido, ed anche l’oro della vostra guancia sembrò oftuscarsi. Vi guardaste d’attorno, con l’ansia di chi cerca, nel vuoto, l’appoggio sperato e mancatogli di un tratto.... poi imploraste piano:

— Un’ultima grazia... La mano....

Ve la porsi, maternamente. La prendeste e la guardaste e la rivolgeste verso la palma — poi, più rapido del pensiero, la portaste alla bocca e le vostre labbra si affondarono, ingorde, nella [p. 281 modifica]piccola apertura del guanto. Io la ritrassi molto seria, sdegnata anzi, e vi volsi le spalle per uscire. Ma voi seguiste, mugolando una preghiera, come un bimbo in pena:

— Il nome, signora... Il nome...

Risi un po’. Il nome!... A che vi serviva il nome, se centinaia di chilometri ci separavano?... Crollai il capo, e:

— Bébé! — dissi ridendo.

Mi saettaste un’occhiata di fuoco, ed entro me qualcosa tremò. Ritto, forte, uomo, audace, solenne, imperioso comandaste.

— Il nome, dunque, a questo bébé!...

Ve lo dissi, e voi me ne ringraziaste con una sola parola tremula:

— Grazie, signora ..

Già eravamo al fondo delle scale. Traversammo l’atrio. La carrozza di piazza aspettava, grondante sotto la pioggia. Sulla soglia vi tesi ancora la mano e, nella stretta, vi augurai, con tutto il cuore ritornato calmo:

— Buona fortuna!... [p. 282 modifica]

Entrai nella carrozza — e voi restaste, sottile e diritto, nel vano del portone, il capo biondo e la grande fronte scoperta, — bello e bimbo, con la faccia d’oro e la bocca di sangue....

Di ritorno a Roma, la vita mi riafferrò. Una grave crisi finanziaria, già da tempo minacciante la famiglia, assorbì tutte le mie energie e mi costrinse all’azione assidua. Nel caos, pieno di torbide preoccupazioni, la vostra figura, Tristano, si attenuò molto: io non pensai più a voi, e se alcuna volta un fantasma, che vi somigliava, passò sullo specchio del mio pensiero, fu forse più per l’effetto di un giuoco di luci, a cui il mio volere era estraneo, che non un cosciente lavorìo evocatore.

Due mesi erano passati, dalla fosca mattinata fiorentina, e su Roma fulgeva lo splendore dell’imminente primavera. Per un affare di locazione di appartamento me ne andai alla posta, [p. 283 modifica]a ritirare una lettera, che attendevo. C’era molta gente allo sportello — la ressa bizzarra di donnine, di spostati, di forestieri, che aspetta il biglietto dolce, l’impiego, o la corrispondenza timbrata di bolli esotici. Io domandai al mio nome, e con mio grande stupore — e non senza stupore di coloro, che mi premevano alle spalle, aspettanti a lor volta — l’impiegato mi consegnò un vero fascio di lettere. Incerta lo presi, fra gli sguardi invidiosi delle donne e qualche risa d’uomo, e mi scostai a guardare donde mai mi venisse una cotal valanga epistolare.

Erano dodici buste, tutte di egual formato e di eguale calligrafia, a me sconosciuta. Venivano da Firenze.

Del tutto sbalordita, le mille miglia lontana dal supporre la verità, ne aprii a caso una, e guardai la firma. Eravate voi, Tristano!

Ma qual maggior meraviglia fu la mia, quando, ridotta nella mia casa, io ebbi decifrato, non senza fatica, l’intricato dedalo delle vostre lettere! ... Tutte le confidenze che un fanciullo può fare ad [p. 284 modifica]una madre, tutte le confessioni che un uomo può fare ad una donna, tutte le vostre pene di passato, di presente e di avvenire, tutti i vostri sogni di poeta, tutti i vostri desideri di maschio, tutte le aspirazioni della vostra anima e della vostra giovinezza, si urtavano confusamente nelle paginette, fitte di una calligrafia irregolare, a volte quasi indecifrabile.

Ed ogni lettera ripeteva il lamento: « — Questi miei gridi di miseria e di passione giungeranno mai alle vostre orecchie, signora? ... Queste mie lacrime di terrore e di amore cadranno esse mai sul vostro pietoso grembo, signora? ... Non so! ... Non so! ... Io scrivo — io grido — io piango. E forse ogni cosa cadrà vana sempre, come vana fiorisce la mia giovinezza priva della luce, di cui voi sola potreste illuminarla! ... »

Tristano! O creatura di bellezza e di genio, o fanciullo maraviglioso, per qual portento di caso, per quale arcano addensare di comandi superiori, il fatto accadde? Perchè mi amaste voi, Tristano?.,. Perchè vi amai, io? [p. 285 modifica]

Come fu che due elementi, così disparati — voi bimbo, io donna ormai, quasi matura — si unirono un giorno nel più strano e nel più ardente vincolo?

Io non fui vostra però, Tristano ... Di me non aveste che tutto il mio ardore di baci e tutta la tenerezza della mia pietà. E di voi io ebbi tutta la esaltazione passionata, morbosamente sensuale, della più arida rinunzia. Noi non ci appartenemmo: noi non fummo mai amanti. Eppure nessuno amante si sarà mai dato con tanto aspra voluttà, con tanto tormentosa gioia, con tanto lacrimevole abbandono, di quanto non infierirono, folli, sulla nostra dedizione spirituale.

Ricordate, Tristano? Le vedete voi, come io le vedo adesso, le ore ardenti ed angosciose? ... lo sentite voi, come io lo sento, il brivido di quella visione, che ci riconduce dinanzi un passato di tanto errore e di tanta torturante felicità ? — Io non so, io non ho potuto saper mai tutto l’abisso del vostro pensiero e del vostro sentimento! ... [p. 286 modifica]

Perchè, nel mentre mi stringevate fra le braccia con tanta febbre di desiderio che i vostri denti ne stridevano di spasimo, perchè, mentre la vostra bocca si posava su me, come avida di sbranarmi, perchè, giovine leone, non mi atterraste mai, e non mi sbranaste mai, selvaggiamente ?... Che cosa vi frenava — una religione o una follia?... Eravate un mistico, od un vizioso ? ... La mia carne vi pareva santa, o vi pareva sozza? ...

Non so. Non so. I vostri bramiti di belva si alternavano a lunghi silenzi cupi, pieni di minaccie. I vostri sguardi avevano a volte carezze d’infinita soavità, a volte si infossavano, truci, sotto la fronte contratta. Che cosa vi agitava, Tristano, in quelle singolari, e tumultuose, e miserevoli ore di amore? ...

Che cosa agitasse me, io so. Quando, alle vostre lacrime ed anche alle vostre minacele, io cedei, non vinta, ma sopraffatta, io sentii subito che nulla di buono sarebbe stato fra noi.

Che cosa potevate dare a me, voi, fanciullo. [p. 287 modifica]troppo bello e troppo ignaro e troppo morbosamente complesso? ... Della bellezza, della inesperienza, degli avvolgimenti di senso e di sentimento, malsani. Che cosa poteva dar io a voi, io donna, ed esperiente, e troppo schiettamente appassionata?... Una grande pietà, o dei grandi insegnamenti, o delle irrimediabili delusioni. Nulla fra noi, era comune. Fra le nostre due vite erano tutti gli abissi: dell’età, del temperamento, della psiche. Più matura di voi alla vita, ed alle sue insidie, io vidi ciò subito — e dalle vostre lettere, prima, e dai vostri baci, dopo. Tuttavia mi arresi un giorno alle vostre preghiere, quasi minacciose e pur singhiozzanti, di che voi empivate le vostre lettere.

In qual modo poteste venire a Roma, quando, finalmente, vi dissi la tanto attesa sillaba di consenso?... Io non ve lo domandai — e come l’avrei osato? — na dentro me, la mia tenerezza si acuì [p. 288 modifica]della compassione di pensarvi forse privo di alcuna cosa necessaria, per pagarvi il lusso di quel grande superfluo, che era il nostro incontro!... E quanto avrei voluto — io che vi dava l’anima e che mi apprestava a darvi anche il corpo, per la misericordia di quelle vostre implorazioni insensate — darvi il mio, pur non pingue, portamonete!... Quante volte, nel seguito, pensandovi oppresso da quelle cosi feroci angustie di denaro, ch’io sapeva mozzare ogni vostra energia ed attristare ogni giornata vostra, quante volte avrei voluto dirvi, offrendovi la mia borsa: — È vostra, Tristano.

Ma come avrei potuto far ciò, senza mortalmente ferirvi, senza sollevare, forse in una catastrofe, tutta la vostra collera, contro la sorte avversa, che v’imponeva anche l’umiliazione di essere povero? — Io non vi offrii mai il mio danaro, dunque, ma vi offrii la mia anima, con lo stesso sentimento profondo di carità. E quando, quel mattino, io mi recai da voi, nella modesta camera d’albergo, una sola cosa mi guidò: la pietà della vostra infelice giovinezza. [p. 289 modifica] Ma, oh cielo, come eravate bello!... Subito, dalla soglia, voi mi pareste ancora più bello, di quanto non vi avessi ammirato nella galleria fiorentina. — Qualcosa di nuovo investiva tutta la vostra persona: l’orgoglio di una vittoria, che avevate disperato conseguir mai. Ed io rabbrividii di commozione, sentendo che, entro le mie viscere, una forza improvvisa si alzava sopra la pietà della mia anima e la dominava. Vi amava io, dunque, di amore?... Era, dunque, l’amore quello che mi teneva sbigottita, e pallida, ed inerte, sulla soglia della vostra camera?...

Amore era. Ma morboso anch’esso, al pari del vostro. Non era la virtù somma di natura, quella virtù per cui tutto nasce e si rinnuova perennemente in una feconda opera vivificatrice, sotto la limpida e schietta luce del sole. Era l’amore, complicato e tortuoso, che si piace dell’ombra, forse perchè, per essa, ancor meglio sfavilli il fuoco di ardori sterili e mortali. In verità io vi amava perchè eravate bello e perchè eravate così giovane ch’io, quasi, peccaminosamente, avrei potuto credervi figlio... [p. 290 modifica]

Così, tra voi e me, un grande errore e, forse, una grande colpa, si intromise, avvincendoci. Dal nostro primo all’ultimo nostro convegno — e non furono molti — non mai fra noi si levò, puro, un attimo di sincerità passionale. Noi mentimmo sempre a noi stessi, imponendoci il martirio di figurazioni infinite, che ci dassero l’acre piacere di sensazioni preziose e nuove, sempre miserevolmente assurde. Ora, ripensandovi, io vedo tutto il grottesco, tutto il vacuo, di quelle nostre ore di amore, così febbrilmente desiderate nell’illusione della lunga vigilia, così desolatamente trovate vane nel lungo domani. Da quei rari convegni noi uscivamo affranti, tristi fino alla morte, con un peso angoscioso sul cuore — un rimorso.

Quale aberrazione ci teneva? Non vedevamo noi, in un ultimo barlume di ragione, il delitto immenso ed imperdonabile, per cui da noi stessi ci inchiodavamo alla gogna del ridicolo? [p. 291 modifica]


Per questo, ch’io soffro ancor oggi ricordare, io vi avrei odiato poi, Tristano — ed avrei discacciato il vostro ricordo, come uno spettro importuno e pauroso. Se ciò non fu — s’io serbo ancora di voi un ricordo, che è dolce, e che mi fruga l’anima di commozione — io lo debbo a quella che, caduto l’ardore del momento, imperava pur sempre nell’anima mia: la mia pietà per la vostra giovinezza derelitta. Per quella pietà, io profusi, in vostro favore, tutte le delicatezze di cui è capace un cuore di donna, che può essere materno; io vi offrii tutto il soccorso del mio consiglio, tutto l’aiuto della mia forza — io volli, per un miracolo di carità, trasfondere entro l’anima vostra, incerta e dolorosa ed ingombra di penose visioni, la mia anima accesa e forte e vibrante di vita. Tutto ciò ch’io sentiva vivo, in me, io avrei voluto donarvi... Non era, ormai, io tale da potermi far senza della esuberanza [p. 292 modifica]della vita, e non eravate voi bisognoso di possederne, almeno, il necessario? ...

Ed io tutta la mia forza vi donai, senza risparmio, con l’ampia generosità di chi si crede — o si illude — inesauribile ... Nelle mie lettere, quando voi eravate lontano, nelle mie parole quando eravate vicino, quanta parte più robusta di me non cercai darvi — io, che pure aveva tanto sofferto e tanto amato e tanto disperso in mille delusioni e mille esperimenti della mia potenza! — a voi, che eravate ancor all’inizio della vita, e che pur già vi trovavate cosi debole e così incerto?

Né voi potete averle dimenticate, Tristano, quelle sante ore di pietà e di pietoso fervore. In esse io cercava di dimenticare le altre veementi, e quasi irose, nelle quali pur tanta bella nostra energia cadeva distrutta e sperperata invano. Noi andavamo, allora, per le vie lontane dal centro, parlando quieti, fors’anco un po’ malinconici, ma di una malinconia soave, che non ci dava lacrime. Di nuovo voi mi narravate i dolori vostri [p. 293 modifica]e di nuovo io vi porgeva il conforto mio. Cosi, come voi eravate instancabile, nel presentare, sempre sotto nuovi aspetti, la medesima sostanza di dolore, era io instancabile nel presentare, sotto ogni forma, il mio aiuto. Quel non so che di morboso, ch’era in voi congenitamente, tornava ad emergere ad ogni istante, ed io, ad ogni istante, mi adoprava a ricacciarlo al fondo, come un importuno scoglio al quale, presto o tardi, il nostro vincolo si sarebbe spezzato.

Andavamo fuori delle porte, in tram, poi ci dilungavamo per le vie traverse, e più di una volta, seduti sul ciglio di un viottolo, insieme tacemmo a lungo, aspettando l’ora di separarci. Quale divino incanto in quelle ore di silenzioso raccoglimento! ... Io sentiva presso a me il vostro respiro e, senza guardarvi nel viso, sentiva la vostra adolescenza fiorita, come se fosse una corolla profumata. Pensava allora — ed a volte il tramonto accendeva le cime degli alberi e già indicava l’ora del ritorno — di avere accanto a me una creatura della mia giovinezza e del mio [p. 294 modifica]amore, una creatura mia, del mio cuore, e della mia carne, e l'onda di nostalgia dolorosa, che mi fluttuava nell’anima, conduceva le lacrime nei miei occhi. Voi... non so a che cosa pensavate. Che cosa vi sembrava io mai? ... Una madre? ... Un’amante ? ... Una benefattrice? ... Una colpevole complice? ...

Ed il tempo rapido volava. Entrambi guardavamo il cielo coprirsi di cenere, ed allora ci alzavamo in fretta, ed in fretta ritornavamo alla stazione del tram.

Senza parole, quasi, la via fulminea era rifatta — e ancora un giorno di errore era passato nella breve storia del nostro amore.

Ricordate quella sera, Tristano?... Fu l’ultima. Il domani dovevate tornare a Firenze ... e dopo quel domani tutto ciò, che ci era parso sino allora dovesse durare eternamente tale, si sfasciava per sempre. [p. 295 modifica]

Era una bella sera di novembre. Non faceva freddo e non era tardi: ma la notte era già sopraggiunta. Eravamo esausti, e tristi del delirio di un ultimo addio, nel quale avevamo voluto annichilare perdutamente l'anima nostra, forse nella speranza di non udirla piangere più. Giunti in piazza di Spagna, voi proponeste di risalire la scalea della Trinità dei Monti.

Così ne andammo su, per la faticosa via, appena rischiarata, e voi sorreggevate la mia persona validamente, con la giovine mano robusta. Un gradino dopo l’altro, silenziosi e stanchi, ma meno tristi, ormai, come se quella ascesa ci conducesse fuori del fango, su, su, verso qualcosa di alto, e di luminoso, verso un’atmosfera meno pesante. Al sommo, voi, Tristano, vi appoggiaste al mio braccio, e così, uniti, e senza parola, volgemmo verso il Pincio. Non faceva freddo, e la mia pelliccia non serviva ad altro che a darci la soavità della sua carezza sulle gote e sulle mani.

Che cosa dicemmo, nel deserto e buio viale della villa Medici? ... Molte e confuse e tenere [p. 296 modifica]cose, tutto un delicato poema di sentimento e così squisito, così finemente eletto, che lo spirito nostro ne fu dilatato di gioia.

Uniti così giungemmo presso la fontana. Ricordate, Tristano, il chiocciolio monotono dell’acqua, nell’ampio silenzio della notte vicina? ... Cadeva il sottil filo, spruzzando, entro la capace coppa di porfido, e noi restammo un pezzo senza parole, ad udirne il lamentìo cristallino. Che cosa diceva quella voce di acqua, perennemente lamentosa? ... Che la vita passa, l’amore passa, la giovinezza passa, che, più rapide di ogni altra cosa, passano le follie della passione? ... Forse questo diceva il querulo getto, ricadendo entro l’uniformità dello specchio liquido. Noi ascoltammo a lungo inerti, incapaci pur di tristezza, nell’intorpidimento di tutti i nostri sensi. Poi ci allontanammo ancora, per riprender la via verso il giardino oscuro ... Ma il cancello era chiuso — il largo cancello, che vieta l’ingresso del Pincio alla notte. Oh, Tristano!... come restammo colpiti nell’anima da quel cancello chiuso! ... Noi [p. 297 modifica]non dicemmo nulla, ma qualcosa in noi si chiuse, come se quell’ostacolo, anziché sbarrare il passo del nostro cammino, avesse sbarrato la via del nostro amore!... Sciolti ormai, con le mani strette alle sbarre, ed i visi intromessi alle sbarre, noi rimanemmo alquanto a guardare al di là della serrata, entro l’oscurità degli alberi, forse sperando che l’occhio, a forza di scrutare, discernesse alcunché di noto e di confortante. Ma non vedemmo nulla, se non il nero del fogliame denso, ed il viluppo delle piante immote.

— Andiamo, Tristano? — dissi, con voce fioca, triste sino alla morte.

Voi mi prendeste fra le braccia, nervosamente, e dinanzi al cancello chiuso, sul giardino — e sul futuro — ancora una volta cercaste le mie labbra, ed ancora una volta a lungo, irosamente passionato, le teneste unite alle vostre.

Un gemito, un urto di tutte le viscere, un volo di tutta l’anima... e Tristano e Vivian non si sarebbero veduti mai più! [p. 298 modifica]

Ritornammo... senza febbre e senza conforto, stanchi, vuoti, come due corpi privi di anima.

Che cosa ci dicemmo ancora ?... Qualche parola inutile. L'ora della partenza, le previsioni della temperatura — e l'ultima, la consapevole menzogna: la promessa di rivederci presto... il più presto possibile...

A pie dell'Obelisco della Trinità era una car- rozza. Vi salii ed a traverso lo sportello, vi diedi l'ultima volta la mano, e le nostre due voci dissero insieme l'estrema parola :

— Addio!...

E dove siete ora, Tristano ? Chi sa ove vi ha condotto il vostro bisogno di pane ed il vostro bisogno di errore ! — Questa lettera non vi giungerà forse mai, ma non importa. Io non l'ho scritta per voi — l'ho scritta per me, per dare, a queste ultime mie ore, l'ebrezza di rivedere la vostra maravigliosa figura di adolescente, e di rivivere quel tempo in cui essa fu tanto, e così profondamente, mia.

Ed ora, addio, Tristano — davvero, addio. — [p. 299 modifica]Il cancello della vita si è chiuso, dinanzi a me — ed io non posso andar oltre. Di qua, da questa mia solitudine, che pure è alta più dell’altura del Pincio, io vedo — come già noi quella sera Roma distesa e fiammeggiante delle sue mille luci — il mio passato, ed esso non mi sembra sì bello e sì luminoso ch’io abbia a soffrirne di abbandonarlo per sempre. — Quante plaghe buie, quanti viluppi di edifici confusi, anche nel panorama di Roma! La vita trascorsa si presenta così, quando si muore: una città, vista dall’alto nella notte — fiammelle poche e grandi aree indefinibili, forse di fango.

Addio, Tristano — fanciullo bello e strano ed infelice. — La mia pietà vi segue ancora e vi seguirà oltre la tomba, o figlio mio!

Viviana.